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Minaccia a pubblico ufficiale: quando non è reato

Un detenuto viene condannato in primo e secondo grado per il reato di minaccia a pubblico ufficiale, per aver rivolto frasi ostili a un agente di polizia penitenziaria che intendeva redigere un rapporto disciplinare. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza, stabilendo che le espressioni utilizzate, pur essendo ostili, non possedevano la concreta idoneità a coartare la volontà dell’agente. La Corte ha chiarito che per configurare il reato è necessaria una minaccia seria e concreta, non una mera espressione di avversione.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Minaccia a pubblico ufficiale: quando l’ostilità non basta per la condanna

La linea di confine tra una semplice espressione di ostilità e una vera e propria minaccia a pubblico ufficiale è spesso sottile, ma giuridicamente cruciale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti importanti, annullando una condanna e ribadendo che, per integrare il reato previsto dall’art. 336 del codice penale, non è sufficiente un’espressione ostile, ma è necessaria una condotta concretamente idonea a coartare la libertà d’azione del pubblico ufficiale.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da un episodio avvenuto all’interno di un istituto penitenziario. Un detenuto, a seguito di un diverbio con un altro recluso e del suo rifiuto di rientrare in cella, veniva informato da un assistente di polizia penitenziaria che sarebbe stato redatto un rapporto disciplinare a suo carico. In risposta, l’imputato pronunciava all’indirizzo dell’agente la frase: «Se scrivi, da domani mi dovete venire a prendere con la carrozzella cinque volte al giorno» e aggiungeva: «Ma se tu mi scrivi, io poi devo chiuderla in altro modo prima di andarmene».

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte di Appello avevano ritenuto tali frasi sufficienti a configurare il reato di minaccia a pubblico ufficiale, condannando il detenuto. Secondo i giudici di merito, le parole avevano un’evidente valenza intimidatoria, finalizzata a indurre l’agente a omettere il compimento di un atto del proprio ufficio, ovvero la stesura del rapporto disciplinare.

La Valutazione della Minaccia a Pubblico Ufficiale da parte della Cassazione

Contrariamente alle corti di merito, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della difesa, annullando la sentenza senza rinvio perché “il fatto non sussiste”. La Suprema Corte ha riesaminato la natura delle frasi pronunciate, applicando un criterio di valutazione più rigoroso.

Secondo gli Ermellini, per integrare il delitto di cui all’art. 336 c.p., non è necessaria una minaccia diretta o personale, ma è sufficiente qualsiasi forma di coazione, anche morale o indiretta, purché possegga un requisito fondamentale: l’idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale, ostacolando o impedendo la sua funzione.

Le Motivazioni della Sentenza

La motivazione della Corte si concentra sulla valutazione della condotta dell’imputato secondo un giudizio ex ante, ovvero basato sulle circostanze oggettive e soggettive esistenti al momento del fatto. Le frasi, analizzate in questo contesto, sono state ritenute non manifestare una chiara idoneità a turbare la capacità di autodeterminazione dell’agente di polizia.

In particolare, la Corte ha stabilito che le espressioni dell’imputato si risolvevano in una “mera espressione di avversione e ostilità”, potenzialmente non in grado di impedire o ostacolare l’atto d’ufficio. Esse rappresentavano il preannuncio di future condotte dell’imputato, peraltro neppure chiaramente prospettate, piuttosto che la prospettazione di un male ingiusto e immediato. Inoltre, i giudici di legittimità hanno ritenuto che non trasparisse in modo univoco l’intento (il “finalismo lesivo”) di indurre il pubblico ufficiale a omettere la redazione del rapporto.

Conclusioni

La decisione della Cassazione ribadisce un principio fondamentale nella valutazione del reato di minaccia a pubblico ufficiale: la necessità di un’analisi concreta e non presunta della carica intimidatoria della condotta. Non ogni frase ostile o di protesta pronunciata nei confronti di un pubblico ufficiale integra automaticamente una fattispecie di reato. È indispensabile che la minaccia sia seria, concreta e oggettivamente capace di influenzare la volontà del funzionario, comprimendo la sua libertà di azione. In assenza di tale idoneità lesiva, come nel caso di specie, il fatto non assume rilevanza penale e deve essere considerato al più come una manifestazione di insofferenza non punibile ai sensi dell’art. 336 c.p.

Quando una frase rivolta a un pubblico ufficiale diventa una minaccia penalmente rilevante?
Una frase diventa una minaccia penalmente rilevante quando, valutata nel contesto in cui è pronunciata, risulta concretamente idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale e a turbarne la capacità di autodeterminazione, andando oltre la mera espressione di ostilità o avversione.

Perché la Cassazione ha annullato la condanna in questo specifico caso?
La Cassazione ha annullato la condanna perché ha ritenuto che le frasi pronunciate dal detenuto, pur essendo ostili, non manifestassero una chiara idoneità a intimidire l’agente di polizia o a costringerlo a omettere il rapporto disciplinare. Sono state qualificate come preannuncio di condotte future non ben definite, piuttosto che come una minaccia concreta.

Qual è il criterio utilizzato dalla Corte per valutare la gravità della minaccia?
La Corte utilizza un criterio di valutazione ‘ex ante’, analizzando cioè le circostanze oggettive e soggettive conosciute al momento del fatto. In base a questo giudizio, la condotta deve apparire fin da subito capace di comprimere la libertà d’azione del pubblico ufficiale per poter configurare il reato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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