Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 31602 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 31602 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a RAGIONE_SOCIALE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila del 03/03/2023;
visti gli atti e la sentenza impugnata; esaminati i motivi del ricorso;
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
lette le conclusioni scritte del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME, che chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
Letta la memoria depositata dall’AVV_NOTAIO, difensore della Parte civile RAGIONE_SOCIALE, che chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile
con “condanna alle spese processuali per la parte civile costituita, da liquidarsi secondo Giustizia”.
Letta la memoria depositata dal difensore dell’imputato, AVV_NOTAIO, nella quale si contestano le conclusioni del PG e della Parte civile, insistendosi per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di L’Aquila con sentenza del 3 marzo 2023 (motivazione depositata il successivo 22 maggio) ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Vasto che ha condannato COGNOME t ovanni alla ,, 1 pena di mesi nove di reclusione (con i doppi benefici di legge) e GLYPH conseguenti statuizioni civili in favore della Parte civile COGNOME, in relazione al delitto di cui all’art. 328 cod. pen. commesso nella qualità di sindaco del RAGIONE_SOCIALE.
In particolare, all’imputato viene contestato di avere, nell’indicata qualità, indebitamente rifiutato di porre in essere atti del proprio ufficio (provvedere con urgenza all’esecuzione dei lavori necessari per la messa in sicurezza di un terrapieno) che per ragioni di sicurezza pubblica dovevano essere compiuti senza ritardo. E ciò, nonostante le reiterate richieste della persona offesa riguardanti la grave situazione di pericolo incombente sul proprio immobile, l’intervento nel dicembre 2013 di sentenza di condanna del Tribunale civile di Vasto, con la quale si imponeva al RAGIONE_SOCIALE di eseguire – a propria cura e spese – i lavori per la messa in sicurezza del versante a ridosso dell’abitazione di NOME, nonché, da ultimo, le note del 18 e 22 agosto 2016 con le quali il RAGIONE_SOCIALE Chieti aveva segnalato la necessità di un urgente intervento (in RAGIONE_SOCIALE, denuncia del 30 luglio 2016 e con permanenza in corso).
Avverso la sentenza di appello l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso nei quali vengono dedotti i seguenti motivi
3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta qualità di pubblico ufficiale in capo all’imputato (primo motivo); ciò in quanto egli non ha rivestito nella vicenda la qualità pubblicistica dal momento che nel
giudizio civile il RAGIONE_SOCIALE – rappresentato dal COGNOME – è intervenuto in posizione di parità con la parte attrice (come è dimostrato anche dalla circostanza che la pronuncia ha condannato il RAGIONE_SOCIALE ad un facere, statuizione inammissibile nei confronti di una Pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue potestà pubbliche), e quindi in un regime estraneo all’esplicazione di atti autoritativi pubblici ma iure privatorum, il che rende insussistente in necessario presupposto della fattispecie incriminatrice.
3.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta integrazione della fattispecie di cui all’art. 328, comma 1, cod. pen. in quanto non è vero che l’imputato sia rimasto inerte, essendosi, al contrario egli attivato in modo concreto per risolvere le problematiche relative all’immobile della RAGIONE_SOCIALE; inoltre, l’affermazione di penale responsabilità non ha tenuto conto della inesistenza delle ragioni di “sicurezza pubblica” mentre, tutt’al più, si trattava di esigenze relative alla sola parte civile. Evidenzia, altresì, che si è trattato di una situazione di natura esclusivamente privatistica che si sarebbe dovuta risolvere all’interno del solo procedimento civile, attraverso l’esecuzione della condanna emessa in tale sede che, a norma dell’art. 202 cod. proc. civ., era munita di provvisoria esecuzione (ed infatti, la parte civile aveva provveduto a notificare al RAGIONE_SOCIALE il precetto ai sensi dell’art. 612 cod. proc. civ.). Infine, eccepisce la buona fede dell’imputato e la sussistenza di un errore scusante ex art. 47 comma 3 cod. pen.
3.3. Con il terzo motivo, si eccepisce l’estinzione del reato per l’intervento della prescrizione, atteso che la presunta omissione risale addirittura al 2003.
3.4. Con il quarto motivo, infine, si deduce violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla omessa mitigazione della pena irrogata.
Il giudizio di cassazione si è svolto a trattazione scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla I. n. 176 del 2020, e le parti hanno depositato le conclusioni come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato e va quindi rigettato.
Il primo motivo è infondato. La sentenza chiarisce che l’obbligo incombente sull’imputato derivava non solo dalla sentenza del Giudice civile, ma anche dall’obiettiva situazione di grave pericolo per la pubblica incolumità (come dimostrato dalle comunicazioni dei RAGIONE_SOCIALE che intimavano al sindaco l’esecuzione dei lavori per la messa in sicurezza). In ogni caso deve ribadirsi che nel delitto di omissione di atti d’ufficio il comportamento omissivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio rileva non solo nei casi in cui, in conseguenza e per effetto dell’inerzia dell’agente, non sia stato posto in essere un atto amministrativo in senso proprio ma anche quando si sia in presenza di un’attività di diritto privato o di altra natura che si aveva il dovere di compiere (così, Sez. 6, n. 22431 del 04/05/2005, COGNOME, Rv. 231864 01).
Anche il secondo motivo risulta infondato. La sentenza di primo grado chiarisce che l’imputato non solo non ha rimosso la situazione di pericolo, nonostante le precise indicazioni dei RAGIONE_SOCIALE, ma il 20 novembre 2017 ha adottato un’ordinanza contingibile e urgente che ha decretato la inagibilità parziale dell’abitazione interessata. La Corte di appello, con motivazione certamente non illogica, ha rilevato che “con tale ordinanza non solo il RAGIONE_SOCIALE riconosceva la sussistenza di una condizione di pericolo per l’incolumità della signora COGNOME e quindi la necessità di intervenire in via di urgenza, ma addirittura faceva ricadere le conseguenze della propria colpevole inerzia proprio a carico della persona offesa, costringendola alla inagibilità parziale della sua abitazione che peraltro non era oggettivamente praticabile stante le ridotte dimensioni degli ambienti interni. Tanto che in un successivo sopralluogo i RAGIONE_SOCIALE imponevano alla sig.ra COGNOME di lasciare la propria abitazione, nella evidenza che l’anziana signora non poteva vivere in quelle condizioni” (pag. 14 s.).
3.1. Per quanto riguarda poi la dedotta mancanza del requisito delle “ragioni di sicurezza pubblica”, rileva il Collegio che la possibile rovina di una abitazione (ancorchè ad uso di una sola persona) certamente integra tale presupposto, dal momento che tali ragioni possono escludersi solo quando il
pericolo concerna piccole strutture, di per sé inidonee a cagionare rischi per le collettività (in tal senso, nel ben diverso caso di «una fontanella pubblica minacciante rovina», questa Corte ha escluso la sussistenza di “ragioni di sicurezza pubblica”, idonee a configurare la fattispecie in esame, trattandosi di «un modesto manufatto sito per di più in zona rurale»: così, Sez. 6, n. 10219 del 08/05/1998, Tulipani e altro, Rv. 212241 – 01).
3.2. Infine, manifestamente infondata è la censura relativa all’elemento soggettivo del reato. A prescindere dalla circostanza – evidenziata dai giudici di merito – che la complessiva condotta seguita dall’imputato dimostra non solo l’intenzione di eludere i propri doveri ma, addirittura, quella di danneggiare la persona offesa – va ribadito che «deve essere considerato errore sulla legge penale, come tale inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi intendere per “legge diversa dalla legge penale”, ai sensi dell’art. 47 cod. pen., quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale, o da questa non richiamata neppure implicitamente. (Nella specie, relativa al delitto di cui all’art. 328 cod. pen., la Corte ha escluso che l’art. 25 L. 241 del 1990, il quale disciplina il diritto di accesso ai documenti amministrativi consentendo al soggetto interessato non solo l’esame, ma anche l’estrazione di copia dei documenti stessi, costituisca legge extrapenale)»: Sez. 6, n. 25941 del 31/03/2015, Ceppaglia, Rv. 263808 – 01); situazione, questa, chiaramente non rinvenibile nel caso in esame.
Il motivo con il quale si è invocata l’intervenuta prescrizione del reato è manifestamente infondato. Invero, «il reato di rifiuto di atti di ufficio previsto dal primo comma dell’art. 328 cod. pen., pur se istantaneo, può configurarsi anche nel caso in cui l’inerzia omissiva, protraendosi oltre il termine per il compimento dell’atto, pur a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale, si risolva in un rifiuto implicito, sì che in tal caso il momento consumativo coincide con l’adozione dell’atto dovuto, la quale determina la cessazione degli effetti negativi della inazione» (da ultimo, Sez. 6, n. 16483 del 5/03/2022, Rv. 283151 – 01). Nella specie, la sentenza impugnata dà atto che l’imputato è rimasto “completamente inerte, quantomeno sino a quando, negli
anni 2018/2019 si limitava a sostituire la paratia in legno con una in metallo, realizzando tuttavia, un intervento diverso da quanto statuito in sentenza” (pag. 5); pertanto, a tutto voler concedere, è da tale periodo che potrebbe essere cessata la “inerzia omissiva” e, quindi, iniziato a decorrere il termine di prescrizione del reato.
Anche il quarto motivo risulta infondato. Il rigetto della concessione delle attenuanti generiche è stato motivato dal Tribunale (pag. 16) nel seguente modo “non si ravvisano motivi per concedere all’imputato le attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., non richieste dal suo difensore”. La Corte di appello, a fronte del motivo di gravame – reiterato nel presente ricorso – ha ritenuto che “la mancanza di elementi di positiva valutazione induce alla esclusione delle invocate attenuanti generiche e le modalità della condotta giustificano il mancato contenimento della pena al minimo edittale”.
Si tratta di motivazione che, per quanto sintetica, non è sindacabile in sede di legittimità, dal momento che le sentenze di merito danno conto in modo congruo di elementi contrari al riconoscimento dekattenuanti ex art. 62-bis cod. pen. (in particolare, la pervicacia mostrata nel non risolvere il problema, adottando perdipiù un atto ammnistrativo che ha ingiustamente danneggiato la persona offesa che aveva ottenuto ragione dinanzi al giudice civile) e che il modesto discostamento della pena inflitta (mesi nove di reclusione) rispetto al minimo edittale (mesi sei) giustifica un mero richiamo all’assenza di elementi a favore. Sul punto, si è infatti chiarito che «la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi» (Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Dulan, Rv. 275057 – 01).
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalla Parte civile, NOME, liquidate come in dispositivo.
v
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna 41 ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado di giudizio dalla Parte civile, NOME, che liquida in euro 3.686,00 oltre accessori di legge.
Così deciso il 21 maggio 2024
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