Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 29874 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 29874 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Villapiana (Cs) 1’8/8/1969
avverso la sentenza del 22/10/2024 della Corte di appello di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22/10/2024, la Corte di appello di Catania confermava la pronuncia emessa il 7/5/2019 dal Tribunale di Siracusa, con la quale NOME COGNOME era stato dichiarato colpevole del delitto di cui all’art. 10, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di sei mesi di reclusione.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
violazione e falsa applicazione di legge penale; vizio di motivazione. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna sull’erroneo presupposto che il ricorrente avesse prima creato le scritture contabili, quindi occultato o distrutto le
stesse. Questa conclusione, tuttavia, sarebbe in contrasto con le emergenze istruttorie relative ad entrambi gli anni di imposta considerati, 2011 e 2012: in particolare, sarebbe emersa soltanto un’attività “in nero” (che presupporrebbe l’inesistenza delle scritture contabili, non il loro occultamento), oltre alla regola annotazione delle quattro fatture rinvenute in casa dell’imputato, ma nessuna condotta attiva riferibile al paradigma dell’art. 10 contestato. La documentazione contabile utilizzata dalla Guardia di finanza per ricostruire il volume d’affari dell società, pertanto, sarebbe stata – per entrambi gli anni – proprio quella rinvenuta presso il commercialista e regolarmente consegnata agli accertatori. Dal complesso istruttorio, dunque, risulterebbe soltanto che il Vuoto avrebbe omesso di tenere le scritture contabili, senza tuttavia commettere alcun reato; d’altronde, la contestazione si arresterebbe all’ottobre 2012, quindi al tempo della cessazione del rapporto professionale con il commercialista (che, a suo dire, avrebbe restituito al ricorrente l’intera documentazione in suo possesso), così, tuttavia, emergendo un evidente contrasto interno alla motivazione, secondo cui il Vuoto avrebbe nascosto la documentazione anche al professionista stesso;
gli stessi vizi sono poi denunciati quanto all’elemento soggettivo del reato, nei termini del dolo specifico, che l’istruttoria non avrebbe confermato affatto, ancora con riferimento ad entrambe le annualità. La sentenza, che peraltro non conterrebbe una doverosa valutazione al riguardo, non considererebbe neppure la condizione economica della società al 31/12/2021, evidentemente nulla e con ingenti debiti: ne consegue che lo stesso ente, privo di ogni liquidità, non avrebbe potuto in alcun modo pagare le tasse eventualmente dovute;
le stesse censure, infine, sono mosse in ordine all’intervenuta prescrizione del reato. Tenuto conto della disciplina normativa e delle cause di sospensione e di interruzione, la prescrizione sarebbe maturata il 4 gennaio 2023, e la Corte di appello non l’avrebbe dichiarata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo ai primi due motivi, che coinvolgono il giudizio di responsabilità sotto il profilo oggettivo e psicologico, gli stessi risulta inammissibili: dietro la parvenza di una violazione di legge o di un vizio di motivazione, il ricorso tende infatti ad ottenere in questa sede una nuova e differente valutazione delle stesse risultanze dibattimentali (documentali) esaminate in sede di merito, annualità per annualità, sollecitandone una più favorevole lettura evidentemente non consentita al Giudice di legittimità.
A ciò si aggiunga che, contrariamente a quanto affermato nella stessa impugnazione, entrambe le sentenze di merito – in doppia conforme – hanno individuato concreti ed oggettivi elementi a sostegno non solo di una gestione societaria almeno in parte “in nero”, ma anche della condotta di occultamento di libri e scritture contabili oggetto di contestazione.
5.1. In particolare, è stato sottolineato che, nel corso della verifica, l’imputat era stato costantemente – ed inutilmente – invitato ad esibire le scritture contabili non reperite presso il suo domicilio o presso lo studio del commercialista (se non nella misura minima che questi aveva stampato, dichiarando comunque di aver restituito tutta la documentazione contabile al Vuoto), peraltro non risultando dedotto che lo stesso ricorrente avesse mai inteso giustificare la mancata esibizione con la mancata conservazione da parte del professionista. Di seguito, e con ancor maggior forza persuasiva, le sentenze hanno evidenziato che se qualche fattura relativa agli anni d’imposta in esame era stata reperita soltanto presso il domicilio dell’imputato, non presso il commercialista, “è logico ritenere che anche le fatture mancanti fossero state restituite o comunque fossero ab origine nella disponibilità del Vuoto (che del resto aveva l’obbligo di conservarle)”.
5.2. Il presupposto per la consumazione del delitto, quale la pregressa istituzione delle scritture contabili, è stato poi riconosciuto in sede di merito anche dalla disamina delle fatture acquisite presso i clienti/fornitori della società, dal quali era dunque emerso non solo un attivo superiore a quello dichiarato, ma anche – nell’ottica del capo di imputazione – la previa istituzione di quei libri e quelle scritture contabili obbligatorie (che avrebbero dato conto anche di queste fatture, emesse in duplice esemplare), poi evidentemente occultati.
5.3. Ancora, e distinguendo analiticamente tra le due annualità (pagg. 5-6), la Corte di appello ha sottolineato che, quanto al 2011, la società aveva presentato una dichiarazione dei redditi incompleta (perché priva dell’indicazione degli elementi tratti dalla documentazione ricavata aliunde), mentre, quanto al 2012, nessuna dichiarazione era stata presentata.
5.4. Ebbene, tutti questi dati, in sé oggettivi e non contestati, uniti al fat che la società era allora certamente attiva, hanno condotto i Giudici – con argomento adeguato e privo di illogicità manifesta – a ritenere che la documentazione contabile fosse stata istituita e tenuta, per essere poi occultata, con evidente volontà di evadere le imposte dovute.
Proprio a quest’ultimo riguardo, e dunque affrontando il secondo motivo di ricorso, la Corte di appello ha steso ancora una motivazione congrua e n censurabile.
6.1. In particolare, la sentenza ha negato la tesi difensiva secondo cui il avrebbe agito in buona fede o avrebbe tenuto la contabilità soltanto in mani
incompleta. Al riguardo, è stata richiamata la deposizione di un militare della Guardia di finanza, il quale aveva riferito che, nel corso dell’accertamento, “molte volte è stato chiesto al signor COGNOME di esibire la documentazione mancante, il quale si riservava, si è riservato più volte di esibirla, però mai esibita”; a ciò, stata poi aggiunta l’incompleta dichiarazione dei redditi e di quella IVA per il 2011 e la mancata presentazione di quelle relative al 2012, a significare ulteriormente il dolo specifico richiesto dall’art. 10 in contestazione.
6.2. Non può essere accolto, pertanto, il motivo di ricorso che contesta alla pronuncia la mancanza di una specifica valutazione sul punto.
6.3. Analogamente, la stessa censura non può essere accolta laddove richiama “il conto corrente in rosso” della società e l’assenza di alcuna disponibilità economica, alla data del 31/12/2012; una condizione dalla quale, in ottica difensiva, conseguirebbe che lo stesso ente non avrebbe avuto alcuna “possibilità di pagare le tasse eventualmente dovute” (anche in ragione degli ingenti debiti maturati). Questi elementi, all’evidenza, costituiscono dati di fatto irricevibili sede di legittimità; dati, peraltro, offerti in termini del tutto generici e privi di indicazione circa la fonte probatoria che li sosterrebbe.
6.4. Il ricorso, pertanto, risulta manifestamente infondato anche con riguardo all’elemento psicologico del reato.
Infine, l’impugnazione non può essere accolta neppure sull’ultimo motivo, con il quale si eccepisce l’intervenuta prescrizione del reato alla data del 4/1/2023, dunque ben prima della sentenza di appello.
7.1. Per costante giurisprudenza di legittimità, qui da ribadire, la condotta di cui all’art. 10, d. Igs. n. 74 del 2000, può consistere sia nella distruzione che nell’occultamento delle scritture contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, con conseguenze diverse rispetto al momento consumativo, giacché la distruzione realizza un’ipotesi di reato istantaneo, che si consuma con la soppressione della documentazione, mentre l’occultamento – consistente nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori, qui contestato – costituisce un reato permanente, che si protrae sino al momento dell’accertamento fiscale, dal quale soltanto inizia a decorrere il termine di prescrizione (per tutte, Sez. 3, n. 14461 del 25/5/2016, Quaglia, Rv. 269898).
7.2. Da questo indirizzo, consegue dunque che il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione è da individuare nel 16 ottobre 2015, data di accertamento del reato. Era allora in vigore l’art. 17, comma 1-bis, d. Igs. n. 74 del 2000, introdotto dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella I. 14 settembre 2011, n. 148, in forza del quale i termini di prescrizione peri delitti
previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto n. 74 del 2000 sono elevati di un terzo. Con l’effetto che, per la fattispecie contestata, il termine di prescrizion
deve individuarsi in 10 anni, ai sensi degli artt. 157-161 cod. pen., oltre alle sospensioni che lo stesso motivo di ricorso menziona.
7.3. Questo termine non era ancora maturato alla data della sentenza di appello, né lo è ad oggi.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616
cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente
fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 3 luglio 2025
n/ t