Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 34829 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 34829 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a Pordenone il DATA_NASCITA;
avverso la sentenza n. 1334 della Corte di appello di Trieste del 18 luglio 2024;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal AVV_NOTAIO COGNOME;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del AVV_NOTAIO, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Tieste, con sentenza del 18 luglio 2024, ha integralmente confermato la sentenza con la quale, in data 9 dicembre 2021 il Tribunale di Pordenone, in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito ordinario, aveva dichiarato la penale responsabilità di COGNOME NOME, in ordine al reato di cui all’art. 4 del dlgs n. 74 dei 2000, per avere, nel dichiarazione dei redditi da lui presentata in relazione all’anno di imposta 2017 indicato elementi attivi inferiori a quelli reali, in tale modo conseguendo un illecito profitto pari ad euri 248.462,00, e lo aveva, pertanto, condannato alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso detta sentenza ha interposto ricorso per cassazione la difesa del COGNOME, articolando tre motivi di impugnazione, qui di seguito sintetizzati.
Un primo motivo attiene alla ritenuta mancanza o manifesta illogicità della sentenza impugnata quanto ad uno dei motivi di gravame presentati avverso la sentenza di primo grado, in particolare quello avente ad oggetto la esistenza del reato presupposto dalla cui commissione, in concorso con tale COGNOME NOME, il prevenuto avrebbe tratto il reddito imponibile non dichiarato.
Con il secondo motivo di ricorso, anch’esso rivolto a censurare un vizio di motivazione della sentenza impugnata, è stata dedotta la inadeguatezza -motivazione in punto di ascrivibilità della somma di euri 600.000,00 trattenuta dal COGNOME quale penale contrattuale, come tale non soggetta a reddito stante la sua natura risarcitoria, e non quale profitto di un fatto illecito da commesso.
Infine, con il terzo motivo di impugnazione è stata dedotta, ancora una volta sotto l’aspetto del vizio di motivazione, la illogicità della motivazione della sentenza dei giudici del merito, essendo questa argomentata sulla base di due ricostruzioni fattuali che, essendo fra loro alternative, appaiono essere inconciliabili e contraddittorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto, basato su tre motivi tutti inammissibili, deve, pertanto, essere esso stesso per tale dichiarato.
Deve, preliminarmente, ricordarsi che, secondo quanto ricostruito in sede di merito, la provvista finanziaria della cui omessa dichiarazione fiscale si
tratta è pervenuta al COGNOME a seguito di un bonifico bancario da questi eseguito in data 7 settembre 2017, in qualità di socio unico della RAGIONE_SOCIALE (società della quale, è bene ricordare, COGNOME NOME avrebbe dovuto, a seguito della emissione – peraltro mai avvenuta – di nuove azioni, assumere il controllo), allo scopo di fare transitare la cospicua somma di danaro, pervenuta alla RAGIONE_SOCIALE a seguito di altro bonifico bancario eseguito il precedente 27 marzo 2017 dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (società a sua volta facente capo al COGNOME, soggetto, come dianzi rilevato ~47; coinvolto, unitamente al COGNOME, in una rilevantissima frode finanziaria commessa in danno di numerosissimi piccoli investitori privati), dal conto corrente bancario della predetta società con sede all’estero al conto corrente bancario intrattenuto personalmente dal COGNOME in Italia presso un istituto di credito nazionale.
Pacifico è che tale somma di danaro, che pur doveva essere inserita dall’imputato nella dichiarazione dei redditi da questo presentata quanto al predetto anno di imposta 2017, non fu, in tale occasione, oggetto di dichiarazione.
Con motivazione del tutto convincente il giudice dell’appello ha chiarito che la somma in questione non poteva ritenersi essere stata accreditata al COGNOME, per il tramite della RAGIONE_SOCIALE, e poi da questo trattenuta quale penale per un inadempimento contrattuale, dal COGNOME, tramite la RAGIONE_SOCIALE, nell’ambito di un complesso accordo di carattere commerciale che sarebbe intercorso fra i due attori della presente vicenda.
Le osservazioni contenute nella sentenza di merito, in ordine alla assoluta inverosimiglianza della effettività di tale accordo – ricavabile sia in relazione alle modalità di redazione di esso (che, come osserva la Corte di Trieste, è “sbucato a sorpresa (…) in occasione del riesame del sequestro preventivo” senza che, precedentemente, esso fosse stato richiamato né, tantomeno, reperito nei due computers sequestrati all’imputato, sebbene lo stesso sarebbe stata materialmente redatto da uno studio legale statunitense che lo avrebbe poi sottoposto all’approvazione delle parti), sia in relazione al fatto che lo stesso non è stato oggetto di alcuna formalizzazione, sebbene avesse un valore finanziario di 2.700.000,00 euri, del tutto esorbitante rispetto al precedente accordo che sarebbe intervenuto verbalmente fra il COGNOME ed il COGNOME, avente ad oggetto lo svolgimento di attività di carattere informatico in favore della RAGIONE_SOCIALE, il cui valore era stato indicato dai contraenti in euri 50.000,00 – rendono del tutto ultronee in questa sede, non
foss’altro perché eterogenee rispetto al piano e coerente contenuto della sentenza impugnata, le osservazioni impugnatorie sviluppate nei primi due motivi di ricorso redatti dalla difesa del COGNOME.
Irrilevante è, infatti, con riferimento al primo motivo, che non sia stata ancora accertata la rilevanza penale della eventuale condotta di concorso del COGNOME nel reato del COGNOME, atteso che, ciò che conta in questa sede, in cui si tratta dell’illecito tributario commesso dall’imputato, è che il prevenuto non ha indicato nella propria dichiarazione dei redditi la rilevantissima rimessa a lui prevenuta attraverso il ricordato bonifico bancario del 7 settembre 2017.
Parimenti irrilevante – in quanto in realtà non si confronta con le ragioni che hanno indotto i giudici della Corte del merito (dianzi brevemente compendiate) a non dare credito alla tesi della natura da attribuirsi all’avvenuto trattenimento da parte del COGNOME della somma a suo tempo versatagli dal COGNOME e da lui riversata sul proprio conto corrente personale di corrispettivo per la attivazione di una “clausola penale” – è la ampia digressione, contenuta nel secondo motivo di ricorso, in relazione alla normativa applicabile all’intesa commerciale asseritamente intervenuta fra l’imputato e l’ideatore della articolata truffa finanziaria.
Che rilevanza può avere il domandarsi quale sia la legge regolatrice di un accordo, ove sia la stessa esistenza di tale accordo a essere priva di una adeguata dimostrazione?
Ad aggiungersi, peraltro, agli indicati elementi logici dianzi ricordati, tali da far pensare alla inesistenza di alcun accordo negoziale lecito fra l’imputato ed il COGNOME, sta anche l’ulteriore dato, evidenziato in sede di merito, secondo il quale non è ragionevole pensare che il trattenimento della somma pattuita a titolo di clausola penale, o meglio il suo incameramento da parte del COGNOME tramite il suo dirottamente, dal conto corrente bancario intestato in territorio estero alla RAGIONE_SOCIALE a quello personale dell’imputato, non sia stato preceduto da alcuna interlocuzione fra i due contraenti, volta a sollecitare l’integral adempimento da parte della RAGIONE_SOCIALE (e per essa del COGNOME) della obbligazione da questa assunta verso il COGNOME, dovendo, logicamente, credersi (si vera essent exposita) che il prioritario interesse di quest’ultimo non era quello di incamerare la somma a lui dovuta a titolo di penale, ma quello di vedere soddisfatto l’interesse da lui vantato all’integral adempimento della obbligazione della quale lui era il creditore.
In relazione a tali temi, pur ampiamente esposti e, nella loro decisività, illustrati nella sentenza impugnata, il ricorrente nulla ha rilevato, rendendo, in tale senso, del tutto generico, e pertanto inammissibile, il secondo motivo di impugnazione da lui redatto.
Di non immediata comprensibilità è in terzo motivo di doglianza articolato dalla difesa del prevenuto; con esso, infatti, ci si lagna della pretes contraddittorietà dell’avvenuta adesione della Corte di merito alla ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado.
Viene rilevato, infatti, da parte del ricorrente – in coda ad una ampia citazione della sentenza emessa dalla· Corte giuliana – che le ipotesi ricostruttive da questa prospettate sarebbero alternative e, pertanto, inconciliabili, risultando, ad avviso del ricorrente in tale modo in definitiva consacrata la illogicità della sentenza impugnata.
Trattasi di argomento prima ancora che infondato del tutto inammissibile, non avendo in alcun modo il ricorrente segnalato il contrasto logico interno esistente nello stralcio di motivazione della sentenza impugnata da lui riportato; né, invero, essendo lo stesso riscontrabile sia ad una accurata lettura del passo di cui sopra e ancor meno ictu °cui/.
In tale tratto della motivazione della sentenza la Corte di merito ha congruamente rilevato (segnalandone la logicità intrinseca tali da renderle “congiunte e collimanti” e non logicamente alternative) come le ricostruzioni fattuali operate in sede di merito fossero pienamente plausibili.
Esse hanno, infatti, condotto a ritenere che la somma versata dal COGNOME al NOME, sul conto della RAGIONE_SOCIALE – della quale quest’ultimo era al momento l’unico socio – erano una parte del profitto conseguita per effetto della truffa finanziaria posta in essere dal NOME stesso e della quale i COGNOME, onde preservarla da misure ablatorie, si era, successivamente appropriato, versandola sul suo conto corrente bancario personale.
Una tale ricostruzione non presenta evidenti aporie logiche, di tal che la doglianza formulata al riguardo dalla difesa del ricorrente, volta a confutarla, si palesa chiaramente inammissibile in questa sede di legittimità.
Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente deve essere condannato, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di eurí 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 7 aprile 2025
Il AVV_NOTAIO estensore
Il Presidente