Minaccia Grave: La Cassazione Chiarisce Perché la Paura della Vittima Non Conta
Il reato di minaccia grave rappresenta una delle fattispecie più delicate del nostro ordinamento penale, poiché tocca la sfera della libertà morale e della tranquillità individuale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sui presupposti per la configurabilità di tale reato, soffermandosi in particolare sull’irrilevanza dello stato d’animo della vittima e sulla qualificazione di oggetti comuni come armi. Analizziamo insieme questa decisione per comprenderne la portata e le implicazioni pratiche.
I fatti del caso: la minaccia con la bottiglia rotta
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte riguardava un uomo condannato in primo e secondo grado per il reato di minaccia aggravata. La condotta contestata consisteva nell’aver minacciato un’altra persona brandendo una bottiglia di vetro precedentemente rotta. L’imputato, attraverso il suo ricorso, lamentava una motivazione carente da parte della Corte d’Appello, sostenendo che non fosse stata adeguatamente provata la sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 612, comma 2, del codice penale, ovvero la minaccia commessa con l’uso di un’arma.
La difesa puntava, tra le altre cose, sulla presunta assenza di un’effettiva intimidazione della persona offesa e contestava la valutazione delle prove testimoniali e documentali, come il certificato del pronto soccorso che non menzionava lesioni provocate dalla bottiglia.
La decisione della Corte: ricorso inammissibile
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le censure proposte manifestamente infondate. Secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello aveva correttamente e ampiamente motivato la sua decisione, confutando punto per punto le argomentazioni difensive. La condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende è stata la diretta conseguenza di questa pronuncia.
Le motivazioni: perché si tratta di minaccia grave?
La Corte ha basato la sua decisione su alcuni principi giuridici fondamentali, che meritano di essere approfonditi.
L’irrilevanza dello stato d’animo della vittima
Il punto centrale della motivazione riguarda la natura del reato di minaccia. La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: la minaccia è un reato di pericolo. Questo significa che per la sua integrazione non è necessario che la vittima si sia effettivamente sentita intimidita o spaventata. Ciò che conta è l’idoneità oggettiva della condotta a incutere timore in una persona comune. Questo principio si estende anche alla valutazione della gravità della minaccia: essa è intrinsecamente grave se commessa con determinate modalità, a prescindere dalla reazione soggettiva di chi la subisce.
L’uso di un’arma impropria configura la minaccia grave
La Corte ha sottolineato come la minaccia a mano armata sia una delle ipotesi tipizzate dalla legge come minaccia grave. Nel caso di specie, l’imputato aveva utilizzato una bottiglia rotta. Un oggetto di questo tipo, pur non essendo un’arma in senso proprio (come una pistola), diventa un'”arma impropria” nel momento in cui viene utilizzata con l’intento di offendere. Il semplice fatto di aver brandito un coccio di bottiglia durante l’azione intimidatoria è stato ritenuto sufficiente a integrare l’aggravante, rendendo superflua ogni ulteriore valutazione sulla concreta intensità dell’intimidazione.
L’aggravante speciale e l’irrilevanza della remissione di querela
Un ultimo aspetto rilevante toccato dalla Corte riguarda la procedibilità del reato. La condotta era aggravata anche ai sensi dell’art. 71 del D.Lgs. 159/2011 (Codice Antimafia), una circostanza che rende il reato procedibile d’ufficio. Di conseguenza, l’eventuale remissione della querela da parte della persona offesa sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini della prosecuzione del procedimento penale.
Le conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza
L’ordinanza in esame consolida alcuni importanti principi in materia di minaccia grave. In primo luogo, stabilisce che la valutazione del reato deve concentrarsi sulla condotta dell’agente e sul suo potenziale offensivo, piuttosto che sull’impatto emotivo sulla vittima. In secondo luogo, conferma che l’uso di qualsiasi oggetto atto a offendere, anche se di uso comune come una bottiglia, è sufficiente per qualificare la minaccia come aggravata e, quindi, grave. Questa decisione serve da monito: la legge punisce non solo il danno effettivo, ma anche il pericolo che la libertà e la sicurezza personale vengano violate, sanzionando con severità le condotte che, per le modalità con cui sono attuate, manifestano una particolare pericolosità sociale.
Per configurare il reato di minaccia grave, è necessario che la vittima si sia spaventata?
No. Secondo la Corte, il reato di minaccia è un reato di pericolo. Ciò significa che per la sua sussistenza è sufficiente che la condotta sia oggettivamente idonea a intimidire, a prescindere dalla reazione emotiva della persona offesa.
Una bottiglia rotta è considerata un’arma ai fini della legge?
Sì. La sentenza chiarisce che una bottiglia rotta rientra nella categoria delle “armi improprie”, ovvero oggetti che, pur non essendo armi per natura, vengono utilizzati per offendere. Il suo uso integra l’aggravante della minaccia a mano armata.
Se la vittima ritira la denuncia (remissione di querela), il processo per minaccia grave si ferma?
Non in questo caso. La presenza di un’aggravante a effetto speciale (in questo caso, quella prevista dall’art. 71 del D.Lgs. 159/2011) ha reso il reato procedibile d’ufficio. Ciò significa che il procedimento penale prosegue indipendentemente dalla volontà della persona offesa.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 3668 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 3668 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il 10/07/1996
avverso la sentenza del 14/03/2024 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Rilevato che NOME ricorre avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sua condanna per il reato di minaccia grave in relazione all’art. 339 c.p. e aggravata ex art. 71 comma1 d.lgs. n. 159/2011.
Rilevato che il ricorrente deduce vizi di motivazione lamentando la mancata confutazione delle doglianze proposte con il gravame di merito in ordine alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 612 comma 2 c.p.
Rilevato che si tratta di censure inammissibili, sia perché la Corte ha in realtà ampiamente risposto alle sollecitazioni difensive, sia perché, in realtà, le stesse erano manifestamente infondate, con conseguente irrilevanza di eventuali residui vizi di motivazione della sentenza impugnata.
Rilevato in particolare che, anzitutto, del tutto irrilevante ai fini della configurabi dell’aggravante contestata è l’effettiva intimidazione della persona offesa. Va infatti ricordato che quello di minaccia è reato di pericolo integrato dalla mera idoneità della condotta ad intimidire e che dunque sussiste anche qualora la vittima non si sia effettivamente intimidita. Principio che vale anche ai fini della valutazione della gravità della minaccia, che deve considerarsi per l’appunto intrinsecamente tale a prescindere dalla reazione della persona offesa. Non di meno dirimente è il fatto che oggetto di contestazione era una minaccia a mano armata che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 612 comma 2 e 339 c.p. è tipizzata dalla prima delle due disposizioni citate sempre come grave, per il solo fatto che la condotta intimidatoria è stata consumata utilizzando un’arma, propria o impropria che sia, e dunque a prescindere da ulteriori valutazioni sulla consistenza dell’intimidazione.
Rilevato che generica e manifestamente infondata è anche l’obiezione relativa al supposto travisamento in cui sarebbe incorso il giudice del merito per omessa considerazione delle dichiarazioni di un teste e del certificato del pronto soccorso. Quanto alle prime è evidente che la censura riguarda il significato probatorio delle medesime e non già il loro significante, atteso che in realtà il COGNOME ha confermato come l’imputato abbia afferrato una bottiglia. Che questa fosse stata rotta dallo stesso Rida e brandita nei confronti della vittima per accompagnare le frasi intimidatorie contestategli i giudici del merito lo hanno ritratto dalle parole della stessa persona offesa, la cui attendibilità è rimasta incontestata. Quanto al menzionato certificato la doglianza era priva di qualsivoglia fondamento, atteso che in alcun modo è stato mai contestato o ritenuto che le lesioni riportate da quest’ultima siano state causate con la bottiglia e dunque è irrilevante che, peraltro coerentemente, la documentazione sanitaria non vi faccia cenno.
Rilevato infine, quanto al fatto che l’imputato abbia (volontariamente) rotto la bottiglia come la Corte abbia logicamente inferito che egli sia rimasto in possesso di un coccio, coerentemente al tenore delle frasi pronunziate. Nessun dubbio dunque che, come correttamente ritenuto, l’oggetto brandito nei confronti della vittima fosse atto ad offendere, rimanendo dunque integrata l’aggravante di cui si discute. Quanto infine alla procedibilità d’ufficio del reato ed all’irrilevanza della intervenuta remissione dell querela, val la pena comunque ricordare come la contestazione dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 71 comma 1 d.lgs. n. 159/2011 comunque ha escluso la necessità di quest’ultima.
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila a favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso il 04/ GLYPH 124