Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44311 Anno 2024
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44311 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/10/2024
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
COGNOME NOME
– Presidente –
Sent. n. sez. 1644/2024
ALDO ACETO
– Relatore –
UP – 08/10/2024
NOME COGNOME
R.G.N. 12676/2024
COGNOME
NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente sul ricorso proposto da: NOME nato a GALLARATE il 16/10/1955
avverso la sentenza del 16/01/2024 della Corte d’appello di Milano Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo lÕannullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla confisca del profitto, che va eliminata, e il rigetto del ricorso nel resto.
1.NOME COGNOME ricorre per lÕannullamento della sentenza del 16 gennaio 2024 della Corte di appello di Milano che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena principale di un anno di reclusione (oltre pene accessorie) irrogata con sentenza del 1 marzo 2023 del Tribunale di Busto Arsizio
per il reato di cui allÕart. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, a lei ascritto perchŽ, quale titolare dellÕomonima impresa individuale e al fine di evadere le imposte sul reddito, nella dichiarazione annuale relativa allÕanno di imposta 2016 aveva indicato elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo e superiore del 10% a quelli indicati in dichiarazione, cos’ evadendo lÕimposta nella misura di euro 217.707,50 (pari alla differenza tra imposta dovuta, pari ad euro 222.120,50 e quella dichiarata, pari ad euro 4.413,00). Il fatto è contestato come commesso il Cassano Magnago il 27/10/2017.
1.1.Con il primo motivo deduce lÕinosservanza o lÕerronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchŽ la mancanza, la contraddittorietˆ e la manifesta illogicitˆ della motivazione nella parte relativa alla quantificazione dellÕimposta evasa che, afferma, è stata erroneamente determinata in base alla sentenza del 27 luglio 2018 con cui le è stata applicata la pena concordata con il Pubblico ministero per il reato di peculato (sentenza che è stata equiparata ad una condanna in assenza di un accertamento compiuto del fatto), insieme con il PVC e la testimonianza del m.llo COGNOME il quale non aveva verificato lÕammontare del provento derivante da reato e non aveva nemmeno saputo spiegare come si fosse arrivati alla cifra indicata nel PVC (che a sua volta non spiega come sia stata determinata lÕimposta evasa).
1.2. Con il secondo motivo deduce lÕinosservanza o lÕerronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchŽ la mancanza, la contraddittorietˆ e la manifesta illogicitˆ della motivazione relativamente alla ritenuta irrilevanza del sequestro preventivo ai sensi dellÕart. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, ed allÕerrore nellÕinterpretazione di tale norma che esclude dallÕimponibile il provento derivante da reato quando sia comunque intervenuto il sequestro o la confisca non essendo richiesto – afferma – che lÕuno (il sequestro) e/o lÕaltra (la confisca) debbano intervenire nello stesso anno in cui viene realizzato il provento derivante da reato. PoichŽ nel caso di specie il sequestro e la confisca sono intervenuti in epoca successiva alla consumazione del reato di peculato, la ricorrente non era comunque tenuta alla dichiarazione dei relativi proventi. La Corte di appello, inoltre, non ha affrontato il tema dellÕerrore scusabile nella interpretazione della norma nella parte in cui, ribadisce, esclude rilevanza alla data di esecuzione del sequestro e della confisca, attribuendo rilevanza al fatto in sŽ del sequestro e/o della confisca.
1.3.Con il terzo motivo deduce lÕinosservanza o lÕerronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchŽ la mancanza, la contraddittorietˆ e la manifesta illogicitˆ della motivazione nella parte in cui è stato escluso lÕassorbimento del reato di dichiarazione infedele in quello di peculato rispetto al quale il primo costituisce un non punibile, non rilevando, in senso contrario, la diversitˆ dei beni giuridici tutelati dalle due norme, dovendosi
piuttosto considerare che lÕomessa dichiarazione dei proventi da reato, poichŽ mira a mettere al sicuro i risultati realizzati con il precedente reato, costituisce la logica conseguenza del delitto di peculato il cui disvalore assorbe quello del delitto tributario.
1.4.Con il quarto motivo deduce lÕinosservanza o lÕerronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchŽ la mancanza, la contraddittorietˆ e la manifesta illogicitˆ della motivazione nella parte in cui è stata esclusa la violazione del principio Ònemo tenetur se detegereÓ considerata la natura sostanzialmente confessoria della dichiarazione di proventi provenienti da un reato per il quale lÕimputata era sottoposta a indagini, indagini condotte dalla Guardia di Finanza, stesso organo di PG delegato al controllo della situazione reddituale della dichiarante.
1.5.Con il quinto motivo deduce lÕinosservanza o lÕerronea applicazione della legge penale e delle norme processuali, nonchŽ la mancanza, la contraddittorietˆ e la manifesta illogicitˆ della motivazione nella parte in cui la Corte di appello ha confermato la confisca per il reato di cui allÕart. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 che costituisce una duplicazione di quella applicata per il reato di cui allÕart. 314 cod. pen.
2.Il ricorso è infondato.
3.Il primo motivo è generico e manifestamente infondato.
3.1.Secondo i Giudici di merito, la ricorrente aveva omesso di indicare elementi attivi pari ad euro 512.137,23, corrispondenti al provento del reato di peculato di cui allÕart. 314 cod. pen. per il quale la COGNOME aveva patteggiato la pena in separato giudizio.
3.2.La Corte di appello, in particolare, ha ritenuto di fondare le proprie conclusioni sia sulla separata sentenza di applicazione pena del 27 luglio 2018 del GIP del Tribunale di Busto Arsizio (irrevocabile il 24 ottobre 2018), sia sulle dichiarazioni del teste NOME COGNOME il quale aveva riferito di avere estrapolato il dato dal PVC ma anche (secondo quanto risulta dalla sentenza di primo grado) dagli esiti delle indagini condotte nellÕambito del diverso procedimento penale giusta specifica autorizzazione al loro utilizzo da parte del Pubblico ministero procedente nel diverso procedimento.
3.3.In particolare, a seguito dellÕincrocio dei dati dei conti correnti e dei libretti postali con i documenti rinvenuti nei fascicoli dei singoli amministrati o tutelati, era emerso che lÕimputata, agendo quale amministratrice di sostegno/tutrice, si
era appropriata la complessiva somma di euro 1.151.324,47 di cui euro 512.137,23 solo nellÕanno 2016; tali dati erano poi confluiti nel PVC redatto a carico della ricorrente nei cui confronti era stata effettuata un verifica fiscale proprio a seguito dellÕautorizzazione al loro utilizzo.
3.4.Orbene, diversamente da quanto opina la ricorrente, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, la sentenza di patteggiamento pu˜ essere utilizzata a fini probatori in altro procedimento penale, ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., stante la sua equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna, quanto al “fatto” ed alla sua attribuibilitˆ (Sez. 5, n. 12344 del 05/12/2017, COGNOME Rv. 272665 – 01; Sez. 5, n. 7723 del 12/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 264058 – 01; Sez. 1, n. 50706 del 05/06/2014, COGNOME, Rv. 261480 – 01; Sez. 1, n. 8881 del 10/07/2000, COGNOME, Rv. 216920 – 01).
3.5.Tale insegnamento si inserisce nel solco dell’interpretazione della Corte costituzionale per la quale la sentenza di applicazione della pena pronunciata ai sensi dellÕart. 444, secondo comma, cod. proc. pen., Çaccogliendo la richiesta delle parti che concordano circa l’opportunitˆ di definire il processo attraverso un accordo sulla pena, in certo modo presuppone pur sempre la responsabilitˆ. Ed è questo ci˜ che giustifica la normale equiparazione della sentenza che dispone l’applicazione della pena su richiesta delle parti a una pronuncia di condanna, secondo il disposto dell’art. 445, primo comma, ultima parte, del codice di procedura penaleÈ (Corte cost., sent. n. 155/1996).
3.6.Successivamente, con sentenza n. 336/2009, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimitˆ costituzionale degli artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’art. 444 dello stesso codice ad una sentenza di condanna, prevedono che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilitˆ disciplinare davanti alle pubbliche autoritˆ quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceitˆ penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ha escluso la irragionevolezza della scelta legislativa di perequare, agli effetti del giudizio disciplinare, l’efficacia probatoria della pronuncia di condanna a seguito di dibattimento e della pronuncia di applicazione della pena su richiesta delle parti. Il Giudice delle leggi ha altres’ escluso la irragionevolezza dell’opzione legislativa di assegnare alla sentenza di patteggiamento efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, escludendola, invece, per il giudizio civile o amministrativo di danno, poichŽ quest’ultimo è un giudizio contenzioso tra parti pariteticamente contrapposte, per le quali gli effetti extrapenali del giudicato di condanna devono tenere conto della possibilitˆ che entrambe le parti abbiano avuto di misurarsi in
contraddittorio in sede penale. La stessa esigenza – afferma il Giudice delle leggi – non rileva nei rapporti tra patteggiamento e giudizio disciplinare, avuto riguardo alla natura di tale giudizio ed all’identitˆ soggettiva della parte chiamata a partecipare ai rispettivi procedimenti: nell’uno quale imputato e nell’altro quale incolpato in sede disciplinare. Non sussiste, inoltre, la violazione degli artt. 24, comma secondo, e 111, comma secondo, Cost. Infatti, afferma la Corte costituzionale, premesso che la scelta del patteggiamento Ž un diritto dell’imputato, cui si accompagna l’accettazione di tutti gli effetti, favorevoli e sfavorevoli, tassativamente tracciati dal legislatore come elementi coessenziali allo stesso istituto; e che tra questi effetti non irragionevolmente Ž annoverato anche il valore di giudicato ai fini del giudizio disciplinare; la circostanza che l’imputato accetti una determinata condanna penale sta univocamente a significare che ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilitˆ, con la conseguenza di rendere per ci˜ stesso coerente, rispetto agli evocati parametri, la possibilitˆ che, intervenuto il giudicato su quel fatto e sulla relativa attribuibilitˆ allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare.
3.7.Successivamente a queste pronunce il quadro normativo è cambiato.
3.8.LÕart. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen., come modificato dallÕart. 25, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 150 del 2022 (cd. riforma Cartabia), pur mantenendo ferma lÕequiparazione della sentenza di applicazione della pena ad una sentenza di condanna, ne ha tuttavia espressamente escluso lÕefficacia e lÕutilizzo a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio contabile.
3.9.Il dato testuale non si presta a equivoci nella misura in cui continua (implicitamente) ad affermare la rilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio penale, rilevanza espressamente affermata dalla stessa relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo delegato ed altrettanto espressamente esclusa per gli altri procedimenti, in particolare per quelli disciplinari e contabili onde implementare il ricorso a tale forma speciale di definizione alternativa e speciale dellÕazione penale in funzione deflattiva dei processi penali.
3.10.La riforma, dunque, non sminuisce affatto la tenuta del ragionamento del Giudice delle leggi che resta tuttÕora validamente ancorato al dato normativo, ancor più nei casi in cui la sentenza di applicazione della pena venga utilizzata come prova in altro processo nei confronti dello stesso imputato per fatti-reato tra loro probatoriamente collegati, come nel caso di specie, ai sensi dellÕart. 371, comma 2, lett. b) e c), cod. proc. pen.
3.11.EÕ necessario tuttavia sottolineare che la sentenza di applicazione della pena pu˜ essere utilizzata come prova nei limiti stabiliti dallÕart. 238-bis cod. proc.
pen. nel senso che, per fornire la prova diretta del fatto oggetto del suo accertamento, necessita di una conferma esterna, che non è, invece, richiesta laddove la medesima sentenza sia utilizzata come riscontro di altre prove giˆ acquisite (Sez. 3, n. 33972 del 16/06/2023, D., Rv. 285063 – 02; Sez. 4, n. 12349 del 29/01/2008, COGNOME, Rv. 239299 – 01). Ed invero, una volta acquisite ai sensi dell’art. 238 bis cod. proc. pen., le sentenze irrevocabili sono valutabili entro i limiti ben precisi indicati dagli artt. 187 e 192 comma terzo stesso codice. Pertanto il giudice, perchŽ tali sentenze, assimilate alle dichiarazioni accusatorie del reo o del correo, assurgano a dignitˆ di prova nel diverso processo penale al quale vengono acquisite, deve, in primo luogo, nel contraddittorio delle parti, accertare la veridicitˆ dei fatti ritenuti come dimostrati dalle dette sentenze e rilevanti ex art. 187 cod. proc. pen., salva la facoltˆ dell’imputato di essere ammesso a provare il contrario; del pari, su richiesta dell’accusa, il giudice dovrˆ acquisire al dibattimento, nel contraddittorio delle parti, gli elementi di prova costituiti da riscontri esterni individualizzanti – che confermino la veridicitˆ dei fatti, accertati nelle sentenze irrevocabili acquisite e che divengano, in tal modo, fonti di prova del reato, per cui si procede, sicchŽ sulla base delle esposte premesse non è ipotizzabile alcuna violazione del principio della terzietˆ del giudice ne’ di quello del diritto di difesa (Sez. 1, n. 8755 del 26/05/1995, COGNOME, Rv. 202624 – 01). Come ben precisato da Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, COGNOME, Rv. 211768 – 01, lÕacquisizione agli atti del procedimento, secondo quanto previsto dallÕart. 238 bis cod. proc. pen., di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti nŽ, tantomeno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia e la libertˆ delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate.
3.12.Tale insegnamento è coerente, del resto: a) con la insuscettibilitˆ della sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione di acquisire efficacia di giudicato negli altri procedimenti penali nei medesimi termini previsti, per gli altri giudizi civili, amministrativi e disciplinari, dagli artt. 651-654 cod. proc. pen.; b) con il dovere del giudice penale di risolvere autonomamente ogni questione da cui dipende la decisione, comprese quelle penali di natura incidentale che non hanno efficacia vincolante in nessun altro processo (art. 2 cod. proc. pen.).
3.13.Nè alla richiesta di della pena pu˜ essere attribuita natura confessoria.
3.14.Per quanto la giurisprudenza di legittimitˆ sia attestata nella affermazione che la richiesta di applicazione della pena deve essere considerata quantomeno come ammissione del fatto (Sez. 2, n. 41785 del 06/10/2015, COGNOME, Rv. 264595 – 01), quando non la si voglia addirittura ritenere implicito
riconoscimento di colpevolezza (cos’ Sez. 5, n. 4117 del 20/09/1999, COGNOME NOMECOGNOME, Rv. 214478 – 01) o ammissione di responsabilitˆ (Sez. 1, n. 5517 del 03/11/1995, COGNOME COGNOME, Rv. 203026 – 01; Sez. 3, n. 2468 del 26/06/1995, COGNOME, Rv. 202487 – 01), ben più persuasiva è la considerazione per la quale, facendo richiesta di applicazione della pena, l’imputato rinuncia ad avvalersi della facoltˆ di contestare l’accusa, o, in altri termini, non nega la sua responsabilitˆ ed esonera l’accusa dall’onere della prova; la sentenza che accoglie la detta richiesta contiene, quindi, un accertamento ed un’affermazione impliciti della responsabilitˆ dellÕimputato (Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, COGNOME, Rv. 191134 – 01).
3.15.La rinunzia a contestare lÕaccusa non sempre, nŽ necessariamente equivale ad ammissione della propria colpa, potendo la scelta del rito essere dettata da molte altre possibili ragioni alternative, non essendo accettabile, sul piano logico, lÕequazione: innocenza=scelta rito ordinario/colpevolezza=richiesta applicazione pena, equazione espressamente affermata, ma solo in motivazione, da Sez. U, COGNOME, cit.
3.16.EÕ piuttosto vero che la presunzione di innocenza, principio immanente al processo penale, non pu˜ essere vinta nel processo facendo leva sulla scelta processuale effettuata dallÕimputato nel processo nemmeno se i reati oggetto dei due processi siano connessi teleologicamente ai sensi dellÕart. 12, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., men che meno se probatoriamente ai sensi dellÕart. 371, comma 2, lett. b) e c), cod. proc. pen. Nel processo nel quale la sentenza di applicazione della pena viene acquisita a fini di prova del diverso reato per il quale si procede nei confronti del medesimo imputato, questi conserva appieno il diritto di mettere in discussione e contraddire gli stessi elementi di prova sui quali si basa la precedente sentenza di condanna non potendo la rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova estendere i suoi effetti in tutti i diversi processi nei quali la medesima prova viene indicata a sostegno dellÕaccusa.
3.17.Del resto, se – come detto – nemmeno la sentenza penale irrevocabile di condanna o assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato, nei termini indicati dagli artt. 651-654 cod. proc. pen., nei processi diversi da quelli civili, amministrativi e disciplinari, a maggior ragione la sentenza di applicazione pena non pu˜ avere efficacia di giudicato nel diverso processo penale quanto allÕaccertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceitˆ penale e dellÕaffermazione che lÕimputato non lo ha commesso.
3.18.Resta, dunque, la sola finalitˆ probatoria della sentenza nei termini indicati al ¤ 3.11.
3.19.Ora, nel caso in esame il primo Giudice aveva dato atto della acquisizione, su concorde richiesta delle parti, della comunicazione della notizia di reato della Guardia di Finanza (e relativi allegati) del 26 ottobre 2018 nella quale si dava conto degli esiti dellÕattivitˆ ispettiva volta al recupero a tassazione dei
proventi dei reati oggetto del procedimento definito con sentenza di applicazione concordata della pena come emersi a seguito dellÕincrocio dei dati dei conti correnti e dei libretti postali con i documenti rinvenuti nei fascicoli dei singoli amministrati e/o tutelati; da tali attivitˆ era risultato che nellÕanno 2016 la ricorrente si era appropriata la somma di euro 512.137,23, non dichiarata a fini fiscali. Il Tribunale dava altres’ atto della acquisizione (e utilizzazione) a fini di prova del processo verbale di constatazione redatto a carico dellÕimpresa individuale della ricorrente il 26 ottobre 2008 a conclusione della verifica fiscale effettuata utilizzando lÕesito delle indagini del procedimento definito con la sentenza di applicazione della pena, esito corroborato dallÕanalisi delle banche dati in uso alla Guardia di Finanza.
3.20.La Corte di appello, dal canto suo, afferma che lÕaccertamento dellÕimposta evasa si avvale dellÕutilizzo, a fini fiscali, degli esiti dellÕattivitˆ di indagine compiuta nel procedimento definito con sentenza di applicazione concordata della pena, esiti – come detto – acquisiti al fascicolo del dibattimento con il consenso anche dellÕimputata.
3.21.Ne consegue che è generica (ed esplorativa) la deduzione difensiva che, negligendo tale contesto probatorio nella sua completezza ma valorizzando esclusivamente la testimonianza dellÕufficiale di polizia giudiziaria che aveva condotto la verifica fiscale ma non aveva personalmente preso parte alle indagini nellÕaltro procedimento, ipotizza un ammontare dellÕimponibile non corrispondente (o comunque inferiore) a quello risultante dai medesimi atti di indagine posti a fondamento della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 444 e segg. cod. proc. pen., veicolati nellÕodierno processo a seguito dellÕautorizzazione al loro utilizzo a fini fiscali; atti confluiti nel fascicolo del dibattimento per volontˆ della ricorrente che non ne denuncia nemmeno il travisamento.
4.Il secondo motivo è manifestamente infondato.
4.1.Ai sensi dell’art. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, Çnelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attivitˆ qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non giˆ sottoposti a sequestro o confisca penaleÈ.
4.2.La norma è stata costantemente interpretata dalla Corte di cassazione nel senso che il sequestro o la confisca escludono la tassazione dei proventi da reato solo se eseguiti nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacitˆ contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile (Sez. 3, n. 18575 del 14/02/2020, Rv. 279500 – 01; Sez. 3, n. 2245 del 15/10/2021, COGNOME non mass. sul punto;
Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. civ., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095). SicchŽ, i proventi da reato, se non sottoposti a sequestro o confisca al più entro la fine del periodo di imposta cui il provento si riferisce, sono sottoposti a tassazione con i conseguenti obblighi di dichiarazione e di versamento, per i quali si pone solo una questione di diritto al rimborso dell’imposta versata divenuta indebita a seguito di provvedimenti ablatori posti in essere in periodi di imposta successivi. Ed invero, lÕart. 14, comma 4, legge n. 537 del 1993, si limita a disciplinare l’ablazione del provento illecito subita al più entro la fine del periodo d’imposta, cos’ operando il sequestro o la confisca penale quali cause di non imponibilitˆ originaria, ma non estende la sua disciplina altres’ ad eventi posteriori al realizzarsi dell’imponibilitˆ, cioè successivi al sorgere dell’obbligo di dichiarazione e versamento, per i quali comunque si pone una questione di diritto al rimborso o restituzione dell’imposta divenuta indebita (cos’, in motivazione, Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 2013).
4.3.Peraltro, la norma in questione si coniuga perfettamente con il principio per il quale presupposto dellÕimposta sul reddito è il possesso di redditi in danaro o in natura nel periodo di imposta considerato (artt. 1, 7, 72 e 76 d.P.R. n. 917 del 1986). Il sequestro o la confisca privano il contribuente del possesso del reddito ma solo se intervengono nel periodo di imposta oggetto di dichiarazione, non se intervengono in un periodo successivo (Cass. civ., Sez. 5, n. 23620 del 11/11/2011, Rv. 619974 – 01, ne ha tratto argomento per affermare, per esempio, che l’intestatario di un immobile sottoposto a sequestro giudiziario non pu˜ considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dall’immobile in questione, poichŽ i canoni, ed in generale tutti gli altri frutti civili, sono nella disponibilitˆ del custode, ai sensi dell’art. 560 cod. proc. civ., richiamato dal successivo art. 676, e l’obbligo legale di rendiconto, prescritto a carico del custode dall’art. 593 cod. proc. civ., impone l’esclusione di tali frutti dalla base imponibile dell’intestatario medesimo, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 a tenore del quale “l’imposta si applica sul reddito complessivo netto del soggetto, formato .. da tutti i redditi possedutiÓ).
4.4.La chiarezza del dato testuale, la cui lettura è stata costantemente ribadita dalla Corte di cassazione giˆ da prima della consumazione del reato, esclude in radice la sussistenza del dedotto errore su legge extrapenale (art. 47, comma terzo, cod. pen.).
4.5.Peraltro, poichŽ lÕerrore cade su un elemento normativo della fattispecie (in particolare, sugli Òelementi attiviÓ non dichiarati, come definiti dallÕart. 1, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 74 del 2000) lÕerrore riguarda il precetto, non la norma extrapenale.
4.6.Deve essere considerato errore sulla legge penale, come tale inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi intendere per “legge diversa dalla legge penale”, ai sensi dell’art. 47 cod. pen., quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale, o da questa non richiamata neppure implicitamente (Sez. 6, n. 25941 del 31/03/2015, COGNOME, Rv. 263808 – 01; Sez. 4, n. 14011 del 12/02/2015, COGNOME, Rv. 263013 – 01; Sez. 4, n. 37590 del 07/07/2010, Barba, Rv. 248404 – 01; Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, COGNOME, Rv. 229227 – 01; Sez. 4, n. 14819 del 30/10/2003, COGNOME, Rv. 227875 – 01). Si è cos’ ritenuto che, ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 del d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile (Sez. 3, n. 23810 del 08/04/2019, Versaci, Rv. 275993 – 02; Sez. 7, n. 44293 del 13/07/2017, Hu, Rv. 271487 – 01). Allo stesso modo, lÕerrore sullÕoggetto dellÕobbligo dichiarativo si traduce in un errore sulla latitudine del precetto penale che non è scusabile in assenza di ignoranza inevitabile.
4.7.LÕomessa motivazione della Corte di appello sul punto è priva di conseguenze trattandosi di questione di diritto risolvibile direttamente in questa sede. Ed invero, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione pu˜ porre rimedio, ai sensi dell’art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimitˆ (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, DellÕUtri, Rv. 263980 – 01; Sez. 5, n. 1176 del 06/10/1967, COGNOME, Rv. 106910 – 01).
5.Il terzo motivo è infondato.
5.1.Ritiene la ricorrente che il delitto di dichiarazione infedele per mancata indicazione dei redditi derivanti da reato costituisca di questÕultimo reato dal quale sarebbe assorbito. Secondo questa tesi il delitto di dichiarazione infedele non sarebbe mai punibile quando gli elementi attivi non dichiarati costituiscono redditi provenienti da reato.
5.2.In dottrina si afferma che con le categorie (da qualche Autore definite ÒincerteÓ) dellÕantefatto e del postfatto non punibili si intendono quei reati che
costituiscono la normale premessa o il normale sbocco di altri reati perchŽ, secondo lÕ costituiscono il mezzo per realizzare un reato più grave o per conseguire lo scopo per il quale fu commesso il primo reato più grave o metterne al sicuro i risultati. LÕesigenza avvertita è quella di non punire un fatto-reato il cui disvalore sia interamente assorbito da quello che lo segue o che lo precede.
5.3.In generale, il fondamento della regola cosiddetta del post-factum (condotta successiva alla consumazione del reato, non ulteriormente punibile) dev’essere ricercato non tanto nell’esigenza logica e sistematica di ritenere prevalente la nei confronti di quella , quanto nell’altra esigenza, sentita soprattutto sul piano valutativo, di considerare l’ulteriore fattispecie giˆ colpita attraverso l’assoggettamento a sanzione dell’illecito precedente (Sez. 2, n. 5688 del 17/11/1976, Battista, Rv. 135763 – 01, secondo cui perchŽ il principio possa trovare applicazione si richiede che la condotta svolta dall’autore sulla cosa conseguita mediante la commissione del reato, nella specie si trattava di truffa in danno di privato, non si risolva in un attacco rinnovato alla sfera giuridica altrui, non importa se facente capo ad una medesima persona).
5.4.Più nello specifico si deve affermare che vertendosi in tema di concorso di norme penali (nemmeno sullo stesso fatto) la questione dellÕantefatto o del postfatto non punibili non pu˜ essere risolta in base a valutazioni meta-giuridiche che, fondandosi su massime di esperienza (lÕ ), tendono a regolare i rapporti tra fattispecie (e le vicende della loro punibilitˆ) in base a categorie (giustamente definite in dottrina) incerte e a criteri (consunzione o sussidiarietˆ) altrettanto evanescenti che addirittura sollecitano una interpretazione della norma penale.
5.5.Se non è lo stesso legislatore a prevedere espressamente, mediante le clausole di salvezza, la non punibilitˆ dellÕantefatto (e dunque a escludere il concorso di norme), alcuna massima di esperienza legittima il superamento (e la mancata applicazione) del dato positivo della punibilitˆ del reato commesso per eseguirne od occultarne un altro o per assicurare a sŽ o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo o lÕimpunitˆ di un altro reato (art. 61, primo comma, n. 2, cod. pen.; nel senso che non è il semplice rapporto strumentale tra due reati a determinare l’impunitˆ, com’è conclamato dalla circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen., Sez. 3, n. 5669 del 09/12/1981, Sigali, Rv. 154130 01).
5.6.Inoltre, poichŽ antefatto e postfatto non punibili postulano la necessaria diversitˆ dei fatti criminosi e la loro diversa collocazione nel tempo deve essere escluso che si ponga il problema della doppia punibilitˆ del medesimo fatto storico, problema che evoca la questione dellÕunitˆ o pluralitˆ di reati e che il legislatore risolve positivamente (ed esclusivamente) mediante gli artt. 15 e 84 cod. pen. le
uniche norme che, unitamente alle clausole di salvezza, regolano il concorso reale o apparente di reati (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, COGNOME, Rv. 269668; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, COGNOME, Rv. 235962; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302). Sempre in tema di concorso apparente, è stato precisato che l’art. 15 cod. pen. si riferisce alla sola specialitˆ unilaterale, poichŽ le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la specialitˆ reciproca o bilaterale, non evidenziano alcun rapporto di “genus” a Òspeciem” (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286581 – 02; Sez. 1, n. 14843 del 28/02/2024, O, Rv. 286238 01, e Sez. 5, n. 49514 del 19/09/2018, A., Rv. 274452 – 01 che hanno entrambe ritenuto il concorso non apparente tra il reato di riduzione in stato di servitù di cui allÕart. 600, comma primo, seconda ipotesi, cod. pen., e quello di tratta di persona libera di cui all’art. 601, comma primo, seconda ipotesi, cod. pen.
5.7.Un criterio risolutore della questione relativa alla punibilitˆ del postfactum pu˜ essere fornito anche dallÕesame testuale delle fattispecie (e, dunque dallÕinterpretazione della norma) sicchŽ non pu˜ ritenersi punibile il reato commesso successivamente al primo quando tra le due fattispecie incriminatrici sussiste rapporto di incompatibilitˆ. Si spiega cos’ la ragione per la quale lÕautore del furto non risponde del delitto di appropriazione indebita del bene da lui successivamente venduto, presupponendo lÕappropriazione lÕinterversione del possesso del bene inizialmente legittimamente detenuto.
5.8.Nel caso in esame tra le due fattispecie (peculato e dichiarazione infedele) vi è un evidente rapporto di eterogeneitˆ (anche sul piano dellÕoffensivitˆ) nŽ si pu˜ affermare che la seconda fattispecie sia strutturalmente ÒincompatibileÓ con la prima non potendosi sostenere il contrario sulla base di variabili contingenti del tutto irrilevanti visto che il criterio di specialitˆ previsto dall’art.15 cod. pen., si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore (Sez. U, COGNOME, cit.).
5.9.I proventi da reato sono ÒredditiÓ (qualificabili come redditi diversi) e devono essere per ci˜ solo dichiarati, non contenendo lÕart. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 clausole di salvezza che limitano lÕapplicazione della fattispecie ai soli redditi non derivanti da reato.
5.10.Diverso, oltremodo, è il bene protetto: il patrimonio della pubblica amministrazione nel peculato, il dovere di concorrere alle spese pubbliche secondo le proprie capacitˆ contributive nel delitto di dichiarazione infedele. Il che osta ulteriormente alla non punibilitˆ del delitto di cui allÕart. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 in caso di mancata indicazione di proventi da reato, tanto più che un diverso
argomentare porterebbe allÕassurda conseguenza di premiare chi trae profitto dal delitto.
6.Anche il quarto motivo è infondato.
6.1.Il Collegio intende dare continuitˆ al principio secondo il quale il principio del “nemo tenetur se detegere” opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale giˆ avviato e deve ritenersi recessivo rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche previsto dall’art. 53 Cost. (Sez. 3, n. 53656 del 03/10/2018, A., Rv. 275452 – 01, che ha dichiarato la manifesta infondatezza, in relazione agli artt. 24 Cost. e 6 CEDU, della questione di legittimitˆ costituzionale del combinato disposto degli artt. 5 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 e 36, comma 34-bis, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, nella parte in cui queste disposizioni prevedono, al fine di non commettere il reato di omessa presentazione della dichiarazione di redditi, l’obbligo di presentare la dichiarazione all’Agenzia delle Entrate, ancorchŽ riguardi redditi provenienti da attivitˆ illecita; nel senso della inapplicabilitˆ del principio “nemo tenetur se detegereÓ al di fuori del processo penale, Sez. 3, n. 53137 del 22/09/2017, COGNOME, Rv. 271827 – 01; Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, COGNOME, Rv. 263034 – 01).
6.2.La naturale collocazione del divieto nellÕambito del procedimento penale è stata ribadita dal Giudice delle leggi secondo cui il diritto al silenzio – definito dall’art. 14, par. 3, lett. ), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) come la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, a non essere costretto a deporre contro sŽ stesso o a confessarsi colpevole; nonchŽ, implicitamente, garantito dall’art. 47 CDFUE – è il diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria ( ); esso costituisce corollario implicito del diritto inviolabile di difesa (art. 24 Cost.). Nel diritto di difesa rientra infatti certamente il diritto di rifiutarsi di rispondere (tranne che alle richieste attinenti all’identificazione del soggetto medesimo). L’intangibilitˆ del diritto di difesa, sotto forma del rispetto del principio
, e conseguentemente del diritto al silenzio, si manifesta nella garanzia dell’esclusione dell’obbligo di rispondere in dibattimento a domande che potrebbero coinvolgere responsabilitˆ proprie (Corte cost., sent. n. 111 del 2023, che ha dichiarato lÕillegittimitˆ costituzionale dellÕart. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o allÕimputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui allÕart. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, nonchŽ dellÕart. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilitˆ della persona sottoposta alle indagini o
dellÕimputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nellÕart. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui allÕart. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni; nel senso che il “diritto al silenzio”, pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale, costituisce un corollario essenziale dell’inviolabilitˆ del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost., garantendo nel procedimento penale all’imputato la possibilitˆ di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltˆ di non rispondere alle domande del giudice o dell’autoritˆ competente per le indagini, Corte cost., sent. n. 84 del 2021).
6.3.La Corte costituzionale ha esteso lÕapplicazione del divieto alle dichiarazioni che possano far emergere la responsabilitˆ del dichiarante per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo o, per un reato. EÕ sufficiente, per il Giudice delle leggi, che tali dichiarazioni vengano richieste nellÕambito dellÕattivitˆ di vigilanza svolta da un ente pubblico o da una pubblica amministrazione e funzionale alla scoperta di illeciti e alla individuazione dei responsabili, ovvero – nell’ambito di un procedimento sanzionatorio formalmente aperto nei confronti del dichiarante (Corte cost., sent. n. 84 del 2021, cit., che ha dichiarato dichiara lÕillegittimitˆ costituzionale dellÕart. 187quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 – Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52-, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilitˆ per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato).
6.4.Tali principi non si applicano, tuttavia, alla dichiarazione dei redditi che costituisce mera esternazione di scienza e di giudizio e costituisce un momento dell'”iter” procedimentale volto all’accertamento dell’obbligazione tributaria (Sez. U civ., n. 17394 del 06/12/2002, Rv. 559050 – 01; Sez. U civ., n. 15063 del 25/10/2002, Rv. 558050 – 01). Tale dichiarazione pu˜ assumere anche valore negoziale come quando, per esempio, il contribuente dichiari di avvalersi di un beneficio fiscale (Sez. 5 civ., n. 31237 del 29/11/2019, Rv. 656287 – 01) o di facoltˆ espressamente riconosciute dalle norme tributarie condizionate alla presentazione della dichiarazione (Sez. 5 civ., n. 28064 del 05/10/2023, Rv. 669243-01) ma questo, ovviamente, non muta la conclusione della impossibilitˆ di collocare la dichiarazione dei redditi nellÕambito di una attivitˆ di vigilanza o sorveglianza della pubblica amministrazione volta ad accertare la provenienza dei redditi piuttosto che la loro effettiva consistenza e la corrispondenza a vero di quanto dichiarato. La dichiarazione dei redditi costituisce momento attuativo della (ed è accessoria e strumentale alla) obbligazione tributaria ed è finalizzata a portare la pubblica amministrazione a conoscenza della propria capacitˆ
contributiva, non costituisce un questionario sulla provenienza lecita o meno dei redditi dichiarati. Del resto, la qualificazione dei redditi costituenti provento da reato come Òredditi diversiÓ ai sensi dellÕart. 36, comma 34-bis, d.l. n. 223 del 2006, conv. con modificazioni dalla legge n. 248 del 2006, non obbliga il contribuente a dichiararne necessariamente la provenienza essendo sufficiente che sugli stessi non sia stata effettuata alcuna ritenuta. LÕaccertamento fiscale è finalizzato alla rettifica delle dichiarazioni carenti e alla liquidazione delle imposte o maggiori imposte dovute, non alla verifica della provenienza dei redditi integralmente e correttamente dichiarati (art. 31, primo comma, d.P.R. n. 600 del 1973).
7.Le considerazioni svolte a sostegno della infondatezza del terzo motivo militano a favore della infondatezza anche dellÕultimo.
7.1.Contrariamente a quanto opina la ricorrente (ma anche il PG), oggetto della confisca disposta nel precedente processo definito con sentenza di applicazione pena è il profitto del reato di peculato ed è corrispondente alle somme delle quali lÕimputata si era illecitamente appropriata; oggetto di odierna confisca è il profitto del diverso reato di dichiarazione infedele ed è corrispondente allÕimposta non dichiarata ed effettivamente evasa.
7.2.I fatti ed i reati sono diversi e ad ognuno di essi corrisponde un diverso ed autonomo profitto confiscabile
7.3.Il fatto che il sequestro del profitto del reato di peculato sia intervenuto in un anno di imposta diverso da quello oggetto della dichiarazione esclude la convergenza sul medesimo fatto della reazione sanzionatoria lamentata dalla ricorrente.
7.4.Fermo restando quanto appena detto, la doglianza è altres’ generica nella parte in cui la ricorrente non specifica se la confisca disposta nel diverso processo sia diretta o per equivalente, poichŽ in caso di confisca diretta deve essere esclusa in radice la natura sanzionatoria del provvedimento ablatorio, con conseguente insussistenza del presupposto stesso della dedotta duplicazione della reazione sanzionatoria.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cos’ deciso in Roma, il 08/10/2024.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
NOME COGNOME
NOME COGNOME