Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 3729 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 3729 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da. COGNOME NOMECOGNOME nato ad Andrano il 20/04/1959; avverso la sentenza del 13/11/2023 della Corte di appello di Lecce; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 novembre 2023, la Corte di appello di Lecce ha confermato – quanto alla responsabilità penale – la sentenza del Tribunale di Lecce, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione, oltre pene accessorie, per il reato di cui agli artt. 81, secondo comma, e 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in qualità di titolare ed amministratore unico della società RAGIONE_SOCIALE
Idee e più RAGIONE_SOCIALE, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto occultava o comunque distruggeva, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume degli affari, le scritture contabili e i documenti di cui obbligatoria la conservazione – non essendo stata esibita alcuna scrittura contabile relativa agli anni di imposta dal 2012 al 2017 – ed esibendo in sede di verifica solo una fattura con riferimento all’anno 2012 e, in maniera frammentaria e parziale, alcune fatture di acquisto ed alcune fatture di vendita, relative agli altri anni. parziale riforma della sentenza di primo grado, la sentenza di appello, esclusa l’ipotesi della continuazione e riconosciuta la unicità del fatto, ha rideterminato la pena in anni 1 e mesi 10 di reclusione.
Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione in relazione all’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto la condotta sarebbe riconducibile non alla fattispecie di occultamento e distruzione delle scritture contabili di cui alla predetta norma incriminatrice – per la cui verificazione necessaria la preesistenza della suddetta documentazione – bensì alla condotta di omissione di tenuta dei registri contabili, che costituisce illecito amministrativo, sanzionato dall’art. 9 del d. Igs. n. 471 del 1997.
Dopo avere premesso che la sussistenza di una violazione amministrativa non può considerarsi elemento costitutivo e presupposto indefettibile per la perpetrazione di un illecito avente natura penale – quale quello di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 – la difesa precisa infatti che “la parzialissima esibizione delle fatture” valorizzata dai giudici di merito si sarebbe concretata nella violazione degli obblighi relativi alla contabilità, senza tradursi, all’opposto, in occultamento delle scritture contabili.
2.2. Con un secondo motivo di impugnazione, ci si duole della violazione del principio del ne bis in idem di cui agli artt. 649 cod. proc. pen., 4 del Protocollo n. 7 Cedu e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Richiamata la giurisprudenza interna della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, e quella sovranazionale della Corte EDU, relativamente al divieto di secondo giudizio, sostiene il ricorrente che, nel caso di specie, la Corte di appello avrebbe erroneamente omesso di motivare in ordine alla ritenuta sussistenza dei presupposti per l’applicazione del ne bis in idem, preternnettendo, dunque – vista l’identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta – qualsivoglia verifica della strett connessione temporale e sostanziale tra i due procedimenti, penale ed amministrativo.
2.3. In terzo luogo, si deducono la violazione dell’art. 133 cod. pen. ed il connesso vizio di motivazione per avere il giudice di secondo grado erroneamente omesso di motivare in ordine all’applicazione della pena in misura superiore al minimo.
I giudici di merito, senza offrire alcuna motivazione al riguardo, avrebbero applicato all’imputato la pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione – così ridotta quella di anni 2 e mesi 6 di reclusione, irrogata dal giudice di primo grado – discostandosi immotivatamente dal minimo edittale previsto dalla disposizione incriminatrice in contestazione, pari ad anni 1 e mesi 6 di reclusione.
2.4. Infine, con una quarta censura, si denunciano la violazione degli artt. 69 e 62-bis cod. pen. e vizi della motivazione, sul rilievo che la sentenza mancherebbe di specifici momenti esplicativi sia in relazione alla gravità della condotta sia all dedotta esistenza di precedenti penali di cui risulta gravato l’imputato, che non hanno formato oggetto di specifica contestazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. Il primo motivo di gravame, relativo alla presunta violazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, è infondato.
In ordine alla configurazione dell’imputazione, l’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 punisce colui il quale, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto o di consentire a terzi l’evasione, salvo che il fatto costituisca più grave reato, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti d cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari.
La menzionata disposizione ha una finalità evidente, che è quella di assicurare, attraverso l’esame della documentazione contabile, un adeguato chi controllo delle attività imprenditoriali ai fini fiscali, come erge dall’espre riferimento alla «ricostruzione dei redditi o del volume di affari», che l’occultamento o la distruzione dei documenti di fatto impedisce.
La condotta punibile consiste quindi nella distruzione o nell’occultamento totale o parziale delle scritture: la distruzione configura un reato istantaneo che si realizza al momento dell’eliminazione della documentazione, la quale può consistere o nella stessa eliminazione del supporto cartaceo o mediante cancellature o abrasioni; l’occultamento, invece, consiste nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori e si realizza mediante il nascondimento materiale del documento. In altri termini, la condotta di occultamento, tipizzata nell’art. 10, definisce, secondo il suo preciso
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significato filologico, il comportamento di colui che nasconde materialmente, in tutto o in parte, le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria conservazione, mantenendo celate le predette cose in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume degli affari. In tal senso, dunque, l’integrazione della fattispecie criminosa presuppone l’istituzione della documentazione contabile e la produzione di un reddito e di un volume di affari ad opera del soggetto attivo (Sez. 3, n. 38224 del 07/10/2010, Rv. 248571), e pertanto non contempla anche la condotta di omessa tenuta delle scritture contabili, sanzionata amministrativamente dall’art. 9, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (Sez. 3, n. 1441 del 12/07/2017, dep. 2018, Rv. 272034): in tanto, dunque, può essere configurata la fattispecie delittuosa di cui al predetto art. 10, in quanto la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata previamente istituita (non potendo occultarsi o distruggersi ciò che non esiste).
Ebbene, nel caso di specie, la difesa richiama astrattamente l’applicabilità della disciplina sanzionatoria amministrativa circa l’omessa istituzione delle scritture (art. 9 del d.lgs. n. 471 del 1997), ma omette tuttavia di considerare che la sentenza di secondo grado ha dato atto, non solo del rinvenimento di alcune fatture di acquisto e di alcune fatture attive, ma anche delle indagini condotte tramite spesometro, mediante controlli incrociati con i clienti – dai quali gl operanti di P.G. hanno ottenuto copia delle fatture emesse dal medesimo attestanti l’effettiva produzione di reddito e di un volume d’affari, da parte della RAGIONE_SOCIALE
Ed invero, i documenti da conservarsi obbligatoriamente, cui si riferisce la richiamata disposizione incriminatrice, sono, ovviamente, quelli che riguardano fatti aventi rilievo sotto il profilo fiscale, la cui individuazione deve essere effettu tenendo conto del disposto degli artt. 39, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, e 22, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, recante «Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi», il quale impone l’obbligo di conservazione de «gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevuti e le copie delle lettere e dei telegrammi spediti e delle fattu emesse», oltre che, a fini civilistici, dall’art. 2214, comma secondo, cod. civ.
La fattura, quindi, essendone obbligatoria la conservazione a fini fiscali, rientra a pieno titolo nella definizione di documento contabile penalmente rilevante ai sensi del citato art. 10. Essa, nella sua forma cartacea, deve essere compilata in duplice esemplare, di cui uno è consegnato all’altra parte; ragion per cui, nel caso in cui l’esemplare della fattura emessa sia rinvenuto nella disponibilità del cliente, risulta legittima, sul piano logico, la conclusione che il fornitore abb emesso l’esemplare di sua competenza, ancorché non rinvenuto in sede di
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accertamento. Ciò che, in altri termini, equivale dunque a dire che, poiché la fattura deve essere emessa in duplice copia, il rinvenimento di una di essi presso il terzo destinatario dell’atto può far desumere – come nel caso di specie – che il mancato rinvenimento dell’altro esemplare presso l’emittente sia conseguenza della sua distruzione o del suo occultamento (ex multis, Sez. 3, n. 41683 del 02/03/2018, Rv. 274862; Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Rv. 263050).
1.2. Il secondo motivo di censura, con il quale si deduce la violazione del principio del ne bis in idem di cui agli artt. 649 cod, proc. pen., 4 del Protocollo n. 7 Cedu e 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è inammissibile per genericità. In linea generale, infatti, i motivi del ricorso pe cassazione si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi fondanti le censure medesime, al fine di consentire al giudice di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato, mancando di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso (ex plurimis, Sez. 2, n. 21432 del 15/03/2023, Rv. 284718; Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, Rv. 281112).
Ebbene, dalla formulazione del motivo in esame, non è possibile verificare né se una sanzione amministrativa fu effettivamente irrogata, né se questa attenesse al medesimo fatto storico, né se si tratti di sanzione irrevocabile al momento della decisione d’appello, dovendosi ritenere preclusa la deducibilità del divieto di bis in idem in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, quando, come nel caso di specie, manchi, fra gli altri, qualsiasi prova della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa medesima (Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 2019, Rv. 275833).
E ciò a prescindere dal fatto che trattasi, in ogni caso, di censura che non era stata devoluta con l’appello, sicché non può essere dedotta, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
1.3. Il terzo motivo di impugnazione, riferito alla violazione dell’art. 133 cod. pen. e al connesso vizio di motivazione sul’ trattamento sanziohatorio, è inammissibile, giacché manifestamente infondato.
In punto di diritto, la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, per il quale è sufficiente dare conto dell’impiego dei criteri di cu all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto allorquando la pena sia di gran lunga superiore
alla misura media di quella edittale (ex plurimis, Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243). Con la conseguenza che, nei casi in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l’obbligo di motivazione del giudice si attenua (ex multis, Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Rv. 256464; Sez. 1, n. 40176 del 01/10/2009, Sez. 1, n. 3632 del 17/01/1995). Sul punto, inoltre, si è ulteriormente precisato che non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, che deve essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Rv. 276288).
Nel caso di specie, va rilevato come la pena concretamente inflitta – di anni 1 e mesi 10 di reclusione – sia stata applicata dai giudici di merito in misura prossima al minimo edittale – pari ad anni 1 e mesi 6 di reclusione – ragion per cui, sul punto, non può ravvisarsi alcuna carenza motivazionale, tenuto peraltro conto dell’espresso richiamo operato dal provvedimento impugnato ai precedenti penali dell’imputato. Richiamo che, nello specifico, postula, sia pure in maniera implicita, un giudizio negativo in ordine alla capacità a delinquere dell’imputato medesimo e che va, in ogni caso, a saldarsi, sul piano argonnentativo, a quanto stabilito, ai fini dell’individuazione della predetta pena base, dalla sentenza di primo grado, facente riferimento anche alla intensità del dolo ed alle modalità dell’azione.
1.4. Anche l’ultimo motivo di doglianza, con cui si deducono la violazione di legge ed i Vizi della motivazione, in relazione agli artt. 69 e 62-bis cod. pen., deve, infine, dichiararsi inammissibile per genericità, in quanto afferente al trattamento punitivo, che, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, appare sorretto da logica motivazione.
La decisione del giudice di secondo grado infatti, ben rappresenta e giustifica le ragioni per cui va negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche all’imputato, esprimendo una motivazione priva di vizi logici e coerente con le emergenze processuali, in quanto tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, Rv. 275509-03; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419). La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis cod. pen., del resto, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244).
Ebbene, nella specie, i giudici di merito hanno compiutamente motivato il diniego delle invocate circostanze, evidenziando come i vari precedenti penali dell’imputato non rendano possibile alcuna riduzione della pena.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il giudice, nel motivare il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti; è sufficiente che egli fa riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione, individuando, tra gli elementi di all’art. 133 cod. pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244; Sez. 2, n. 2285 dell’11/10/2004, Rv. 230691). Con la conseguenza che queste ultime possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato, perché in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità (Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, Rv. 265826).
Tenuto conto delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 22/10/2024.