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Mandato di arresto europeo: quando è legittimo?

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un mandato di arresto europeo emesso dall’Ungheria per interrogare un indagato ai fini dell’esercizio dell’azione penale. I giudici hanno respinto il ricorso, stabilendo che la mancanza di un appello contro l’ordine di arresto nazionale non viola i diritti fondamentali quando lo scopo non è cautelare ma procedurale. Inoltre, l’uso del mandato è stato ritenuto proporzionato, data la precedente irreperibilità dell’indagato, e non è stato riconosciuto un sufficiente radicamento nel territorio italiano per giustificare il rifiuto della consegna.

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Pubblicato il 8 ottobre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Mandato di Arresto Europeo: Legittimo Anche Senza Appello Nazionale

Il mandato di arresto europeo (MAE) rappresenta uno degli strumenti più efficaci di cooperazione giudiziaria all’interno dell’Unione Europea. Tuttavia, la sua applicazione solleva spesso complesse questioni sul bilanciamento tra efficienza della giustizia e tutela dei diritti fondamentali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 15280/2025) ha offerto chiarimenti cruciali sulla legittimità di un MAE emesso per finalità processuali, anche quando il provvedimento di arresto nazionale sottostante non è autonomamente impugnabile.

I Fatti del Caso: Una Richiesta di Consegna dall’Ungheria

Il caso riguarda un cittadino ungherese, destinatario di un mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Buda su richiesta dell’autorità giudiziaria ungherese. La finalità del mandato non era l’esecuzione di una pena, ma la necessità di procedere all’interrogatorio dell’indagato per poter esercitare l’azione penale nei suoi confronti per reati di truffa, falso e insolvenza fraudolenta.

La Corte di Appello di Genova, in sede di rinvio dopo un precedente annullamento della Cassazione, aveva disposto la consegna dell’uomo. Contro questa decisione, l’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando tre principali motivi di doglianza.

I Motivi del Ricorso: Garanzie, Proporzionalità e Radicamento

La difesa ha articolato il ricorso su tre punti fondamentali:

1. Violazione delle garanzie giurisdizionali: Si contestava che il mandato di arresto nazionale ungherese, emesso da un’autorità amministrativa e convalidato dal Pubblico Ministero, non fosse appellabile. Questa assenza di un mezzo di impugnazione, secondo il ricorrente, violava i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
2. Violazione del principio di proporzionalità: L’indagato sosteneva che le esigenze processuali ungheresi avrebbero potuto essere soddisfatte con uno strumento meno invasivo, come l’Ordine Europeo di Indagine (OEI), per svolgere un interrogatorio in videoconferenza, specialmente dopo che egli si era dichiarato disponibile a seguito del suo arresto in Italia.
3. Rifiuto della consegna per radicamento: Infine, si chiedeva di applicare il motivo di rifiuto facoltativo previsto dalla legge, sostenendo che l’indagato avesse un solido e dimostrato radicamento nel territorio italiano da oltre cinque anni, con famiglia e interessi stabili a Firenze.

L’importanza del mandato di arresto europeo per la giustizia

La decisione della Corte di Cassazione si è concentrata sulla natura e la finalità del mandato di arresto europeo nel caso specifico. I giudici hanno chiarito che, quando il MAE è emesso per consentire l’esercizio dell’azione penale, la sua funzione è assimilabile a un ordine di comparizione coattivo, non a una misura cautelare detentiva.

Questa distinzione è fondamentale per valutare il rispetto delle garanzie difensive. Se lo scopo è portare la persona davanti al giudice per avviare il processo, le tutele si esplicano pienamente durante il procedimento stesso.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi.

Sul primo punto, relativo alla mancanza di impugnazione del mandato nazionale, la Corte ha spiegato che la natura puramente procedurale dell’atto giustifica l’assenza di un autonomo mezzo di ricorso. L’obiettivo era garantire la presenza dell’indagato per l’interrogatorio e l’avvio del processo, non limitarne la libertà a fini cautelari. I diritti dell’indagato sono pienamente tutelati nella successiva fase processuale, dove potrà difendersi nel merito. La Corte ha richiamato la giurisprudenza consolidata, sia nazionale che europea (inclusa una sentenza della Corte di Giustizia UE), che legittima il MAE emesso per queste finalità.

In merito al secondo motivo, sulla proporzionalità, i giudici hanno osservato che l’autorità ungherese aveva giustificato il mancato ricorso all’OEI a causa della precedente irreperibilità dell’indagato. La sua successiva disponibilità, manifestata solo dopo l’arresto, è stata ritenuta tardiva e non idonea a garantire la sua futura collaborazione. Inoltre, la finalità del MAE non era un semplice atto istruttorio (come un interrogatorio), ma l’instaurazione del rapporto processuale, un obiettivo che l’OEI non può raggiungere.

Infine, riguardo al terzo motivo, la Corte ha definito la censura manifestamente infondata. Sulla base degli accertamenti svolti, la Corte di Appello aveva correttamente escluso la prova di un radicamento effettivo e continuativo nel territorio nazionale per il periodo richiesto dalla legge. Le informazioni raccolte non dimostravano un legame di convivenza stabile con la famiglia in Italia, requisito essenziale per poter applicare il motivo di rifiuto della consegna.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa sentenza ribadisce alcuni principi chiave in materia di cooperazione giudiziaria europea:

1. Distinzione tra MAE processuale e cautelare: La legittimità di un mandato di arresto europeo e le garanzie richieste dipendono strettamente dalla sua finalità. Se serve per avviare un processo, le garanzie si realizzano all’interno di quel processo.
2. La proporzionalità va valutata ex ante: La scelta dello strumento di cooperazione (MAE vs. OEI) deve essere valutata in base alla situazione esistente al momento dell’emissione, come l’irreperibilità dell’indagato. La disponibilità manifestata ex post non è sufficiente a renderlo sproporzionato.
3. Il radicamento richiede prove solide: Per ottenere il rifiuto della consegna, non basta una mera residenza anagrafica, ma è necessario dimostrare un legame effettivo, stabile e continuativo con il territorio italiano, inclusa la convivenza con i familiari.

È valido un mandato di arresto europeo basato su un provvedimento nazionale non appellabile?
Sì, secondo la Corte è valido se la sua finalità non è cautelare (cioè non mira a prevenire il pericolo di fuga o inquinamento probatorio), ma puramente procedurale, come quella di consentire l’interrogatorio dell’indagato per l’esercizio dell’azione penale. In questo caso, le garanzie difensive sono assicurate dalla partecipazione al successivo processo.

Si può chiedere di sostituire un mandato di arresto europeo con un interrogatorio in videoconferenza (OEI) dopo essere stati arrestati?
No, la valutazione sulla proporzionalità dello strumento va fatta con riferimento al momento dell’emissione del mandato. Se in quel momento la persona era irreperibile, l’uso del MAE è giustificato. Una disponibilità a collaborare manifestata solo dopo l’arresto è considerata tardiva e non sufficiente a far revocare il mandato, poiché non garantisce la futura presenza dell’indagato.

La residenza stabile in Italia impedisce sempre l’esecuzione di un mandato di arresto europeo?
No, non sempre. L’articolo 18-bis della legge 69/2005 prevede un motivo di rifiuto facoltativo se la persona risiede o dimora effettivamente e ininterrottamente da almeno cinque anni in Italia. Tuttavia, questo ‘radicamento’ deve essere provato in modo solido e non si basa sulla sola residenza anagrafica, ma su legami concreti come la convivenza con il nucleo familiare. Se tale prova manca, i giudici possono disporre la consegna.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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