Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 5655 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 5655 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/07/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PREGNOLATO NOME, nato a Chioggia (Ve) il DATA_NASCITA;
avverso la sentenza n. 6196 della Corte di appello di Milano del 3 ottobre 2022;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal AVV_NOTAIO COGNOME;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del AVV_NOTAIO NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Milano, con sentenza pronunziata in data 3 ottobre 2022, ha, solo in parte, confermato la sentenza con la quale, il precedente 20 ottobre 2021, il Tribunale di Monza aveva dichiarato COGNOME, in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, responsabile del reato di cui all’art. 5 del dlgs n. 74 del 2000, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso omesso, con riferimento agli anni di imposta 2011 e 2012, !a presentazione della dichiarazione IVA, conseguendo in tale modo un illecito profitto, derivante dal mancato versamento della imposta in questione, pari, quanto all’anno 2011, ad euri 440,776,86, e, quanto all’anno di imposta 2012, ad euri 255.165,62, ed ha pertanto, condannato il prevenuto alla pena di anni 2 di reclusione, partendo da una pena base di anni 1 e mesi 8 di reclusione ed elevando la predetta pena sino a quella indicata per effetto della continuazione.
Premesso che al COGNOME era stata originariamente contestata anche la violazione dell’art. 10 del medesimo decreto legislativo, per avere, nella qualità indicata, occultato o distrutto le scritture contabili di cui è obbligatoria la tenuta, ma che per tale imputazione lo stesso era stato assolto dal Tribunale di Monza per insussistenza del fatto, la Corte ambrosiana, ritenuta la incensuratezza dell’imputato e considerata la sua età, ha disposta la sospensione condizionale della esecuzione della pena irrogata, rigettando nel resto la impugnazione da quello presentata.
Avverso la sentenza in tale mode, emessa ha interposto ricorso per cassazione l’imputato, articolando un unico complesso motivo di impugnazione.
Sotto un primo aspetto ha lamentato la pretesa mancanza di una valida prova in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato per il quale egli è stato condannato; infatti, il ricorrente si è doluto del fatto che la dimostrazione della sussistenza del reato sia stata tratta esclusivamente dagli elementi induttivi in base ai quali, in sede tributaria, è stato determinato l’ammontare della imposta evasa, senza che neppure siano stati considerati gli elementi passivi di reddito riferiti alle spese che lo stesso ha dovuto affrontare per acquisire i beni da lui poi venduti.
Ha quindi censurato la sentenza impugnata in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato a lui contestato, non essendo stati valorizzati dalla Corte di appello elementi dimostrativi sia della preordinata
volontà del ricorrente di non adempiere alle obbligazioni tributarie sia in relazione alla consapevolezza del superamento della soglia di punibilità.
In via subordinata il ricorrente ha ancora lamentato il fatto che la Corte di appello abbia confermato la entità della pena inflitta in primo grado, sebbene fosse stata censurata la sentenza impugnata in quanto il Tribunale avrebbe, ad avviso del ricorrente, parametrato la sanzione irrogata, definita, con riferimento alla pena base, “prossima al minimo edittale”, in base alla pena prevista dalla normativa vigente in un momento successivo a quello di commissione dei reati; ad avviso del ricorrente la Corte di merito avrebbe sostenuto, in maniera illogica, che non vi erano elementi per affermare che la determinazione della pena era stata operata sulla base della disciplina sanzionatoria più gravosa entrata in vigore successivamente alla commissione dei reati.
In via ancora più subordinata il ricorrente ha censurato la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Quanto al primo motivo di ricorso, afferente alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato contestato, in particolare con riferimento all’esistenza della omissione tributaria ed al suo ammontare superiore alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, si rileva – in disparte la circost che il motivo di ricorso reitera in termini sostanzialmente identici il precedente motivo di appello, fattore questo che già ne avrebbe minato la ammissibilità (cfr., infatti, al riguardo: Corte di cassazione, Sezione II penale, 14 ottob 2019, n. 42046) – che la metodica utilizzata dalla Corte di appello onde riscontrare l’avvenuta presenza sia della omissione tributaria sia il suo ammontare superiore alla soglia di punibilità è perfettamente in linea con gli orientamenti dominanti in sede interpretativa.
Infatti, come già in diverse circostanze questa Corte ha segnalato, in tema di reati tributari, il giudice penale / se non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, ben può, con adeguata motivazione, tuttavia apprezzare positivamente gli elementi induttivi ivi valorizzati, al fine di trarre da essi gli elementi probatori idonei a sorregge il suo convincimento (Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 giugno 2023, n. 24225; idem Sezione III penale, 19 agosto 2019, n. 36207), potendo in tal
senso operare ove gli stessi siano corroborati da ulteriori elementi di riscontro (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 novembre 2022, n. 42916).
Cosa che in sede di merito è, nell’occasione, stata opportunamente fatta, attraverso la valorizzazione – accanto ai rilievi operati in sede induttiva dagli organi accertatori della Guardia di finanza – della esistenza di documentazione emessa dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei suoi clienti, la cui sintomaticità dimostrativa di un imponibile IVA è stata solo genericamente contesta dalla ricorrente difesa.
Né, vale segnalare, che non siano stati valorizzati gli elementi passivi di reddito, posto che, al di là della omissione della segnalazione della esistenza di idonei fattori dimostrativi del loro ammontare, sì rileva che una tale argomento avrebbe potuto giuocare un suo ruolo ove si fosse trattato di omesso versamento di imposte propriamente commisurate al reddito prodotto, ma non nel caso di IVA il cui ammontare è calcolato attraverso la somma algebrica della imposta versata e di quella percepita (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 luglio 2017, n. 35579), per cui, laddove non vi siano elementi per affermare l’avvenuto versamento, ed il suo preciso ammontare, da parte dell’imputato della stessa ai propri fornitori, non sono computabili altri elementi passivi di reddito.
Quanto al profilo inerente alla esistenza dell’elemento soggettivo del reato in contestazione essa è stata correttamente ricavata dalla circostanza che il COGNOME, non solo non ha presentato le necessarie dichiarazioni ai fini della determinazione dell’importo dell’IVA da versare ma, successivamente, neppure ha provveduto al detto adempimento fiscale versando comunque la relativa imposta; si tratta di una circostanza idonea a riempire, sotto il profilo soggettivo, di inequivocabile significato il precedente comportamento omissivo in ambito dichiarativo (Corte di cassazione, Sezione III penale, 6 maggio 2016, n. 18936), mentre per ciò che attiene all’avvenuta consapevolezza del superamento della soglia di punibilità, il dato, correttamente valorizzato dalla Corte territoriale, che l’ammontare della imposta evasa è stato ricavato attraverso gli importi indicati nella fatture emesse dallo stesso ricorrente, rende palese che anche il COGNOME era ben conscio di quale fosse il valore finanziario della imposta evasa, peraltro ampiamente esuberante rispetto alla soglia in questione, fattore questo che induce logicamente ad escludere l’esistenza di qualsivoglia giustificabile equivoco su tale ammontare.
Il profilo relativo alla quantificazione della pena, che sarebbe stata operata sulla base di una sanzione non applicabile, in quanto deteriore
rispetto a quella vigente al momento dei fatti in contestazione, è inammissibile stante la sua natura meramente congetturale e stante la palese genericità nella parte in cui si prospetta la possibile violazione della norma che sancisce il divieto di reformatio in pejus.
Ed invero, osserva il Collegio, il ricorrente ha sostenuto che non sarebbe esente da censura la motivazione della sentenza del giudice del gravame, il quale, a fronte di una specifica doglianza riguardante la determinazione della pena irrogata, ha ritenuto che non vi fossero elementi per escludere che questa fosse stata dosata dal Tribunale di Monza facendo riferimento non alla disciplina vigente al momento della decisione ma a quella, più mite vigente al momento di commissione degli illeciti.
Al riguardo si rileva che, effettivamente, anteriormente alla entrata in vigore del dlgs n. 158 del 2015, la pena prevista per il reato contestato al COGNOME era nel minimo pari ad anni 1 di reclusione e solo dopo la novella legislativa, successiva ai fatti per cui è processo, la pena minima è stata elevata ad anni 1 e mesi 6 di reclusione.
Ma fare derivare dalla affermazione contenuta nella sentenza di primo grado che la pena base, determinata dal Tribunale di Monza in anni 1 e mesi 8 di reclusione, sia stata contenuta in misura di poco discostata dal minimo edittale, il fatto che tale determinazione sia partita dalla considerazione di una pena minima di anni 1 e mesi 6 di reclusione, cioè non quella vigente al momento dei fatti, è dato puramente congetturale, ben potendosi ritenere che sia uno scostamento di 2 mesi che di 8 mesi dal minimo edittale sia comunque da annoverarsi fra gli scostamenti che comunque conservano la pena entro l’ambito del medio edittale, e possano, quindi, ritenersi di modesta entità.
Nessuna illogicità, pertanto, è riscontrabile nella sentenza della Corte ambrosiana che ha escluso il fatto che il Tribunale di Monza abbia applicato un trattamento sanzionatorio commisurato ad una pena illegale perché superiore a quella vigente al momento dei fatti.
Quanto al profilo riguardante la ritenuta reformatio in pejus non coglie affatto nel segno, posto che, avendo la Corte territoriale mantenuto lo stesso trattamento sanzionatorio applicato dal giudice di primo grado ed avendo riformato la sentenza impugnata con esclusivo riferimento al riconoscimento della sospensione condizionale della pena, non è assolutamente chiaro già in
termini astratti in quale modo il postulato peggioramento del trattamento sanzionatorio si sarebbe realizzato.
Parimenti inammissibile è la censura riguardante il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche posto che l’unico dato che la ricorrente difesa segnala come non adeguatamente valutato in sede di merito al fine di cui sopra è il fatto che il condannato fosse soggett incensurato; ma questo fattore – per effetto della novella introdotta nell’art 62-bis cod. pen., a seguito della entrata in vigore della legge n. 125 dei 2008, di conversione del decreto legge n. 92 del 2008 – è stato espressamente segnalato come non idoneo a giustificare di per sé il riconoscimento del beneficio in questione.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue, visto l’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euri 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 7 luglio 2023 GLYPH