Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 20834 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 20834 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Resia il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 21-02-2023 della Corte di appello di Trieste; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21 febbraio 2023, la Corte di appello di Trieste confermava la sentenza del 4 febbraio 2021, con cui il Tribunale di Udine aveva condannato NOME COGNOME, con i doppi benefici di legge, alla pena di mesi 6 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10 bis del d. Igs. n. 74 del 2000, a lui contestato perchè, quale legale rappresentante della società “RAGIONE_SOCIALE“, esercente l’attività di costruzione di strade, autostrade piste aeroportuali, non versava nel termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta le ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per ammontare superiore a 150.000 euro per ciascun periodo di imposta (ossia 378.883,33 euro per il 2014, 316.593,99 euro per il 2015 e 236.426 euro per il 2016); fatto accertato in Venzone il 15 marzo 2018.
Avverso la sentenza della Corte di appello triestina, COGNOME, tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa contesta, sotto il profilo del difetto di motivazione, la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato, osservando che i giudici di secondo grado si sono limitati a convalidare le stringate argomentazioni del Tribunale, senza confrontarsi con le censure difensive, con cui era stato rilevato che COGNOME non avrebbe potuto in alcun modo accantonare le somme dovute all’Erario, posto che la sua impresa aveva investito in tempi non sospetti le proprie risorse in una importante commessa in Libia, che tuttavia sarebbe “saltata” a seguito della guerra civile che, a partire dal 2011, ha interessato la Nazione libica e in particolare la città di Tobruk dove avrebbero dovuto svolgersi i lavori, non avendo la società ricevuto neanche il corrispettivo per le opere già eseguite, per circa 9 milioni di euro, a fronte di una commessa dal valore di 180 milioni. Si era dunque in presenza di una situazione drammatica integrante una situazione concreta e oggettiva di impossibilità di adempiere le obbligazioni erarialt, aggravata dal progressivo azzeramento dei fidi bancari, fermo restando che sia COGNOME che la moglie non solo hanno rinunciato ai loro compensi, ma hanno anche tentato di far fronte alla crisi di liquidità con i propri beni personali.
Con il secondo motivo, oggetto di doglianza è la violazione del principio del favor rei di cui all’art. 2 cod. pen. rispetto al rigetto della richiesta di conversion della pena, avendo i giudici di appello applicato l’art. 59 della legge n. 689 del 1981, avuto riguardo al testo entrato in vigore in data 30 dicembre 2022, senza considerare che nella versione normativa vigente al tempo in cui fu commesso il reato non esisteva la condizione ostativa valorizzata nella sentenza impugnata.
Il terzo motivo è parimenti dedicato al rigetto della richiesta di conversione della pena, nella parte in cui la Corte territoriale ha attribuito all’imputat mancato pagamento della sanzione pecuniaria in relazione alla quale l’Ufficio non ha neppure provveduto a notificare il necessario invito al pagamento, non essendo stata espletata la procedura di esazione ex art. 212 del d.P.R. 115 del 2002, per cui il ricorrente non era in condizione di pagare alcuna somma.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è inammissibile, mentre sono meritevoli di accoglimento il secondo e il terzo motivo, con le conseguenze che saranno di seguito esposte.
Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato non presenta vizi di legittimità.
Deve premettersi al riguardo che non è contestata la sussistenza del reato dal punto di vista oggettivo, essendo pacifico che la “RAGIONE_SOCIALE“, società di cui il ricorrente era legale rappresentante, non ha versato, rispetto agli anni di imposta 2014, 2015 e 2016, le ritenute dovute in base alle dichiarazioni annuali o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti di imposta, pe ammontare superiore, rispetto a ciascuna annualità, alla soglia di 150.000.
Il tema controverso riguarda piuttosto l’asserita scusabilità della condotta omissiva che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe dipesa da comprovate e insuperabili circostanze indipendenti dalla volontà dell’imputato.
La questione è stata già adeguatamente affrontata dalla Corte di appello, che, sviluppando ulteriormente le considerazioni già espresse dal Tribunale, si è posta sulla scia della consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Rv. 275967, Sez. 3, n. 20266 dell’08/04/2014, Rv. 259190, e Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Rv. 263128), secondo cui l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a l medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idon da valutarsi in concreto, occorrendo in definitiva la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
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1.1. Alla luce di tale premessa, devono escludersi le lacune argomentative dedotte dalla difesa, avendo la Corte di appello ragionevolmente rimarcato, condividendo in ciò l’impostazione del primo giudice, che la crisi del cantiere libico risaliva al 2011, mentre l’inadempimento fiscale per cui si procede è iniziato a decorrere dal settembre 2015, risultando altresì dalle certificazioni rilasciate che le trattenute sugli emolumenti sono state effettuate e che pertanto i relativi importi erano disponibili per adempiere all’obbligo tributario. Né, hanno aggiunto i giudici di secondo grado (cfr. pag. 10 della sentenza di appello), è stato adeguatamente comprovato che l’imputato abbia organizzato le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria, essendosi COGNOME appropriato, sia Pure per fini aziendali, delle somme che avrebbe dovuto accantonare in ragione della loro specifica destinazione, operando così una scelta che “esclude già di per sé la ricorrenza del caso fortuito o della forza maggiore” In definitiva, a fronte di un percorso motivazionale privo di incongruenze motivazionali e coerente con gli indirizzi ermeneutici elaborati in questa materia, non vi è spazio per l’accoglimento delle censure difensive, volte sostanzialmente a suggerire una non consentita rilettura degli elementi probatori (cfr. Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601), dovendosi ritenere invece adeguatamente argomentate sia la sussistenza del dolo che l’esclusione della forza maggiore rispetto al mancato versamento delle ritenute, dipeso evidentemente da una scelta consapevole dell’imputato, non risultando dirimenti le obiezioni circa la pur peculiare contingenza che ha interessato la società amministrata da COGNOME negli anni antecedenti ai fatti di causa.
Di qui la manifesta infondatezza delle censure in punto di responsabilità.
Il secondo e il terzo motivo di ricorso, suscettibili di trattazione unitar perché tra loro sovrapponibili, sono invece meritevoli di accoglimento.
Ed invero, nel disattendere la richiesta difensiva di sostituzione della pena detentiva, la Corte di appello ha richiamato l’art. 59 della legge n. 689 del 1981, nella versione novellata dal d. Igs. n. 150 del 2022, secondo cui la pena detentiva non può essere sostituita con la pena pecuniaria, tra l’altro, nei confronti di chi, nei cinque anni precedenti, è stato condannato a pena pecuniaria, anche sostitutiva, e non l’ha pagata, circostanza verificatasi nel caso di specie, atteso che COGNOME è stato condannato dal Tribunale di Udine con sentenza divenuta irrevocabile il 16 ottobre 2021, con cui gli era stata irrogata la pena di 3.000 euro di ammenda, che non risulta essere stata pagata.
Tuttavia, il richiamo dei giudici di appello alla nuova condizione ostativa prevista dall’attuale versione dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981 non può essere ritenuto corretto, posto che tale norma, incidente sul trattamento sanzionatorio, è entrata in vigore il 30 dicembre 2022, dunque ben dopo i fatti di causa, per cui, in virtù del principio del favor rei ex art. 2 cod. pen. il regime attuale della
sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria non può essere applicato nel presente giudizio, dovendo farsi riferimento alla più favorevole previsione normativa vigente all’epoca di commissione dei reati (anni 2014-2016).
La fondatezza del secondo motivo di ricorso, idoneo ad assorbire il terzo, impone di considerare il tempus commisi delicti nell’ottica della prescrizione del reato.
Orbene, in assenza di sospensioni della prescrizione, occorre prendere atto che, dovendosi computare il termine massimo in 7 anni e 6 mesi (il meccanismo delineato dall’art. 17, comma 1 bis, del d. Igs. n. 74 del 2000 non opera infatti per il delitto di cui all’art. 10 bis del medesimo decreto), la prescrizione del reato contestata è maturata rispetto alle annualità 2014 e 2015, essendo decorso il relativo termine, al più tardi, il 30 marzo 2023. La prescrizione non è invece maturata per l’anno di imposta 2016, maturando il relativo termine il 30 marzo 2024, ovvero in epoca successiva all’emissione della presente sentenza.
Ne consegue che, limitatamente alle annualità 2014 e 2015, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, essendo il relativo reato estinto per prescrizione; ciò comporta la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, che va demandata al giudice del rinvio, il quale dovrà altresì confrontarsi con la richiesta difensiva finalizzata alla sostituzione della pena detentiva, avendo riguardo in tal senso al regime normativo vigente all’epoca del fatto.
Nel resto il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente irrevocabilità dell’affermazione di colpevolezza dell’imputato rispetto al delitto di cui all’art. bis del d. Igs. n. 74 del 2000, limitatamente alla residua annualità 2016.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente ai reati relativi ai periodi di imposta 2014 e 2015 perché estinti per prescrizione e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste relativamente al trattamento sanzionatorio. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 17/01/2024