Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 45861 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 45861 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nata a CREMONA il 29/03/1954
avverso la sentenza del 29/02/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso del difensore e la memoria di replica;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto P.G. NOME COGNOME il quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOMECOGNOME a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia del 29 febbraio 2024, con cui è stata confermata la sentenza del Tribunale di Cremona che ha condannato l’imputata alla pena di giustizia in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv., 6 comma 1, n. 7 e n. 11, 629, comma 1, cod. pen., con le attenuanti generiche prevalenti, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile NOMECOGNOME liquidate in complessivi euro 60.000,00.
La difesa affida le sue censure a cinque motivi che, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., saranno enunciate nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Erronea applicazione degli artt. 629, comma 1, 612 cod. pen., 2697 cod. civ. e 10 e 17 I. n. 339/1958.
In particolare, andava esclusa qualsiasi ipotesi di violenza e minaccia non ravvisabile nella prospettazione fatta dalla ricorrente al cugino che si sarebbe rivolta ai sindacati per ottenere quanto ancora dovutole per l’attività assistenziale che aveva prestato in favore della madre di costui, trattandosi dell’esercizio di un diritto.
Né poteva ritenersi l’estorsione sul rilievo che l’imputata avesse strumentalmente agito per ottenere un profitto non dovuto, ossia che l’esercizio del diritto fosse strumentalmente volto alla realizzazione di un fine differente da quello per il quale è riconosciuto, tenuto conto che la parte civile non aveva allegato, nel rispetto dell’onere probatorio imposto dall’art. 2697 cod. civ., alcunché a dimostrazione dell’inesistenza dei fatti in forza dei quali la pretesa era stata esatta.
Anzi, si sottolinea come dall’istruttoria fosse emerso che le somme richieste erano dovute a causali di lavoro.
2.2. Vizio di motivazione in ordine all’asserito puntuale pagamento di tutti gli stipendi che la parte civile doveva all’imputata in forza del rapporto di lavoro consistito dall’assistenza prestata alla di lei madre.
2.3. Erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. e degli artt. 10 e 17 I. n. 339/1958 e vizio di motivazione nella parte in cui non si è tenuto conto che parte della somma pretesa era riferibile al diritto alle ferie retribuite e all’indennità anzianità, ossia in relazione a somme comunque dovute.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo. La censura attiene agli elementi dimostrativi
indicati dalla Corte territoriale a conferma che l’imputata avesse agito nella consapevolezza di ottenere un compenso non dovuto sfruttando la fragilità della parte civile.
2.5. Vizio di motivazione in relazione al ritenuto convincimento dell’imputata di porre in essere un abuso del proprio diritto sfruttando la fragilità della parte civile.
Con requisitoria del 17/09/2024, il Pubblico ministero ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Con memoria del 14/10/2024, la difesa dell’imputata ha replicato al contenuto della requisitoria della Procura generale insistendo per l’ammissibilità e l’accoglimento dei motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Con i primi tre motivi la difesa della ricorrente tende a dimostrare come la Corte d’Appello di Brescia, nel ritenere sussistente l’elemento oggettivo del reato di estorsione, abbia errato nell’applicare le norme penali di cui agli artt. 629 comma 1, e 612 cod. pen., ovvero degli artt. 2697 cod. civ., relativo all’onere della prova in ambito civilistico, e 10 e 17 I. n. 339/1958, relativi alla debenza ed alla determinazione dell’indennità di anzianità (trattamento fine rapporto ed indennità per mancato godimento delle ferie nell’ambito del lavoro domestico).
In particolare, si sostiene che l’imputata aveva chiesto al cugino il pagamento di sei stipendi arretrati, dell’indennità di anzianità e dell’indennità per mancato godimento delle ferie, dichiarando che, in caso di mancato pagamento, ella si sarebbe rivolta ai sindacati. Essendo quello prospettato dall’imputata l’esercizio di un diritto, solo l’ingiustizia della mercede richiesta può consentire di inquadrare la condotta della donna nella fattispecie di estorsione. Il fulcro del ricorso, in merito all’elemento oggettivo del reato di estorsione, risiede nel fatto che si contesta come il giudice di merito abbia ritenuto non dovuti gli elementi retributivi chiesti dall’imputata non applicando le norme civilistiche alla stregua delle quali la pretesa dell’imputata sarebbe stava valutata in una causa di lavoro, che la stessa avrebbe promosso, qualora le sue spettanze non le fossero state pagate.
La prospettazione difensiva, vuoi sotto il profilo dell’erronea applicazione delle norme sostanziali denunciate, vuoi del vizio di motivazione, è manifestamente infondata. L’assunto muove, infatti, da una ricostruzione alternativa della vicenda che è stata smentita dalle sentenze di merito, le quali, sulla scorta delle
dichiarazioni della persona offesa, avvalorate da altre fonti dichiarative e documentali, hanno anzitutto escluso che la pretesa economica avanzata dall’imputata (nella misura di euro 58.000,00) fosse interamente dovuta, soprattutto se si considerano le cospicue movimentazioni registratesi sui conti correnti delle parti che escludono logicamente persistenti debenze, nonché una consistente “donazione” in precedenza effettuata dalla parte civile in favore dell’imputata e ascrivibile alla prestazione di assistenza da quest’ultima svolta, che rendono pretestuosa l’addotta causale di stipendi non corrisposti.
Peraltro, sebbene da un rapporto svolto in nero derivino obblighi contrattuali attinenti al trattamento di fine rapporto e alle ferie non godute (oltre eventuali differenze retributive) – resta il fatto che, a conferma della natura strumentale della pretesa, le sentenze di merito citano il dato, non affatto sfornito di rilievo costituito dall’escamotage a cui ricorse l’imputata di far firmare alla persona offesa, “soggetto fragile e impaurito”, una dichiarazione unilaterale con cui quest’ultimo si dichiarava debitore in favore della cugina della somma pretesa, retrodatata ad un epoca molto distante dalle prime avvisaglie relative alle particolari condizioni di salute del cugino.
Non affatto manifestamente illogico è farne conseguire l’argomento secondo cui se l’imputata fosse stata effettivamente creditrice dell’intera somma pretesa non sarebbe ricorsa ad un tale stratagemma, ma si sarebbe potuta rivolgere come prescrive la legge – all’Ispettorato Territoriale del Lavoro e, laddove le parti non avessero trovato un accordo, avviare un giudizio contro il proprio ex datore a mezzo del proprio avvocato – innanzi al tribunale ordinario, sezione lavoro.
Nulla di tutto ciò è stato fatto ed anzi il giudice del merito rimarca come l’imputata non solo non abbia fatto seguire al prospettato intento di rivolgersi ai “sindacati” alcuna iniziativa in tal senso, ma abbia provveduto celermente all’incasso dei rimanenti assegni che la p.o. le aveva consegnato a seguito del “prestito infruttifero”, nonostante avesse ricevuto l’intimazione del legale di parte civile di sospendere gli incassi al fine di verificarne le effettive causali.
La circostanza, poi, pure evidenziata dalla sentenza impugnata, che l’imputata non abbia fornito alcuna prova del fatto costitutivo del diritto alle prestazioni lavorative vantate, non può essere superato dalla difesa mediante il ricorso alle regole civilistiche di ripartizione dell’onere probatorio: allorché la pubblica accusa, mediante testimoni e esiti documentali abbia affermato l’insussistenza di ragioni che rendono la pretesa tutelabile, in tutto o in parte, dinanzi al giudice, spetta all’imputato, ai sensi degli artt. 190 e 495, comma 2, cod. proc. pen., introdurre elementi a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico. E tanto a
prescindere dall’ulteriore rilievo che in sede civilistica compete alla lavoratrice dimostrare le differenze retributive generate dal rapporto di lavoro (Cass. civ., ordinanza n. 7696 del 6 aprile 2020).
Un quadro a tinte fosche, dunque, nel quale la riconducibilità della pretesa e dell’incasso degli assegni a reali causali del lavoro domestico ancora dovute va disattesa a favore dell’ipotesi accusatoria sposata dai giudici di merito che, in aderenza alle fonti di prove indicate, ne propugnano una lettura a titolo di estorsione, realizzata mediante l’approfittamento delle precarie condizioni di salute della persona offesa, con la prospettazione di un danno ingiusto, quale quello di “rivolgersi ai sindacati per segnalare l’omessa regolarizzazione di siffatto rapporto di collaborazione domestica”.
È noto, infatti, che allo svolgimento di un rapporto di lavoro domestico in nero conseguano sanzioni a carico del datore di lavoro sia di carattere amministrativo (per avere omesso di comunicare l’assunzione e di iscrivere il lavoratore all’ente previdenziale) che civili (per l’omesso pagamento dei contributi).
Nel caso in esame, posto che i giudici di merito hanno affermato che la ricorrente nulla aveva a pretendere in relazione a quanto dovuto in costanza dello svolgimento di un rapporto di lavoro domestico in nero (t.f.r., ferie maturate e non godute, 13^ mensilità, ecc.), la prospettazione di rivolgersi ai sindacati assume valenza minacciosa, in quanto si pone la persona offesa nella condizione di subire il ricatto ovvero le conseguenze pregiudizievoli che scaturirebbero dalla denunzia. Non si è, dunque, al cospetto di un’intimazione formulata con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà, al fine d conseguire risultati non conformi a giustizia.
Sul tema i giudici di merito risultano, quindi, avere fatto corretta applicazione del principio enunciato dalla Corte di legittimità, a mente del quale la minaccia estorsiva può concernere anche l’esercizio di un diritto o di una facoltà legittima in quanto essa, anche se apparentemente non è ingiusta, diventa tale nel momento in cui è finalizzata a conseguire un profitto non dovuto, quando cioè l’esercizio del diritto sia strumentalizzato alla realizzazione di un fine diverso da quello per il quale è riconosciuto e potendosi individuare il male ingiusto ai fini dell’integrazione del più grave delitto nella pretestuosità della richiesta (Sez. 2, n. 5239 del 18/01/2013, Adduci, Rv. 254975 – 01; Sez. 2, n. 36365 del 07/05/2013, COGNOME, Rv. 256874 – 01; Sez. 2, n. 48733 del 29/11/2012, Parvez, Rv. 253844 – 01; Sez. 6, n. 47895 del 19/06/2014, Vasta, Rv. 261217 – 01).
3. Con riferimento all’elemento soggettivo del reato, di cui trattano il quarto ed il quinto motivo del ricorso, i motivi risultano manifestamente infondati, in
quanto si risolvono in un’alternativa di merito non consentita in questa sede.
La sentenza impugnata ha ricavato il dolo dalla natura strumentale di gran parte della somma pretesa, per come comprovato dalla predisposizione da parte dell’imputata del documento con cui la parte civile si dichiarava falsamente debitore della cugina per avere ricevuto in prestito la somma pretesa, retrodatato ad epoca in cui l’offeso era ancora in buone condizioni psico-fisiche e dal comportamento tenuto (e non tenuto) dall’imputata allorché intervenne il legale di parte civile. Il tutto nell’ambito di una ricostruzione che, avvalendosi di idonei elementi di prova, porta ad escludere l’esistenza di ragioni creditorie nella misura vantata dall’imputata. E tanto basta in questa sede, rivelandosi tale argomento idoneo a supportare le conclusioni a cui è giunto il giudice del merito e non potendosi chiedere alla Corte di legittimità l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dalla ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex multis Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
In conclusione, nulla aggiungendo di decisivo la memoria di replica della difesa, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 22 ottobre 2024.