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Obbligo di traduzione atti: non basta essere straniero

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di una cittadina straniera contro un decreto penale. La Corte ha chiarito che l’obbligo di traduzione degli atti processuali non deriva dalla sola cittadinanza estera, ma sorge solo quando dagli atti del procedimento emergano elementi concreti che indichino la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato.

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Pubblicato il 28 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Obbligo di Traduzione Atti: Non Basta Essere Straniero, Serve la Prova

L’obbligo di traduzione degli atti processuali a favore di un imputato straniero non scatta in automatico. La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ribadisce un principio fondamentale: è necessario che dagli atti emerga una reale e comprovata incapacità di comprendere la lingua italiana. Questo principio è cruciale per garantire sia i diritti della difesa sia l’efficienza del sistema giudiziario. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso

Una cittadina straniera si è vista notificare un decreto penale di condanna. Successivamente, ha presentato un’istanza al Giudice dell’esecuzione chiedendo di dichiarare l’inefficacia del decreto o, in subordine, di essere rimessa nei termini per poterlo impugnare. La sua difesa si basava su un punto essenziale: la mancata conoscenza della lingua italiana, che le avrebbe impedito di comprendere il contenuto e le conseguenze dell’atto ricevuto. A sostegno della sua tesi, ha prodotto documenti che attestavano i suoi limitati risultati scolastici e un livello di conoscenza della lingua italiana classificato come A2.

Il giudice di merito, tuttavia, ha respinto la richiesta, rilevando che il decreto era stato regolarmente notificato nelle mani della ricorrente e che, agli atti, risultava già un accertamento della sua conoscenza della lingua italiana.

La Decisione della Corte e l’Obbligo di Traduzione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la linea interpretativa consolidata in materia. Il punto centrale della decisione ruota attorno all’interpretazione dell’art. 143 del codice di procedura penale. Secondo i giudici supremi, l’obbligo di traduzione non nasce semplicemente dalla constatazione che l’imputato sia un cittadino straniero o abbia origini straniere. Si tratta di una garanzia che scatta solo in presenza di una condizione specifica.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha spiegato che il dovere di tradurre gli atti processuali sorge quando, all’interno del fascicolo processuale, esistono ‘elementi sintomatici’ da cui si può desumere la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato. Non è sufficiente essere un ‘alloglotta’ (persona che parla una lingua diversa); è necessario che questa difficoltà linguistica emerga concretamente durante il procedimento.

Nel caso specifico, la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che, già durante il giudizio di cognizione che ha portato all’emissione del decreto penale, vi fossero prove della sua incapacità di comprendere l’italiano. Produrre documentazione attestante un basso livello di conoscenza della lingua solo in un momento successivo, cioè in fase di esecuzione, non è sufficiente a contestare la legittimità del provvedimento originario.

La Corte ha richiamato precedenti sentenze (come la n. 47896/2014 e la n. 17327/2023) per sottolineare come la presunzione di conoscenza della lingua italiana possa essere superata solo da elementi concreti presenti agli atti, e non da una mera dichiarazione dell’interessato o da prove prodotte a posteriori.

Le Conclusioni

La decisione consolida un principio di responsabilità per l’imputato straniero e la sua difesa. Non si può rimanere inerti e sollevare la questione linguistica solo dopo una condanna. È fondamentale che l’incapacità di comprendere la lingua venga segnalata e documentata fin dalle prime fasi del procedimento penale. Questa ordinanza serve come monito: la garanzia della traduzione è un diritto effettivo, ma la sua attivazione richiede che la difficoltà linguistica sia manifestata e provata nel contesto processuale corretto. Di conseguenza, il ricorso è stato dichiarato inammissibile e la ricorrente è stata condannata al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

Quando sorge l’obbligo per il giudice di tradurre gli atti processuali per un imputato straniero?
L’obbligo di traduzione sorge non per la semplice condizione di cittadino straniero, ma solo quando negli atti del processo esistono elementi concreti che indicano una reale mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato.

È sufficiente presentare un certificato di conoscenza linguistica di basso livello per ottenere l’annullamento di un atto non tradotto?
No, secondo questa ordinanza non è sufficiente. L’imputato deve dimostrare che la prova della sua mancata conoscenza della lingua italiana fosse già presente negli atti del procedimento che ha portato all’emissione del provvedimento impugnato, non basta provarlo in un momento successivo.

Qual è stato l’esito del ricorso in questo caso specifico?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. La ricorrente è stata condannata al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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