Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 16662 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 16662 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 27/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Salerno il 23/6/1985
avverso la sentenza del 14/6/2024 della Corte di appello di Ancona
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 14 giugno 2024 la Corte di appello di Ancona ha confermato quella emessa il 25 novembre 2022 dal Tribunale di Urbino, con cui NOME COGNOME è stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 336 cod. pen.
Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il difensore di NOME COGNOME che ha dedotto violazione di legge, per non avere la Corte territoriale considerato che le frasi pronunciate dall’imputato erano prive di valenza intimidatoria, in quanto il riferimento alla carrozzina non poteva che essere inquadrato quale mera resistenza passiva del detenuto rispetto alla richiesta di fare rientro nella propria stanza, mentre la frase “devo risolverla in altro modo” non era rivolta al pubblico ufficiale ma al detenuto COGNOME con il quale l’imputato stava discutendo, e, ad ogni modo, si presta a molteplici interpretazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
È risultato accertato che l’assistente di polizia penitenziaria NOME COGNOME aveva avvertito l’imputato, a seguito dei reiterati rifiuti di quest’ultimo di fare rientro nella propria cella e della lite intrapresa con il detenuto COGNOME che, in relazione a tali fatti, avrebbe redatto un rapporto disciplinare. L’imputato, quindi, aveva pronunciato all’indirizzo del pubblico ufficiale la frase: «Se scrivi, da domani mi dovete venire a prendere con la carrozzella cinque volte al giorno» e aveva aggiunto: «Ma se tu mi scrivi, io poi devo chiuderla in altro modo prima di andarmene».
Secondo la Corte di appello, l’imputato aveva agito con l’evidente intento di indurre l’operante a omettere il compimento dell’atto di ufficio con una condotta non inquadrabile quale reazione genericamente minatoria, espressione di sentimenti ostili nei termini di mera resistenza passiva, ma connotata dalla specifica prospettazione di un male ingiusto e certamente tale da turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali.
2.1. Siffatta motivazione è viziata.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia o di resistenza a pubblico ufficiale, di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen., non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di qualsiasi coazione, anche morale, ovvero una minaccia anche indiretta, purché sussista l’idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale, sì che la pubblica funzione ne risulti impedita o ostacolata (Sez. 6, n. 49468 del 18/11/2015, Calamia, Rv. 266241 01; Sez. 6, n. 7482 del 3/12/2007, dep. 2008, Di Prima, Rv. 239014 – 01).
Si è precisato che l’uso di qualsiasi coazione, anche indiretta, purché idonea a comprimere la libertà d’azione del pubblico ufficiale, è idonea a realizzare il
delitto di cui all’art. 336 cod. pen., in quanto reato di mera condotta assistita da dolo specifico
(ex plurimis:
Sez. 6, n. 4909 del 4/12/2024, dep. 2025, COGNOME
Rv. 287598 – 02; Sez. 6, n. 24624 del 15/04/2003, Marano, Rv. 225492 – 01).
Il dolo del delitto di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale si risolve, infatti nella coscienza e volontà di usare la violenza o la minaccia come mezzo per
costringere il soggetto passivo a violare i propri doveri o a non adempierli.
2.2. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente la prospettazione da parte dell’imputato di un male ingiusto, idoneo a turbare il
pubblico ufficiale, ma non ha spiegato le ragioni di questa conclusione, apoditticamente, quindi, assunta. Tale lacuna non è colmata neanche integrando
la motivazione della sentenza impugnata con quella di primo grado, atteso che anche quest’ultima ha assertivamente affermato che le espressioni, proferite
dall’imputato nei confronti dell’assistente COGNOME erano minacciose e idonee a costringere l’agente operante ad omettere un atto del suo ufficio.
Siffatte lacune appaiono ancora più significative, ove si consideri che le frasi in questione non hanno un univoco ed evidente significato minatorio, essendo,
piuttosto, mera espressione di avversione e ostilità, potenzialmente non in grado di impedire e ostacolare il compimento di un atto di ufficio da parte dell’assistente di polizia. Le anzidette frasi, infatti, valutate con un giudizio ex ante, che tenga conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto, non manifestano chiara idoneità a turbare la capacità di autodeterminazione e di azione dell’assistente di polizia, risolvendosi non nella prospettazione di minacce ma nel preannuncio di future condotte dell’imputato, neppure chiaramente prospettate.
Per altro verso, la condotta del ricorrente non ha espresso appieno il finalismo lesivo, poiché, alla luce delle concrete circostanze accertate dai giudici di merito e del tenore delle frasi, come innanzi descritte, non traspare univocamente che l’imputato voleva indurre il pubblico ufficiale ad omettere di relazionare sui fatti accaduti la sera del 2 novembre 2018.
2.3. Ne discende che il reato contestato non può ritenersi integrato e la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. Così deciso il 27 marzo 2025.