Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 17886 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 17886 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/12/2024
SENTENZA
sul ricorso di COGNOME COGNOME nata a Napoli il 12/04/1988, avverso la sentenza in data 01/03/2024 della Corte di appello di Milano, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso; udita per l’imputata l’avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 10 marzo 2024 la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza in data 9 marzo 2023 del Tribunale di Monza, ha dichiarato di non doversi procedere per il reato del capo a) di cui al procedimento RG Trib 308/2020 perché già contestato al reato del capo d) RG Trib 1098/20, e ha ridotto la pena per i reati del procedimento RG Trib 1098/20 consistenti in due violazioni in concorso dell’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, anni d’imposta 2015 e 2016 (capi a e b), in una violazione in concorso dell’art. 5 d.lgs. n 74 del 2000, anno d’imposta 2016 (capo c), in una violazione in concorso dell’art. 10 -ter digs. n. 74 del 2000, accertato il 30 settembre 2016 (capo d).
2. Ricorre per cassazione l’imputata sulla base di tre motivi.
Con il primo contesta, sotto il profilo del vizio di motivazione, l’accertamento di responsabilità dei delitti ascritti perché la società era stata inattiva negli anni 2015 e 2016.
Con il secondo lamenta la violazione di legge in ordine all’elemento soggettivo perché era una mera prestanome.
Con il terzo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione per il rigetto del concordato e l’applicazione di una pena eccessiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Il primo motivo è fattuale e non si confronta con la sentenza impugnata ove si legge che solo nel 2018 la società era risultata inattiva mentre era stato possibile ricostruire con accertamento diretto il reddito prodotto, e quindi l’evasione di imposta, per gli anni 2015 e 2016, sulla base di quanto dichiarato dalla contribuente e di quanto riscontrato nelle annotazioni delle operazioni dal lato passivo. La tesi difensiva secondo cui le dichiarazioni erano state erroneamente presentate è stata motivatamente disattesa perché ritenuta inverosimile.
Il secondo motivo si risolve in un’inammissibile rilettura del compendio probatorio. La ricorrente sostiene di essere una testa di legno ancorché sia stato accertato che era proprietaria della RAGIONE_SOCIALE con la quota maggioritaria del 90%, e legale rappresentante, per cui era perfettamente al corrente di una serie di anomalie: la società operava in Monza, ma era stata costituita a Foggia, e il conto corrente era stato accesso presso la Cariparma, filiale di NapoliSecondigliano; l’amministratrice aveva ritirato il carnet di assegni e l’aveva consegnato al commercialista NOME NOME COGNOME firmando in bianco i titoli, mentre aveva conferito la delega a operare a tale NOME COGNOME Correttamente la Corte territoriale ha evidenziato che la COGNOME era investita dell’obbligo di garanzia e quindi di custodia dei titoli e che non aveva spiegato i suoi comportamenti, ivi compresa la sottoscrizione delle dichiarazioni fiscali che erano state trasmesse.
La decisione è in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui la prova del dolo specifico dei reati tributari in capo all’amministratore di diritto di una società, che funge da mero prestanome, può essere desunta dal complesso dei rapporti tra questi e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono decisiva valenza la macroscopica illegalità
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dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità (Sez. 3, n. 2570 del
28/09/2018, dep. 2019, COGNOME Rv. 275830 – 01).
Il terzo motivo è inconsistente perché la Corte territoriale ha lungamente spiegato le ragioni del diniego delle generiche per la gravità dei fatti, per i
precedenti penali, per il contegno non collaborativo, e per l’assenza di condotte riparative. La pena complessiva, quantificata in anni due di reclusione dopo gli
aumenti per la continuazione, è inferiore al medio edittale della pena prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 che all’epoca andava da un anno e sei mesi a
quattro anni di reclusione e non necessita di soverchie motivazioni rispetto al riferimento ai criteri dell’art. 133 cod. pen. (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del
Papa, Rv. 276288 – 01).
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la
ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data
13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata, in ragione della consistenza della causa di inammissibilità del ricorso, in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende Così deciso, il 19 dicembre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presi ente