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Reato di reingresso illegale: la buona fede non basta

Un cittadino straniero, già espulso, rientra in Italia presentandosi al confine. La Cassazione dichiara il ricorso inammissibile, confermando la condanna per il reato di reingresso illegale. La Corte chiarisce che la buona fede non è una scusante, poiché la procedura legale impone un’autorizzazione preventiva e l’imputato era a conoscenza del divieto.

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Pubblicato il 22 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Reato di Reingresso Illegale: La Buona Fede non Scusa

L’ordinanza in commento affronta un caso emblematico in materia di immigrazione, chiarendo i contorni del reato di reingresso illegale previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione. La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: la modalità palese e non clandestina con cui si rientra nel territorio dello Stato non è sufficiente a escludere la responsabilità penale. Vediamo nel dettaglio la vicenda e le motivazioni della Suprema Corte.

I Fatti del Caso

Un cittadino extracomunitario, precedentemente raggiunto da un decreto di espulsione, veniva condannato sia in primo grado dal Tribunale di Grosseto sia in secondo grado dalla Corte d’Appello di Firenze per essere rientrato illegalmente in Italia. La difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, basando la sua argomentazione su un unico motivo: la presunta insussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

Secondo il ricorrente, il suo reingresso non era avvenuto in modo clandestino. Al contrario, si era presentato alla frontiera esibendo i propri documenti d’identità al personale di controllo. Questo comportamento, a suo dire, dimostrava l’assenza di volontà di violare la legge, configurando una situazione di buona fede.

L’Elemento Soggettivo nel Reato di Reingresso Illegale

Il cuore della questione giuridica ruota attorno al concetto di dolo, ovvero la coscienza e volontà di commettere il reato. Il reato di reingresso illegale si configura quando un soggetto, colpito da un provvedimento di espulsione, fa ritorno nel territorio nazionale senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno.

La difesa sosteneva che, presentandosi apertamente al controllo di frontiera, l’imputato non avesse l’intenzione di contravvenire al divieto. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto questa tesi manifestamente infondata, confermando la linea interpretativa consolidata in materia.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha smontato la tesi difensiva con argomentazioni chiare e precise. In primo luogo, ha ricordato che la normativa vigente impone una procedura specifica per chi intende rientrare in Italia dopo un’espulsione: è necessario richiedere e ottenere un preventivo e rituale assenso delle autorità italiane. La semplice presentazione alla frontiera non sana l’illiceità del comportamento.

Inoltre, i giudici hanno evidenziato un dettaglio cruciale: l’imputato si era avvalso di generalità parzialmente diverse, ottenute a seguito di matrimonio, riuscendo così a non essere immediatamente identificato al momento del reingresso. Questo fatto, secondo la Corte, smentisce la presunta buona fede e, anzi, dimostra un’astuzia volta ad aggirare i controlli.

Infine, un elemento decisivo è stato il decreto di espulsione originale. Il provvedimento era stato tradotto nella lingua madre dell’imputato e notificato coattivamente. In esso era chiaramente specificato il divieto di reingresso per un periodo di cinque anni e la sanzione penale prevista in caso di violazione. Essendo l’imputato non analfabeta, non poteva non aver compreso la portata e le conseguenze del divieto.

Conclusioni

L’ordinanza ribadisce che per la configurazione del reato di reingresso illegale è sufficiente il dolo generico, consistente nella volontà di entrare nel territorio dello Stato con la consapevolezza di essere destinatario di un provvedimento di espulsione. Le modalità dell’ingresso (palesi o clandestine) sono irrilevanti per l’integrazione della fattispecie penale. La sentenza sottolinea l’importanza della corretta informazione data allo straniero al momento dell’espulsione, in quanto la notifica di un provvedimento chiaro e tradotto costituisce prova della piena consapevolezza del divieto, rendendo inefficace qualsiasi successiva professione di buona fede.

Presentarsi alla frontiera con i propri documenti esclude il reato di reingresso illegale?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che le modalità con cui si rientra nel territorio nazionale sono irrilevanti. Il reato si perfeziona con la semplice violazione del divieto di reingresso imposto con il decreto di espulsione, indipendentemente dal fatto che l’ingresso avvenga in modo palese o clandestino.

Cosa deve fare uno straniero espulso per poter rientrare legalmente in Italia?
Deve richiedere e ottenere un preventivo e rituale assenso dalle autorità italiane competenti. Non è sufficiente attendere la scadenza del periodo di divieto, ma è necessaria una specifica autorizzazione formale per poter rientrare legalmente.

Perché la traduzione del decreto di espulsione è stata considerata importante?
La traduzione del decreto nella lingua madre dell’imputato è stata un elemento fondamentale per dimostrare la sua piena consapevolezza del divieto di reingresso e delle conseguenze penali. Questo ha permesso alla Corte di escludere qualsiasi dubbio sulla sussistenza dell’elemento soggettivo (dolo) del reato, smentendo la tesi della buona fede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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