Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22615 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22615 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 21/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
avverso l’ordinanza del 10/07/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette le conclusioni del PG, NOME COGNOMECOGNOME che ha chiesto dichiar l’inammissibilità del ricorso.
letta la memoria scritta con cui i difensori del ricorrente, AVV_NOTAIO, hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 10 luglio 2023 la Corte di assise d’appello di Bari
C.A. funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’istanza di condannato in via definitiva per l’omicidio di NOME con sentenza della stessa Corte del 20 settembre 2021, irrevocabile il 23 settembre 2022, di ess autorizzato, in vista di un eventuale giudizio di revisione, ad estrapolare i mitocondriale dalle formazioni pilifere, rinvenute tra le mani della vit contrassegnate negli atti del giudizio dai numeri 1, 2, 4, 9, 10 della tabella dal consulente tecnico del pubblico ministero, a verificare la presenza o meno de radice sulle formazioni pilifere attaccate all’orecchino rinvenuto sotto il corpo
vittima, ad esaminare ed analizzare la bottiglietta rinvenuta sul luogo del fatto al fine di accertare la natura del prodotto contenuto in essa, effettuare esami sul sangue della vittima contenuto in carta filtro facente parte dei reperti agli atti.
In particolare, il giudice dell’esecuzione ha rilevato che la difesa dell’imputato aveva formulato la medesima richiesta nel giudizio di cognizione, in cui aveva chiesto sia la perizia sui capelli rinvenuti tra le mani della vittima sia l’accertamento sul se la bottiglia in questione contenesse benzacolferri; il giudice della cognizione aveva respinto l’istanza, che era stata formulata in appello nel giudizio di rinvio, in quanto non assolutamente necessaria all’accertamento dei fatti; l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione avverso tale punto, ricorso che era stato respinto.
Ne consegue che, secondo il giudice dell’esecuzione, gli accertamenti richiesti non costituiscono “prova nuova”, perché erano già stati richiesti al giudice della cognizione e perché l’istanza ripropone questioni già vagliate su elementi che per un verso erano già noti e già dedotti (quanto alle formazioni pilifere ed alla bottiglia), e per un altro erano deducibili (quanto alla formazione non colorata artificialmente); l’istanza, pertanto, dissimula, sotto le forme dell’incidente d esecuzione, la pretesa del condannato di cercare di ottenere un nuovo grado di impugnazione.
2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso il condannato, per il tramite del difensore, con unico motivo, in cui deduce vizio di motivazione in quanto, con riferimento al rigetto della richiesta di accertamento sui capelli rinvenuti nelle mani della vittima, il giudice dell’esecuzione si è affidato all preclusione del giudicato perché la richiesta è già stata avanzata e respinta nel processo di cognizione, però, in realtà, non si trattava della medesima richiesta, perché nel processo di cognizione non si era mai fatto cenno alla diversità morfostrutturale del capello n. 10, e perché in ogni caso una tale preesistenza non è in grado di fondare il rigetto della richiesta, poi il giudice dell’esecuzione si arroga giudizio di anticipare il giudizio di ammissibilità dell’eventuale istanza di revisione; inoltre lo stesso inserisce una spiegazione ricostruttiva dell’esistenza di tali formazioni pilifere diversa da quella effettuatokdal giudice della cognizione; per ciò che riguarda le formazioni pilifere attaccate all’orecchino non appartenente alla vittima sotto il suo cadavere, il giudice dell’esecuzione introduce un argomento nuovo per giustificare la presenza di tali capelli diverso da quello speso dal giudice della cognizione; per quanto riguarda il rigetto dell’accertamento sul capello, la motivazione che l’elemento di prova non ha costituito prova a carico del ricorrente è errata perché la rilevanza dell’accertamento richiesto non discende dalla capacità della prova di essere prova a carico, ma è la conseguenza diretta della circostanza
che essa non è stata presa in considerazione nel giudizio di cognizione nella sentenza che lo ha definito.
Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, NOME COGNOME, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Con memoria scritta i difensori del ricorrente, AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO, hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
Nell’unico motivo il ricorso deduce che il giudice dell’esecuzione si è arrogato i poteri del giudice della revisione, valutando l’istanza alla luce dell’eventuale ammissibilità di tali prove nel giudizio di revisione, valutazione che sarebbe estranea rispetto al perimetro della decisione che gli era stata sottoposta.
Il percorso logico del provvedimento impugnato passa, in effetti, attraverso la valutazione della novità della prova che si vorrebbe ottenere mediante gli accertamenti tecnici richiesti, della circostanza che si trattasse di elementi già dedotti o comunque deducibili nel giudizio di cognizione, della loro incidenza sul giudizio di colpevolezza del condannato (v., in particolare, pag. 7 della motivazione). Il giudice dell’esecuzione ha, in definitiva, respinto l’istanza ritenendo gli accertamenti richiesti non utili ai fini di un eventuale giudizio revisione, effettuando quella anticipazione del giudizio di revisione che il ricorso censura.
L’argomento è, ciò nonostante, infondato, in quanto il collegio ritiene di dare continuità all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità più recente, che si cita di seguito ai punti 1.4. ed 1.5., che ha ritenuto che nel perimetro della decisione che deve prendere il giudice dell’esecuzione rientra anche una valutazione sulla utilità dell’accertamento richiesto ai fini del giudizio di revisio e sulla novità della prova che si vorrebbe introdurre in esso.
1.1. La giurisprudenza della Corte sui poteri del giudice dell’esecuzione sull’istanza di accesso ai reperti presentata dal difensore del condannato in vista di un futuro, eventuale, giudizio di revisione si è formata su due sentenze gemelle, emesse in due fasi diverse del medesimo procedimento penale.
La prima pronuncia, emessa in sede di regolamento del conflitto di competenza, nell’attribuire la competenza a provvedere su tale tipo di istanza al giudice dell’esecuzione, ha ritenuto che il provvedimento del giudice
dell’esecuzione che decide sull’istanza di accertamenti tecnici del difensore finalizzati al giudizio di revisione ex art. 327-bis, comma 2, cod. proc. pen. debba valutare l’ammissibilità e fondatezza dell’istanza sulla base dei parametri normativi offerti dall’art. 391-novies cod. proc. pen. per lo svolgimento di attivit investigativa preventiva (Sez. 1, n. 1599 del 05/12/2006, dep. 2007, confl. comp. in proc. Piemonte, rv. 236236),
La successiva sentenza Sez. 1, n. 16798 del 08/04/2008, Piemonte, rv. 239581, che ha deciso sul provvedimento emesso dal giudice dell’esecuzione all’esito della risoluzione del conflitto, ha confermato che “il quadro normativa>di riferimento, per la decisione dell’incidente, resta pertanto costituito dall disposizioni sulle investigazioni difensive e, ovviamente, da quelle del codice di rito, delle relative disposizioni di attuazione e del testo unico sulle spese di giustizi in materia di destinazione delle cose sequestrate”, ed ha aggiunto che ad essa “è, pertanto, estranea ogni valutazione in punto di ammissibilità della ipotetica richiesta di revisione che eventualmente, nel caso di accoglimento della istanza, il condannato potrebbe formulare, all’esito delle indagini difensive esperite sui campioni dei materiali biologici, tuttora in sequestro”, e che “la considerazione della negativa delibazione della possibilità della revisione, posta dalla Corte territoriale a base del rigetto dell’incidente, non è pertinente al tema decidendum”.
La seconda pronuncia Piemonte si è posta anche il problema del rapporto tra l’istanza presentata al giudice dell’esecuzione e le eventuali istanze già presentate sullo stesso punto durante il giudizio di cognizione e lo ha risolto nel senso che “la preclusione del giudicato, a’ termini dell’articolo 649 C.P.P., non involge le statuizioni del giudice della cognizione in punto di ammissione della prova; sicché la intervenuta reiezione, nel corso del giudizio, della istanza difensiva di perizia biologica su campioni del tessuto osseo in sequestro (…) non pregiudica, di per sé sola, la ammissibilità della istanza del condannato di ottenere dal giudice della esecuzione la consegna di alcuni campioni per espletare indagini difensive”.
1.2. Nel sistema disegnato dalle pronunce Piemonte, quindi, il perimetro della decisione del giudice dell’esecuzione è dato dalle norme che disciplinano le investigazioni difensive preventive, ed, in particolare, dall’art. 391-novies cod. proc. pen.
Questa norma, però, si limita a disporre in modo generico al comma 1 che “l’attività investigativa prevista dall’articolo 327 bis, con esclusione degli atti c richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, può essere svolta anche dal difensore che ha ricevuto apposito mandato per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”, e contiene, pertanto, soltanto una attribuzione
del potere, ma non una indicazione esplicita dei limiti di tale potere, e quindi delle attività autorizzabili dal giudice.
I poteri del difensore in sede di investigazioni difensive erano stati, però, approfonditi in altra pronuncia della Suprema Corte, Sez. 4, n. 46270 del 14/10/2005, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 232912, che ha ritenuto “abnorme il decreto con il quale il giudice autorizza, in sede di investigazione difensiva preventiva, l’accesso del difensore di soggetti, che non erano indagati o persone offese, a luoghi privati e non aperti al pubblico (nella specie sottoposti a sequestro probatorio da parte del P.M. nell’ambito di procedimento avviato contro ignoti per il crollo di una palazzina), poiché, in sede di investigazione preventiva, non è consentito al difensore lo svolgimento di atti che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, vale a dire del P.M. o del giudice”.
In motivazione la sentenza COGNOME ha precisato che in sede di investigazione preventiva non è consentito lo svolgimento di atti che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria, vale a dire del pubblico ministero o de giudice, e tra essi ha citato espressamente “la richiesta di autorizzazione affinché il consulente tecnico possa esaminare le cose sequestrate od oggetto di ispezioni ovvero intervenire alle ispezioni (articolo 233 c.p.p., comma 1 bis)”, sostenendo che gli atti di cui è consentito lo svolgimento durante le investigazioni difensive preventive “si riducono, in sostanza, al colloquio non documentato, alla ricezione di dichiarazione scritta o all’assunzione di informazioni dal potenziale testimone, alla richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione ed all’accesso ai luoghi pubblici o aperti al pubblico”.
Nella sistematica della pronuncia COGNOME il decreto con il quale il giudice autorizzi, in sede di investigazione difensiva preventiva, l’accesso a luoghi privati e non aperti al pubblico, o, come nel caso oggetto dell’odierno giudizio, l’esame dei reperti in sequestro, pertanto, “si pone, sotto il profilo strutturale e funzional fuori dal sistema organico della legge processuale”.
1.3. Il riferimento generico delle pronunce Piemonte alle norme che disciplinano le investigazioni difensive preventive, ed il richiamo ad una norma quale quella dell’art. 391-novies cod. proc. pen., che contiene soltanto una attribuzione del potere, ma non una delimitazione dei limiti di tale potere, ha determinato delle incertezze applicative, e delle necessità di precisazioni, nella giurisprudenza successiva.
La sentenza Sez. 1, n. 13623 del 08/02/2017, COGNOME, n.m., annullando un provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva negato l’accesso del difensore del condannato ai campioni ematici ancora in sequestro, ha affermato, infatti, che “l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria di cui all
391-nonies fanno riferimento ad atti di rilevanza processuale e non già a quelli di mero controllo amministrativo (il sequestro ha perso efficacia con la definitività della sentenza e comunque il processo ha esaurito ogni sua fase procedimentale)” e che la disposizione dell’art. 233, comma 1-bis, cod. proc. pen. sarebbe estranea alla materia in esame, in quanto “trova applicazione alla fattispecie procedimentale ivi descritta e richiamata e non già nel contesto processuale determinatosi all’esito di sentenza definitiva in relazione alla quale si intende promuovere domanda di revisione”.
All’esito di questo percorso logico la pronuncia COGNOME ritiene autorizzabile, mediante la procedura dell’incidente di esecuzione sull’istanza del difensore del condannato ex art. 391-novies, comma 1, cod. proc. pen., finanche un accertamento tecnico su campioni in sequestro che provochino la distruzione del campione e rendano l’esame eventualmente irripetibile, in quanto “l’eventuale irripetibilità dell’esame ematico per il quale il ricorrente ha richiesto il prelievo allo stato, privo di interesse per l’autorità giudiziaria, la quale ha ormai definito processo per il quale il sequestro probatorio fu a suo tempo eseguito e sarà il giudice della revisione a valutare l’ammissibilità e la rilevanza, ai fini del giudizi di una eventuale maturata irripetibilità dell’atto eseguito dalla difesa non in contraddittorio”.
1.4. Di fronte a questa dilatazione dell’ambito di estensione delle istanze autorizzabili in questa fase dal giudice dell’esecuzione, la giurisprudenza successiva della Corte ha ritenuto necessario tornare sull’argomento dei poteri che spettano al giudice dell’esecuzione nel giudizio di ammissibilità e fondatezza dell’istanza del difensore del condannato di autorizzazione al prelievo di campioni in sequestro per lo svolgimento di accertamento tecnici.
La successiva pronuncia Sez. 1 n. 39754 del 21/07/2017, COGNOME, n.m., infatti, dopo aver prestato ossequio all’orientamento espresso dalle due pronunce Piemonte, ha aggiunto, però, che “su questo tema, tuttavia, sono necessarie puntualizzazioni”.
La sentenza COGNOME, in particolare, ha puntualizzato che l’attività di investigazione difensiva preventiva del difensore del condannato – proprio perché, svolgendosi su beni in sequestro, comporta il coinvolgimento della amministrazione giudiziaria nel suo complesso – non può essere effettuata senza controllo, costruendo l’esercizio del potere di cui all’art. 391-novies, cod. proc. pen. come un potere “esercitabile ad libitum lasciando la parte libera in ogni momento di instare per il compimento delle indagini che stimi utili”.
La sentenza COGNOME ha affermato che, invece, “spetta alla parte dedurre la decisività dello specifico atto di indagine difensiva richiesto e l’utilità che si mira
conseguire attraverso l’esercizio del diritto. In un’ottica non dissimile da quanto previsto dall’art. 410 cod. proc. pen. che, a pena di inammissibilità, per la prosecuzione delle indagini preliminari richiede che l’oggetto di esse presenti particolari condizioni di concretezza e specifici”.
La pronuncia COGNOME, pertanto, pur non attribuendo mai in modo esplicito al giudice dell’esecuzione l’anticipazione di un potere del giudice della revisione, ha ritenuto che nel giudizio di ammissibilità e fondatezza dell’istanza il giudice dell’esecuzione debba valutare anche l’utilità, e decisività, della prova che si intende trarre dagli accertamenti tecnici sui campioni in sequestro.
1.5. L’orientamento della pronuncia COGNOME è stato consolidato dalla sentenza immediatamente successiva tornata ad occuparsi dell’argomento, Sez. 1, n. 44591 del 03/05/2018, C. , rv. 273979, che, ponendosi in modo esplicito nel solco dei principi tracciati dalla pronuncia COGNOME, ha ritenuto necessario un filtro del giudice dell’esecuzione sull’ammissibilità e fondatezza dell’istanza ed ha ancorato in modo esplicito questo filtro ai parametri di valutazione dell’ammissibilità della prova ai fini del futuro, eventuale, giudizio di revisione.
Nella sentenza C. si legge, infatti, che “la delimitazione dei poteri del giudice nella fase d’interesse non può che essere strettamente correlata ai requisiti di cui dev’essere munita l’istanza per poter essere presa in considerazione in senso favorevole. La prima considerazione da fare è che l’attività investigativa preventiva richiesta determina, per il necessario rispetto del principio del contraddittorio, i coinvolgimento del Pubblico Ministero e della struttura giudiziaria nel suo complesso, con i correlati oneri economici per lo Stato, sicché non è consentito ritenere che essa si possa svolgere senza nessun controllo e che tale potere sia esercitabile ad libitum lasciando la parte libera in ogni momento di instare per il compimento delle indagini che stimi utili. Si deve, quindi, giocoforza, affermare che spetta alla parte dedurre la decisività dello specifico atto di indagine difensiva richiesto e l’utilità che si mira a conseguire attraverso l’esercizio del diritto” e aggiunge che “non può costituire “prova nuova” un elemento già esistente negli atti processuali, ancorché non conosciuto o valutato dal giudice per mancata deduzione o mancato uso dei poteri d’ufficio”.
Sulla base di questa costruzione di principio la pronuncia C. GLYPH ha ritenuto, quindi, corretta la decisione del giudice dell’esecuzione che ha respinto l’istanza in quanto da un lato ha “negato il carattere di “novità” degli accertamenti richiesti in base alla non allegata emergenza di elementi estranei e diversi da quelli definiti nel processo, e, dall’altro, ha stigmatizzato il carattere sostanzialmente “esplorativo” della richiesta per la mancata indicazione, da parte dell’istante, alla luce della prospettazione di nuove metodologie scientifiche da applicare negli
accertamenti suddetti, di un diverso specifico risultato cui, tramite siffatte nuove metodologie, sarebbe stato possibile pervenire”.
Secondo la pronuncia GLYPH C. , infatti, “il ragionamento del giudice dell’esecuzione si è, infatti, arrestato laddove ha motivatamente ritenuto (…) superflui e, ormai, inutili gli accertamenti richiesti in funzione della revisione de processo. D’altro canto, nessuna illogicità manifesta risiede nella valutazione critica della mancata indicazione, da parte dell’istante, dello specifico, diverso risultato cui l’accertamento richiesto sarebbe approdato, in quanto trattasi di valutazione coerente con i principi, anche di ordine sistematico, poc’anzi richiamati, che negano l’ammissibilità a una richiesta istruttoria meramente “esplorativa”, ossia ad una richiesta del tutto sprovvista, come nella specie, della allegazione di elementi circostanziali specifici capaci di orientare le indagini nella direzione di una decisiva modifica del quadro probatorio cristallizzato nel giudizio di cui si chiede la revisione”.
Nella pronuncia GLYPH C. , quindi, il collegamento tra la decisione del giudice dell’esecuzione e la pronuncia di revisione è esplicito, sia sotto il profilo della util della prova che si intende trarre dagli accertamenti tecnici, sia sotto il profilo dell novità della stessa rispetto agli elementi già dedotti, o deducibili, nel giudizio d cognizione.
1.6. La successiva pronuncia Sez. 1, n. 2603 del 12/01/2021, COGNOME, rv. 280356, non ha apportato ulteriori elementi utili, in quanto, per le particolarità del caso di specie, si è arrestata in limine, ed ha ritenuto soltanto che il mandato al fine di svolgere attività difensive può riguardare anche la fase dell’esecuzione penale ovvero può essere finalizzato a promuovere il giudizio di revisione, ed in tal caso si svolge, per alcuni limitati atti, tra cui quello in cui il difensore int accedere a beni in sequestro, sotto il controllo del giudice dell’esecuzione, che non può, quindi, declinare la propria competenza a provvedere.
1.7. Come anticipato sopra, il collegio ritiene di dare continuità all’orientamento compendiato nelle pronunce COGNOME e C. sopra citate.
Il potere di filtro del giudice dell’esecuzione nel valutare le istanze del difensore del condannato di accesso ai reperti in sequestro si ricava, infatti, dal complesso del sistema processuale, che in ogni fase processuale prevede che il diritto alla prova delle parti processuali (art. 190 cod. proc. pen.) non sia assoluto, ma sottoposto ad un filtro di valutazione del giudice.
Il potere di filtro del giudice è diverso a seconda delle fasi processuali, in quanto in primo grado il giudice ha il potere di escludere soltanto le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti (artt. 495 cod.
proc. pen., che richiama l’art. 190 citato); in appello, invece, il giudice ha un potere di filtro più ampio, perché la rinnovazione dell’istruttoria è ammessa soltanto se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (art. 603 cod. proc. pen.); nel giudizio di revisione il potere di filtro è ancora diverso, perchè diritto alla prova può essere esercitato soltanto se le prove nuove sono sopravvenute o scoperte dopo la condanna e se esse da, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto (artt. 630 e 631 cod. proc. pen.).
Sarebbe, pertanto, incoerente con il sistema processuale costruire, nella sola fase che intercorre tra il giudicato di condanna e l’inizio del giudizio di revisione come fa la pronuncia COGNOME, una sorta di diritto assoluto alla prova del condannato, che impedisca al giudice di filtrare le istanze e che renda l’autorizzazione vincolata.
L’incoerenza emerge ancor di più nel caso in esame, in cui il brevissimo tempo (meno di un anno) trascorso tra il momento in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile e quella in cui è stata presentata istanza, e la quasi completa sovrapponibilità degli accertamenti tecnici che si chiede di poter effettuare nella istanza di incidente di esecuzione con quelli che la difesa dell’imputato aveva chiesto di effettuare nel corso del giudizio di rinvio, permettono all’ordinanza impugnata di affermare, in modo non incoerente con gli atti del giudizio, che l’istanza di incidente di esecuzione dissimula, in realtà, la volontà dell’imputato di ottenere, attraverso di essa, un ulteriore grado di impugnazione.
Il potere di filtro nella ammissione della prova, che, pertanto, inevitabilmente spetta al giudice dell’esecuzione, deve svolgersi nella fase in esame, oltre che nei limiti fissati dalle norme sulle indagini difensive preventive richiamati dall pronunce Piemonte, anche alla luce dei parametri della “non esploratività” della richiesta e della “novità” della prova, evidenziati dalla pronuncia C. , in quanto parametri di valutazione del diritto alla prova coessenziali al sistema processuale.
La “non esploratività” della istanza, che la pronuncia C. ritiene essere un filtro necessario per evitare le istanze “mirate ad accertamenti che appaiano all’evidenza superflui o inidonei a determinare modificazioni sostanziali del quadro probatorio”, è, infatti, un parametro di valutazione del diritto alla prova che è necessario in ogni fase processuale, persino in quelle di carattere interlocutorio come la procedura di opposizione all’archiviazione di cui all’art. 410 cod. proc. pen., come spiegano bene sia la pronuncia COGNOME che quella RAGIONE_SOCIALE.
La “novità” della prova è, invece, un filtro di valutazione dell’istanza che si ricava dalla specifica fase processuale in cui la stessa si inserisce, ovvero dopo il giudicato di condanna, in cui il diritto alla prova ormai ha la possibilità di essere declinato soltanto a condizione che le prove siano sopravvenute o scoperte dopo
la condanna e siano, peraltro, idonee, da sole o unite a quelle già valutate, a dimostrare che il condannato debba essere prosciolto. La “novità” della prova è, pertanto, un filtro che non deriva dal giudicato, come aveva ritenuto la seconda pronuncia Piemonte, ma dalla limitatezza delle facoltà processuali a disposizione del condannato nella specifica fase successiva al giudicato di condanna.
L’attribuzione al giudice dell’esecuzione di un potere di valutazione della “non esploratività” della istanza e della “novità” della prova non rende il suo giudizio una anticipazione della valutazione di ammissibilità della prova che compete al giudice della revisione, che è un organo giudiziario diverso (art. 633 cod. proc. pen.) da quello che decide l’istanza di incidente di esecuzione (art. 665 cod. proc. pen.).
L’attribuzione al giudice dell’esecuzione di un potere di valutazione della “non esploratività” della istanza e della “novità” della prova non è pregiudicante, peraltro, rispetto alla decisione del giudice della revisione, che non è in alcun modo condizionato processualmente dalla diversa valutazione del giudice dell’esecuzione e dall’eventuale esaurimento delle vie di impugnazione della sua decisione.
Da ultimo, l’attribuzione al giudice dell’esecuzione di un potere di valutazione della “non esploratività” della istanza e della “novità” della prova non comporta la sovrapposizione tra il giudizio del giudice dell’esecuzione e quello del giudice della revisione, perché quello del giudice dell’esecuzione ha un perimetro molto più limitato, sia quanto a potere di filtro della “non esploratività” che quanto ad ampiezza della motivazione, perché le sue attribuzioni nella materia in esame trovano il loro fondamento, in definitiva, soltanto nel suo ruolo di dominus delle statuizioni sui beni in sequestro che si ricava dall’art. 676 cod. proc. pen. L’ordinanza che decide l’incidente di esecuzione non deve, pertanto, vagliare funditus la idoneità degli accertamenti tecnici invocati a scardinare il giudizio di responsabilità, ma, nell’ambito del potere di filtro sul diritto alla prova, che coessenziale al sistema processuale, e che gli spetta quale giudice che procede, si deve limitare a respingere le istanze di accertamenti non nuovi, in quanto già dedotti o deducibili, o che sono “superflui o inidonei a determinare modificazioni sostanziali del quadro probatorio”, secondo la formula usata dalla pronuncia C.
1.8. Alla luce di questi principi, l’ordinanza del giudice dell’esecuzione resiste alle censure che le sono state rivolte.
Con riferimento al rigetto dell’accertamento sui capelli nelle mani della vittima, l’osservazione del giudice dell’esecuzione che si tratta della reiterazione di una richiesta che era stata già presentata al giudice della cognizione è sufficiente
per rendere conforme ai principi generali e non manifestamente illogica la decisione di rigetto dell’istanza.
L’argomento speso nel ricorso secondo cui la richiesta è parzialmente nuova, perché il capello n. 10 non era mai stato citato nelle istanze avanzate al giudice della cognizione, non è sufficiente a disarticolare il percorso logico dell’ordinanza, in quanto si tratta di accertamenti su campioni che erano già in sequestro nel corso del giudizio, e quindi di prove comunque deducibili.
Il ricorso deduce che l’accertamento sarebbe nuovo, in quanto nuova sarebbe la metodica con cui verrebbe effettuato, ma l’ordinanza impugnata evidenzia che anche al giudice della cognizione l’accertamento era stato proposto come nuovo in quanto da effettuare con nuove metodiche. Nella motivazione dell’ordinanza impugnata, infatti, emerge (pag. 5, in nota 3) che nel giudizio di cognizione la difesa aveva chiesto l’accertamento sostenendo che “nelle more vi sarebbero delle nuove tecniche che consentirebbero di superare l’ostacolo originario”. Il ricorso contesta l’ordinanza impugnata limitandosi a richiamare la relazione del proprio consulente di parte sulla novità delle metodiche, ma la pronuncia di condanna è del 21 settembre 2021, quindi non particolarmente risalente da permettere di apprezzare senza bisogno di particolare motivazione il progresso delle tecnologie di sequenziamento massivo parallelo di DNA e RNA”, per assumere rilevanza nell’incidente di esecuzione la novità della metodica dovrebbe essere successiva al giudizio di cognizione (Sez. 4, Sentenza n. 28724 del 14/07/2021 , COGNOME, Rv. 281740; Sez. 5, Sentenza n. 2982 del 26/11/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 245840), circostanza che non è neanche ipotizzata in ricorso.
Il ricorso deduce, per ciò che riguarda le formazioni pilifere attaccate all’orecchino non appartenente alla vittima sotto il suo cadavere, che il giudice dell’esecuzione avrebbe introdotto un argomento nuovo per giustificare la presenza di tali capelli diverso da quello speso dal giudice della cognizione, ma l’argomento è inammissibile in quanto non conferente con la motivazione dell’ordinanza impugnata che ha respinto l’istanza sulla base della mera esploratività della stessa, che, come ricostruito sopra, è un parametro di giudizio che appartiene alla cognizione del giudice dell’esecuzione adito dal condannato per ottenere l’autorizzazione al prelievo di campioni in sequestro.
Il ricorso deduce che la formazione pilifera diversa dalle altre non ha costituito prova a carico del ricorrente, ma potrebbe costituire prova a discarico, rendendo illogica la motivazione dell’ordinanza impugnata che sostiene che l’accertamento richiesto riguarda una prova che non è mai stata posta a carico. L’argomento, pur essendo corretto sul piano strettamente logico, è inammissibile in quanto inidoneo, per le stesse ragioni, a disarticolare la motivazione dell’ordinanza impugnata che si fonda anche sulla non novità della prova che era già deducibile nel corso del
processo di cognizione, valutazione che, come detto, appartiene al perimetro del giudizio del giudice dell’esecuzione.
Il ricorso è, nel complesso, infondato.
Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dal legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 d.lgs.196/03 in quan imposto dalla legge.
Così deciso il 21 marzo 2024 Il consigliere estensore
GLYPHIl presidente