Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 26397 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 26397 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato in Pakistan il 14/8/1975
avverso la sentenza del 4/4/2023 della Corte di appello di Caltanissetta; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio limitatamente al terzo motivo di ricorso, con dichiarazione di inammissibilità nel resto;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 4/4/2023, la Corte di appello di Caltanissetta confermava la pronuncia emessa il 13/7/2022 dal locale Tribunale, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole del delitto di cui all’art. 7, d.l. 28 gennaio 2019, n
4, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 marzo 2019, n. 26, e condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione.
Propone ricorso per cassazione il COGNOME deducendo i seguenti motivi:
violazione degli artt. 3, 73, comma 3, 117 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU, 2 cod. pen. L’art. 1, comma 318, I. 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di Bilancio 2023) avrebbe disposto l’abrogazione degli artt. da 1 a 13 del citato d.l. n. 4 del 2019, a decorrere dal 1°/1/2024; la norma, dunque, sarebbe già entrata in vigore e soltanto il suo effetto sarebbe stato differito. Opererebbe, pertanto, i differimento della produzione degli effetti retroattivi di una lex mitior, che abroga la norma incriminatrice: a far data dal 1°/1/2023, tale abrogazione avrebbe dato luogo ad una successione di leggi penali, disciplinata dall’art. 2 cod. pen., comportando la relativa abolitio crimínís. La norma abrogatrice di una fattispecie incriminatrice, infatti, sarebbe norma più favorevole per eccellenza, la cui retroattività sarebbe imposta dai principi costituzionali che regolano la materia; tale effetto, con l’introduzione di una lex mitior retroattiva, si sarebbe prodotto con l’entrata in vigore della norma abrogatrice, ossia il 1°/1/2023. A nulla varrebbe, peraltro, il mero differimento dell’effetto, in quanto l’orientamento giurisprudenziale maggioritario riterrebbe addirittura applicabile la legge penale più favorevole già durante il periodo di vacatío legis, ossia ancor prima dell’entrata in vigore della lex mitior;
violazioni di plurime ‘disposizioni comunitarie, analiticamente richiamate nella rubrica del motivo. Premesso che il ricorrente sarebbe stato condannato per false dichiarazioni relative alla propria residenza in Italia da almeno 10 anni, al momento della presentazione della domanda del reddito di cittadinanza, si sottolinea che tale previsione sarebbe in contrasto con i principi del diritto comunitario, riservando a un cittadino di Paese terzo – anche beneficiano di un permesso di soggiorno di lungo periodo – un trattamento diverso e deteriore rispetto a quello previsto per i cittadini residenti sul territorio nazionale. questione – che evidenzia la violazione della Direttiva UE 2011/95 – sarebbe stata peraltro già fatta oggetto di pregiudiziale comunitaria da parte del Tribunale di Napoli, con proposizione di vari quesiti che il ricorso elenca analiticamente. Si chiede, pertanto, che la sentenza venga annullata senza rinvio per abolitio criminis, stante il contrasto con i principi di diritto comunitario, o che, in subordine, il presente giudizio sia rimesso alla Corte di giustizia di Lussemburgo, o sospeso in attesa della decisione già sollecitata;
violazione degli artt. 192, 533, 546, comma 1, cod. proc. pen. La responsabilità dell’NOME sarebbe stata confermata con motivazione viziata e con asserzioni apodittiche, che non terrebbero conto degli esiti istruttori e dei motiv di gravame. La data di arrivo in Italia, peraltro, sarebbe stata affermata in maniera
del tutto presuntiva, quel che l’imputato avrebbe messo in discussione con la propria versione. L’assenza di prova certa circa il momento di arrivo in Italia, dunque, escluderebbe la sussistenza del reato, in termini sia oggettivi che psicologici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
Con riguardo al primo motivo, questa Corte ha più volte sostenuto che l’abrogazione, a far data dal 1°/1/2024, del delitto di cui all’art. 7 in esame disposta dall’art. 1, comma 318, I. n. 197 del 2022, nel far salva l’applicazione delle sanzioni penali dallo stesso previste per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina, deroga al principio di retroattività della “lex mitior”, altrimenti conseguente ex art. 2, comma secondo, cod. pen.: tale deroga, tuttavia, in quanto sorretta da una plausibile giustificazione, non presenta profili di irragionevolezza, assicurando la tutela penale all’indebita erogazione del reddito di cittadinanza sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di detto beneficio, posto che la sua prevista soppressione si coordina cronologicamente con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 di. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, riferita agli analoghi benefici per futuro introdotti in sostituzione del reddito di cittadinanza (per tutte, Sez. 3, 7541 del 24/1/2024, COGNOME, Rv. 285964. Tra le molte non massimate, Sez. 7, n. 19736 del 28/3/2025, COGNOME; Sez. 3, n. 19088 del 13/5/2025, COGNOME; Sez. 3, n. 12665 del 12/3/2025, COGNOME).
La prima censura, pertanto, è infondata.
Con riguardo alla seconda, centrale questione, occorre ribadire che il ricorrente è stato condannato per la violazione dell’art. 7, comma 1, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 marzo 2019, n. 26, perché, al fine di ottenere indebitamente l’erogazione del cosiddetto reddito di cittadinanza, dichiarava di risiedere in Italia da almeno 10 anni, mentre vi era giunto per la prima volta il 13/3/2011 (ed aveva ottenuto il primo permesso di soggiorno il 28/6/2011). In Caltanissetta, tra il 6/3/2019 ed il 23/3/2020.
5.1. È stata accertata, dunque, l’assenza di uno (solo) dei requisiti di cui all’art. 2, d.l. n. 4 del 2019 ex comma 1, lett. a), n. 2 – in forza del quale il reddito di cittadinanza è riconosciuto a soggetto residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo.
Tanto premesso, questa Corte osserva che, nelle more della decisione, sono state emesse due sentenze di rilievo evidentemente decisivo per la definizione del presente giudizio.
7. In primo luogo, il riferimento è alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C223/22, N. D., che ha analizzato l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della diretti 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, secondo cui questi soggetti godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale.
7.1. La Corte ha innanzitutto individuato la natura della misura. Al riguardo, è stato rilevato che, secondo costante giurisprudenza, “nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Cort è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza”. Muovendo da questo principio, e dunque dalla natura riconosciuta dal giudice nella domanda di pronuncia pregiudiziale, la Corte ha specificato che il reddito di cittadinanza “costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 de Carta”, che concerne “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale”, con riguardo alle quali misure “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali”.
7.2. Di seguito, la sentenza ha evidenziato che:
a) “l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109 prevede tassativamente i casi in cui gli Stati membri possono derogare, in termini di residenza, alla parità di trattamento tra cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo e cittadi nazionali. Pertanto, al di fuori di tali casi, una differenza di trattamento tra ques due categorie di cittadini costituisce, di per sé, una violazione dell’articolo 11 paragrafo 1, lettera d), di tale direttiva”;
b) “la direttiva 2003/109 prevede, al suo articolo 4, paragrafo 1, un requisito di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni nel territorio di uno Stato membro affinché il cittadino di un paese terzo possa ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo da parte di tale Stato membro. Dalla suddetta disposizione, letta congiuntamente al considerando 6 della direttiva, risulta che il legislatore dell’Unione ha considerato che tale periodo di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni testimoni il «radicamento del richiedente nel paese in questione», e
debba quindi essere considerato sufficiente affinché quest’ultimo abbia diritto, dopo l’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo, alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva”;
c) Pertanto – ha così affermato la Corte di giustizia – uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, senza violare quest’ultima disposizione e l’obiettivo da essa perseguito, consistente, come risulta dal considerando 12 della medesima direttiva, nel garantire che lo status di soggiornante di lungo periodo costituisca «un autentico strumento di integrazione sociale».
7.3. In forza di questi principi, la sentenza della Corte UE ha quindi concluso che la disposizione impugnata, letta alla luce dell’articolo 34 della Carta dei dirit fondamentali dell’Unione europea, in tema di sicurezza sociale e assistenza sociale, dev’essere interpretata nel senso che essa osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza.
8. In secondo luogo, e con rilievo ancora più incisivo, occorre qui richiamare la sentenza Corte cost. n. 31 del 20 marzo 2025, emessa su incidente promosso dalla Corte di appello di Milano, sezione lavoro: l’Ufficio aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 21 e 34 CDFUE, 24, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e 7, paragrafo 2, del regolamento n. 2011/492/UE. Il Giudice remittente aveva innanzitutto ricordato che, tra i requisiti stabiliti pe riconoscimento del reddito di cittadinanza, la disposizione censurata prevedeva che il beneficiario dovesse essere residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo. Ebbene, secondo la stessa ordinanza della Corte di appello – le cui censure non toccano affatto la previsione che la residenza permanga durante l’erogazione del beneficio – il suddetto requisito di residenza pregressa avrebbe violato l’art. 3 Cost., “non essendo ragionevolmente correlabile alla ratio della prestazione in esame e
determinando, inoltre, una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea. La stessa previsione si porrebbe in contrasto anche con la parità di trattamento e con il divieto di discriminazione previsti dalle evocate disposizioni del diritto dell’Unione”.
8.1. Tanto premesso, la Corte costituzionale ha innanzitutto evidenziato che “la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica”: mentre le prestazioni di assistenza sociale vere e proprie si “fonda essenzialmente sul solo stato di bisogno”, il reddito di cittadinanza prevede “un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità”, che strutturano un percorso formativo e d’inclusione, “il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo” (sentenza n. 126 del 2021 e, in termini simili, sentenza n. 122 del 2020). In forza di questa premessa, è stato quindi ribadito che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i compone maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019).
8.2. In definitiva, quindi, “gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà”.
8.3. Muovendo da queste premesse, e richiamando la propria sentenza n. 19 del 2022, la Corte costituzionale ha precisato che “gli obiettivi del Rdc implicano «una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato
radicamento nel territorio, “non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza”.
8.4. Ancora in questo solco, la sentenza n. 31 del 2025 ha quindi precisato che, “non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile”, né irragionevole. Sempre e proposito, la Corte ha precisato che “un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata.”
8.5. Tutto ciò riportato, la sentenza n. 31 del 2025 ha, tuttavia, precisato che “il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo.” In particolare, la Corte costituzionale ha evidenziato che, a differenza di altre misure, come l’assegno sociale, che lo stesso Collegio ha ritenuto correlate allo “stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo” (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal reddito di cittadinanza non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta.
8.6. In quest’ottica, “il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.”. Secondo la Corte, infatti, questi principi si oppongono all discriminazione, anche indiretta (come di recente ribadito con la sentenza n. 25 del 2025), “prodotta da una barriera temporale, effetto del requisito censurato, che, sebbene applicato a ogni richiedente, appare artificialmente finalizzata al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione, favorendo i cittadini italiani g residenti (più facilitati – come peraltro dimostrano i dati segnalati dal giudic rimettente – a integrare tale requisito), a scapito sia di quelli di altri Stati memb dell’Unione, sia di quelli di Paesi terzi”.
8.7. Del resto, proprio il termine decennale è stato la causa dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia sia per la discriminazione indiretta, sia per la discriminazione a danno
degli stessi italiani, a cui il requisito poteva, in effetti, precludere la possibil trasferirsi a lavorare fuori dal Paese.
8.8. Tale procedura è stata chiusa solo a seguito dell’abrogazione del reddito di cittadinanza a decorrere dal 10 gennaio 2024 e alla sua sostituzione con l’assegno di inclusione, dove il termine di residenza pregressa è stato ridotto a cinque anni, non più oggetto di contestazione a livello della Commissione europea.
8.9. Alla luce di tutte queste considerazioni e nell’ottica di allontanarsi il meno possibile dal bilanciamento che, nella sua discrezionalità, è stato dunque operato dal legislatore, la ragionevole correlazione con la misura del reddito di cittadinanza appare ricomponibile, a giudizio della Corte costituzionale, proprio in riferimento a quest’ultimo termine di cinque anni. Questo dato temporale, infatti, non solo è quello poi assunto dal legislatore nazionale all’interno dell’assegno di inclusione, “erede” del reddito di cittadinanza, ma è anche quello giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la “relativa stabilità della presenza sul territorio”; non è poi certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che testimoni il “radicamento del richiedente nel paese in questione”.
8.10. “Il termine di cinque anni si presenta, quindi, come una grandezza predata idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento (ex multis, sentenze n. 128, n. 90 e n. 6 del 2024 e n. 95 del 2022) utilizzabile al fine di ricomporre la ragionevole correlazione con il requisito di radicamento territoriale”.
8.11. Infine, e ribadendo il significativo raccordo con la pronuncia del Giudice dell’Unione, la Corte costituzionale ha evidenziato che, in questi termini, si “ricompone armonicamente” anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Sta membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi con l’ordinamento dell’Unione europea.
8.12. Si evita così, oltretutto, l’insorgere di una “discriminazione alla rovescia” altrimenti effettivamente prospettabile, in relazione ai cittadini dell’Union europea, che rimanevano ancora soggetti al termine decennale.
8.13. Infatti, come la stessa Corte costituzionale ha già rilevato nella sentenza n. 1 del 2025, la “pronuncia di incostituzionalità, nel caducare un requisito che ha
valenza generale, consente di porre rimedio alle incongruenze di una disciplina che per tutti, cittadini e stranieri, prescrive il requisito della residenza decennale.
scongiura così il rischio delle “discriminazioni a rovescio”, che una disapplicazione, circoscritta ai soggiornanti di lungo periodo tutelati dalla direttiva 2003/109/CE,
non mancherebbe di generare a danno degli altri beneficiari delle provvidenze”.
8.14. In forza di tutte queste considerazioni, qui sinteticamente richiamate, la Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma
lettera a),
numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con
modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per
almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni».
9. Tutto ciò riportato, la sentenza della Corte costituzionale deve trovare applicazione anche per il caso in esame. Risulta pacifico, infatti, che il ricorrente
aveva fatto ingresso nel territorio dello Stato il 13/3/2011; che aveva ottenuto il riconoscimento della protezione sussidiaria (dalla Commissione territoriale per il
riconoscimento della protezione internazionale) il 19/5/2011; che aveva ottenuto il primo permesso di soggiorno il 28/6/2011, poi sostituito da quello elettronico il 30/9/2015 e, successivamente, da altro il 1c110/2019. Nel periodo compreso tra il 6/3/2019 ed il 23/3/2020, indicato nel capo di imputazione come tempus commissi delicti, il NOME era dunque residente nel territorio dello Stato da oltre 5 anni, cosicché il fatto a lui contestato – falsa dichiarazione circa lo specific presupposto oggetto della pronuncia di incostituzionalità – non integra la fattispecie penale contestata.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste; l’ultimo motivo di ricorso risulta evidentemente assorbito.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso in Roma, il 3 giugno 2025
Il Orsigliere estensore
Il Pres ente