Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 8015 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 3 Num. 8015 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
TERZA SEZIONE PENALE
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– Relatore –
SENTENZA
Sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nata a Pisa il 26/07/1976, avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze del 31/05/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 31 maggio 2024 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pisa del 25/02/2022, che aveva condannato NOME COGNOME per il reato di cui all’articolo 8 d. lgs. 74/2000 – relativo all’annualità 2015 – alla pena di anni tre di reclusione, nel confermare la statuizione di colpevolezza, riduceva la pena inflitta ad anni due di reclusione.
Avverso tale sentenza l’imputata ha presentato ricorso per cassazione.
2.1. con il primo motivo, lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’articolo 8 d. lgs. 74/2000: la ricorrente era la mera prestanome della società e i reali esecutori del reato erano stati i due dipendenti COGNOME e COGNOME che avevano chiesto alla COGNOME di diventare amministratrice con la prospettiva di ricevere un margine di guadagno; non vi Ł prova, pertanto, nØ di un contributo materiale alla commissione del fatto (all’epoca la ricorrente versava in gravi condizioni di salute) nØ dell’esistenza del dolo specifico richiesto dalla legge.
2.2. Con il secondo motivo lamenta violazione dell’articolo 603, comma 2, cod. proc. pen., avendo immotivatamente la Corte di appello respinto la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, a fronte della deduzione della difesa della circostanza che l’imputata all’epoca dei fatti versasse in gravi condizioni di salute, tale da non consentirle la commissione del reato.
2.3. con il terzo motivo lamenta violazione degli articoli 133 e 62bis cod. pen., non avendo la Corte di appello proceduto ad una individualizzazione del trattamento sanzionatorio che tenesse conto della gravità del fatto e del ravvedimento dell’imputata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso Ł inammissibile.
Il Collegio, per ragioni di coerenza sistematica, tratterà prima il secondo motivo di ricorso, stante la sua valenza potenzialmente assorbente, quindi gli altri due, nell’ordine di deduzione.
2. Il secondo motivo di ricorso Ł inammissibile.
La giurisprudenza della Corte (Sez. 2, n. 1314 del 07/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285777 – 01) Ł nel senso che «in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, le prove di cui la parte Ł legittimata a chiedere l’assunzione nel caso di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. sono solo quelle che, oltre ad essere nuove rispetto alle prove già assunte, sono altresì sopravvenute o, comunque, risultano scoperte dopo il giudizio di primo grado, diversamente dalle prove non comprese nella lista di cui all’art. 468 cod. proc. pen., di cui fa menzione il disposto dell’art. 493, comma 2, cod. proc. pen., per le quali Ł necessario che la parte richiedente dimostri di non averle potute indicare tempestivamente».
Si Ł ancora affermato (Sez. 3, n. 13076 del 14/02/2024, Xiumei, Rv. 286075 – 01) che «il giudice di appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento nel caso in cui la richiesta di parte Ł riconducibile alla violazione del diritto alla prova, che non sia stato esercitato per forza maggiore o per la sopravvenienza della stessa dopo il giudizio, o perchØ la ammissione della prova, ritualmente richiesta nel giudizio di primo grado, sia stata irragionevolmente negata da quel giudice».
Correttamente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto non sussistenti i presupposti per procedersi alla rinnovazione, avendo l’imputata partecipato al giudizio di primo grado, in cui ben avrebbe potuto inserire nella propria lista testi i soggetti di cui ha chiesto l’escussione in appello, e non avendo dedotto elementi da cui inferire l’assoluta impossibilità di esercitare il diritto alla prova in primo grado ovvero la sopravvenienza della prova stessa a tale grado di giudizio.
3. Il primo motivo di ricorso Ł del pari inammissibile.
3.1. Il Collegio evidenzia preliminarmente come, in ragione della sostanziale sovrapponibilità del percorso argomentativo delle due sentenze (i giudici del gravame hanno infatti esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice) e la sostanziale concordanza nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle decisioni, non vi Ł dubbio che nel caso di specie ci si trovi – in riferimento al giudizio di responsabilità – in presenza di una «doppia conforme» di merito.
In tal caso, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo.
Le motivazioni dei due provvedimenti, quindi (v. Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, COGNOME, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, COGNOME, Rv. 209145), si integrano quindi a formare un corpo unico, con il conseguente obbligo per il ricorrente di confrontarsi in maniera puntuale con i contenuti delle due sentenze anche ai fini dell’ammissibilità del ricorso, circostanza, nel caso di specie, non sussistente.
3.2. Ciò posto, la prima sentenza chiariva che la fittizietà delle operazioni era desumibile dalla
assenza di una vera sede sociale (che coincideva con l’abitazione dell’imputata), dalla assenza di dipendenti e dalla mancanza di dichiarazioni fiscali, mentre il dolo si evinceva dal notevole importo dell’imposta evasa (oltre 1,5 mln di euro) e dal numero delle fatture (123).
La seconda sentenza aggiunge che lo stesso atto di appello (così come il ricorso, del resto) sottolineava che i due asseriti autori materiali del fatto avrebbero convinto l’imputata ad assumere la carica amministrativa in prospettiva di ricavarne guadagni, circostanza da cui – si desume – sarebbe possibile inferire la sussistenza del dolo.
3.3. Tale motivazione fa buon governo dei principi elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui, in tema di reati tributari, l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli (nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti) quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione (Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, Loda, Rv. 279831 01; Sez. F., n. 42897 del 09/08/2018, COGNOME, Rv. 273939 – 02).
Nel caso di specie – come evidenziato dalla seconda sentenza – l’imputata, nel corso del giudizio ha omesso di rendere l’esame, presentare prove, fornire documentate ricostruzioni alternative, rendendo impraticabile l’ipotesi che la stessa, amministratore di diritto gravato di precisi obblighi, non fosse assolutamente a conoscenza dell’altrui attività illecita, da cui avrebbe comunque ritratto, per pacifica ammissione, un guadagno.
4. Il terzo motivo Ł manifestamente infondato.
4.1. Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte di appello ha già proceduto ad un notevole ridimensionamento del relativo carico, ora portato a due anni di reclusione, poco al di sopra del minimo edittale (nel 2015, anno dell’illecito contestato, la forbice edittale era compresa tra da un anno e sei mesi e sei anni di reclusione) in ragione della gravità del fatto (notevole importo dell’imposta evasa).
Tale motivazione Ł conforme alla giurisprudenza della Corte, secondo cui la graduazione del trattamento sanzionatorio, in generale, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, che lo esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen..
Per assolvere al relativo obbligo di motivazione, Ł sufficiente che il giudice dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: «pena congrua», «pena equa» o «congruo aumento», come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale
Nel giudizio di cassazione Ł dunque inammissibile la censura che miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 2, n. 39716 del 12/07/2018, COGNOME, Rv. 273819, in motivazione; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259142; Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, COGNOME, Rv. 255825; da ultimo v. Sez. 2, n. 1929 del 16/12/2020, dep. 2021, COGNOME non mass.), circostanza certamente non sussistente nel caso di specie.
4.2. Anche la doglianza relativa alle circostanze attenuanti generiche Ł manifestamente infondata.
Questa Corte ritiene infatti che le attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale «concessione» del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non
contemplate specificamente, non comprese cioŁ tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una piø incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena” (cfr., Sez. 2, n. 14307 del 14.3.2017, COGNOME; Sez. 2, n. 30228 del 5.6.2014, COGNOME).
Il loro riconoscimento non costituisce, pertanto, un diritto dell’imputato, conseguente all’assenza di elementi negativi, ma richiede elementi di segno positivo (v. ex multis sez. 3, n. 24128 del 18/3/2021, COGNOME, Rv. 281590; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, n.m.
Rileva altresì questa Corte che «il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62bis , disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non Ø piø sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01; Sez. 1, Sentenza n, 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986 – 01)».
Ancora, questa Corte ritiene che, poichØ la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante Ł soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 7, Ord. n. 10291 del 09/01/2024, COGNOME n.m.; Sez. 5, n. 2504 del 27/11/2023, dep. 2024, COGNOME, n.m.; Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, COGNOME, Rv. 275440 – 01; Sez. 3, n. 9836 del 9 marzo 2016, COGNOME, Rv. 266460 – 01).
Tale Ł il caso in esame, in cui entrambi i giudici del merito hanno ritenuto che l’imputata non abbia dedotto – se non l’incensuratezza – elementi di segno positivo che potrebbero costituire oggetto di positiva valutazione, evidenziandone la evidente insussistenza.
5. Il ricorso, in conclusione, non può che essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria dell’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, che il Collegio ritiene di fissare, equitativamente, in euro 3.000,00.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così Ł deciso, 21/01/2025
Il Consigliere estensore
NOME COGNOME
Il Presidente COGNOME NOME