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Prestanome e reati tributari: la responsabilità penale

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per reati tributari a carico di un’amministratrice di società, anche se questa sosteneva di essere una mera ‘prestanome’. La sentenza stabilisce che accettare la carica, anche solo formalmente, comporta doveri di vigilanza e controllo. La consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano derivare reati, o la semplice accettazione del rischio, è sufficiente per configurare il dolo e quindi la responsabilità penale. Il ricorso dell’imputata è stato dichiarato inammissibile, ribadendo un principio fondamentale in materia di prestanome e reati tributari.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Prestanome e reati tributari: la Cassazione conferma la responsabilità penale

Accettare di fare da amministratore ‘di facciata’ per una società, magari in cambio di un compenso, può sembrare una scorciatoia priva di rischi. Tuttavia, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio cruciale: la responsabilità penale ricade interamente su chi accetta la carica, anche se non partecipa materialmente alla gestione. Questo approfondimento analizza la delicata questione del prestanome e reati tributari, chiarendo perché questa figura non può sottrarsi alle proprie responsabilità legali.

Il caso: l’amministratrice ‘di paglia’ e le fatture false

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un’amministratrice condannata in primo e secondo grado per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’articolo 8 del D.Lgs. 74/2000. La difesa dell’imputata si basava su un punto centrale: ella era una semplice ‘prestanome’. Sosteneva di essere stata convinta da due dipendenti ad assumere la carica di amministratrice in cambio di un margine di guadagno, senza avere alcun ruolo operativo. I reali esecutori del reato, secondo la sua tesi, erano i due dipendenti che gestivano di fatto la società.

Nonostante la pena fosse stata ridotta in appello da tre a due anni, la condanna per colpevolezza era stata confermata. L’imputata ha quindi deciso di ricorrere in Cassazione, lamentando diversi vizi nella decisione dei giudici di merito.

I motivi del ricorso in Cassazione

Il ricorso si fondava su tre argomenti principali:

1. Violazione di legge e vizio di motivazione: L’imputata sosteneva di non aver fornito alcun contributo materiale alla commissione del reato e che mancasse la prova del ‘dolo specifico’ (l’intenzione specifica di evadere le imposte), requisito fondamentale per questo tipo di illecito. Aggiungeva, inoltre, di versare in gravi condizioni di salute all’epoca dei fatti, tali da impedirle di commettere il reato.
2. Mancata rinnovazione dell’istruttoria: La difesa lamentava che la Corte d’Appello avesse ingiustamente respinto la richiesta di acquisire nuove prove (come testimonianze) per dimostrare le sue precarie condizioni di salute.
3. Errata quantificazione della pena: Infine, si contestava che la pena non fosse stata adeguatamente personalizzata, senza tenere conto della reale gravità del fatto e del ravvedimento dell’imputata.

La responsabilità del prestanome nei reati tributari secondo la Corte

La Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, smontando punto per punto le argomentazioni difensive. Il cuore della decisione riguarda proprio la figura del prestanome e i reati tributari. La Corte ha chiarito che l’amministratore di una società, anche se mero prestanome, è il diretto destinatario degli obblighi di legge.

La semplice accettazione della carica, anche a fronte di un compenso, attribuisce doveri di vigilanza e controllo. Il mancato rispetto di tali doveri comporta responsabilità penale. Questa responsabilità può configurarsi a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla propria omissione possano derivare conseguenze illecite, o, come minimo, a titolo di dolo eventuale: chi accetta di fare da prestanome si assume il rischio che vengano commessi reati e accetta tale eventualità.

Nel caso specifico, i giudici hanno sottolineato come diversi elementi provassero la colpevolezza: la sede legale della società coincideva con l’abitazione dell’imputata, non c’erano dipendenti registrati, mancavano le dichiarazioni fiscali, e l’importo dell’imposta evasa era ingente (oltre 1,5 milioni di euro) con ben 123 fatture false emesse. La stessa ammissione di aver accettato l’incarico per un guadagno è stata vista come un elemento che, lungi dallo scagionarla, ne confermava l’interesse e la consapevolezza.

Il rigetto della rinnovazione dell’istruttoria e la quantificazione della pena

Anche gli altri motivi di ricorso sono stati respinti. La richiesta di rinnovare l’istruttoria in appello è stata giudicata inammissibile perché le prove sulla condizione di salute non erano ‘nuove’. L’imputata avrebbe potuto e dovuto presentarle durante il processo di primo grado. La legge consente la riapertura del dibattimento solo per prove scoperte dopo il primo giudizio o la cui presentazione era stata impossibile.

Infine, riguardo alla pena, la Corte ha ritenuto che la riduzione operata in appello fosse già un notevole ridimensionamento, portando la sanzione a un livello poco superiore al minimo legale. La motivazione basata sulla gravità del fatto (l’enorme evasione fiscale) è stata considerata logica e non arbitraria. Per quanto riguarda le attenuanti generiche, la Corte ha ricordato che la semplice incensuratezza non è più sufficiente per ottenerle; è necessario che l’imputato fornisca elementi positivi concreti a suo favore, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si basano su un principio consolidato: la carica di amministratore non è una mera formalità. Chi accetta questo ruolo, anche se come ‘testa di legno’, diventa il garante della legalità dell’attività sociale. La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’amministratore risponde per non aver impedito gli illeciti che aveva l’obbligo giuridico di prevenire. L’accettazione di un compenso per questo ruolo, anziché essere una scusante, rafforza l’idea di una partecipazione consapevole, quantomeno nell’accettazione del rischio che l’attività societaria potesse essere illecita. La presenza di una ‘doppia conforme’ sulla colpevolezza ha reso ancora più arduo per la difesa scardinare l’impianto accusatorio.

Le conclusioni

La sentenza rappresenta un monito importante. Agire come prestanome non è una strategia difensiva valida per eludere le responsabilità penali in ambito tributario e societario. La legge presume che l’amministratore sia consapevole dei propri doveri di controllo e vigilanza. Ignorare questi doveri, anche passivamente, significa accettare il rischio di rispondere penalmente per i reati commessi dalla società. Questa decisione conferma che il sistema giudiziario non è disposto a concedere sconti a chi, per leggerezza o per un piccolo tornaconto economico, si presta a fare da schermo per attività illecite altrui.

Chi accetta di fare da ‘prestanome’ per una società commette un reato?
Sì, secondo la sentenza, chi accetta la carica di amministratore, anche solo formalmente, assume doveri di vigilanza e controllo. Il mancato rispetto di questi doveri comporta una responsabilità penale per i reati commessi dalla società, poiché si configura almeno un dolo eventuale, ossia l’accettazione del rischio che vengano commessi illeciti.

È possibile presentare nuove prove in appello per dimostrare la propria innocenza?
No, non generalmente. La rinnovazione dell’istruttoria in appello è un’eccezione. È ammessa solo per prove che sono sopravvenute o sono state scoperte dopo il giudizio di primo grado, oppure quando la parte dimostra di non averle potute indicare in precedenza. Nel caso specifico, le prove sulle condizioni di salute dell’imputata avrebbero potuto essere presentate nel primo processo.

L’assenza di precedenti penali garantisce l’ottenimento delle attenuanti generiche?
No. La Corte ha ribadito che, a seguito di una riforma legislativa, il solo stato di incensuratezza non è più sufficiente per la concessione delle attenuanti generiche. L’imputato deve fornire elementi di segno positivo (come il ravvedimento, la confessione, il risarcimento del danno) che giustifichino un trattamento sanzionatorio più benevolo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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