Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 14760 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 14760 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 11/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato il 7/09/1986 in Romania avverso la sentenza del 11/03/2025 della Corte di appello di Roma
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME che ha insistito sui motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Roma ha ordinato la consegna di NOME all’Autorità Giudiziaria Rumena, in quanto colpito da mandato di arresto europeo processuale n. 17/UP emesso il 14 novembre 2025 dalla Corte di Patarlagele per avere minacciato di morte un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, il 2 novembre 2024 (reato previsto dall’art. 223, paragrafo 2, del Codice penale rumeno).
La Corte di appello territoriale ha osservato che mancano, nel caso di specie, i presupposti che consentano il richiamo alla disposizione di cui all’art 19, comma 2, I. 69/2005, afferente alla effettiva legittima residenza o dimora in Italia per un periodo pari ad almeno un quinquennio ai fini dell’eventuale condizione di rinvio in Italia per l’esecuzione della pena eventualmente inflitta all’arrestato all’esito del procedimento pendente in Romania nei di lui confronti; ciò a fronte della assenza dei concreti indicatori previsti dall’art. 18-bis, comma 2-bis, I. cit., sintomatici dell’effettivo radicamento del soggetto sul territorio italiano, stante l’assenza di comprovati punti di riferimento socio familiari, logistici e lavorativi i favore dell’interessato sul territorio italiano. Sul punto viene evidenziato che, come emerge dallo stesso verbale di arresto, lo COGNOME risulta essere residente in Romania, nonché titolare di carta di identità rilasciata dalle autorità rumene il 3 febbraio 2017, e, sebbene in sede di convalida abbia dichiarato di essere di fatto domiciliato a Viterbo presso l’azienda agricola per cui lavora come bracciante, ove vive come ospite senza pagare affitto, tali dichiarazioni non sono supportate da documentazione idonea a comprovarlo, e pertanto, non sono sufficienti ai fini del riconoscimento del radicamento dello Stoian nel territorio italiano. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Avverso la sentenza ricorre per cassazione COGNOME deducendo i motivi di annullamento di seguito sintetizzati ex art. 173 disp att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge in relazione all’applicazione della misura cautelare.
I Giudici hanno erroneamente ritenuto che non vi fosse prova adeguata della stabile residenza del ricorrente in Italia; ciò, nonostante la difesa avesse allegato la dichiarazione di ospitalità del suo datore di lavoro, l’estratto conto Inps e la ricevuta del contratto di lavoro. Tali documenti attestano inequivocabilmente il legame di Stoian con il territorio italiano e il suo impiego presso un’azienda agricola.
La custodia cautelare appare misura eccessiva e non necessaria. La difesa aveva richiesto misure alternative meno afflittive come gli arresti domiciliari, che avrebbero, comunque, garantito la sua presenza durante il processo senza ricorrere alla detenzione in carcere. La Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che il rischio di irreperibilità fosse elevato, senza considerare che NOME ha una residenza stabile e un lavoro regolare.
2.2. Violazioni di legge in relazione alla mancanza di informazioni essenziali circa la pena inflitta, il numero e la data della sentenza.
La mancanza di traduzione ufficiale degli atti dal rumeno all’italiano e della documentazione integrativa preclude alla difesa la possibilità di comprendere pienamente l’accusa nei confronti del proprio assistito.
2.3. Violazione di legge in relazione all’art. 3 CEDU.
La Corte di appello ha omesso di considerare che le condizioni carcerarie in Romania, in particolare nei penitenziari Craiova e Ploiesti, sono notevolmente critiche, con sovraffollamento, carenza di strutture igieniche adeguate e violenze da parte del personale penitenziario.
2.4. Violazione di legge in relazione all’art. 13 della Costituzione.
La Corte d’appello ha ignorato il termine di 30 giorni fissato dalle autorità rumene nel provvedimento di arresto, oltre il quale il ricorrente è stato trattenuto senza che vi fosse alcuna giustificazione legale o motivazione giuridica a supporto della proroga della misura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
Il primo motivo contiene censure, in parte non devolute innanzi alla Corte di appello e, in parte, generiche.
Occorre evidenziare che le questioni aventi ad oggetto l’eccessività della misura cautelare sono già state respinte dalla Corte di appello e, successivamente, non hanno formato oggetto di doglianza in occasione dell’udienza celebratasi 1’11 marzo 2025, essendo, in tale sede, stato eccepito unicamente il superamento del termine di 30 giorni di sottoposizione alla misura dal momento dell’arresto come disposto dal provvedimento dell’autorità rumena.
La Corte di appello ha, comunque, puntualmente sottolineato che la durata della misura cautelare in Romania è materia che spetta alle autorità dello Stato richiedente valutare, mentre i termini indicati nel provvedimento cautelare
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rumeno, iniziano a decorrere, per costante giurisprudenza di legittimità, dalla data di consegna alla autorità richiedente.
Tale considerazione vale anche in relazione al quarto motivo di ricorso che ripropone la censura.
Il secondo motivo, avente ad oggetto la mancata indicazione circa la pena inflitta, il numero e la data della sentenza è eccentrico, posto che trattasi di m.a.e. processuale e, nei confronti del ricorrente, non è ancora stata emessa alcuna sentenza. Quanto alla mancata traduzione degli atti nell’interesse del difensore, occorre evidenziare che il m.a.e. è stato regolarmente tradotto in italiano (Sez. 6, n. 44933 del 01/12/2021, COGNOME, non mass.; Sez. 6, n. 17306 del 20/3/2007, COGNOME Rv. 236582), e che, dalla lettura dello stesso, risultano soddisfatti – nella fattispecie – gli specifici criteri dettati dall’a comma 1, lett. d) I. 69/2005.
4.11 motivo afferente al trattamento penitenziario è inammissibile perché proposto per motivi non consentiti.
La legge n. 69 del 2005, come modificata dall’art. 18, comma 1, lett. a) del d. Lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, non solo ha circoscritto i motivi del ricorso in cassazione avverso il provvedimento che decide sulla consegna alle ipotesi di difetto di giurisdizione e di violazione di legge (art. 606, lett. a, b, c, cod. pro pen.), escludendo il vizio di motivazione (Sez. 6, n. 41074 del 10/11/2021, Huzu, Rv. 282260; Sez. 6, n. 8299 del 08/03/2022, Rv. 282911), ma soprattutto ha eliminato la possibilità di impugnare “nel merito” la decisione della Corte di appello sulla consegna dell’interessato. La nozione di “violazione di legge” è stata da tempo fissata dalla giurisprudenza di legittimità, escludendo che in essa possano rientrare i vizi logici della motivazione (da denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e dell’art. 606 cod. proc. pen.), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, COGNOME, Rv. 226710; Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246). Ebbene, il ricorrente non rimprovera alla Corte di appello di avere disapplicato o fatto erronea applicazione di un determinato principio di legge o di uno specifico parametro normativo, bensì di avere assunto determinazioni, asseritamente erronee – secondo il ricorrente – sulla base del documento trasmesso dalle autorità dello Stato di emissione e di altra documentazione prodotta. Quel che è sufficiente rilevare è che la Corte di appello ha effettuato l’indagine mirata già delineata da questa Corte sin dalla sentenza COGNOME (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Rv. 267296), acquisendo dallo Stato emittente le informazioni complementari necessarie per verificare le condizioni
“individualizzate” circa il trattamento penale cui concretamente il consegnando sarà sottoposto (non rilevando invero il mero pericolo “astratto” di violazione dell’art. 3 CEDU) e sulla base di esse – delle quali è tenuta a prendere atto senza pretendere garanzie di sorta su loro rispetto (Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Rv. 269211) – ha motivatamente escluso il siffatto rischio. Sulla base dei dati esposti in motivazione, non emergono vizi qualificabili come violazione di legge, avendo la Corte di appello indicato le informazioni fornite dalle autorità rumene sul trattamento carcerario, e sottolineato la esaustività delle stesse che forniscono completa risposta alle criticità evidenziate dal comitato per la prevenzione della tortura, venendo indicati anche gli istituti di custodia presso i quali il prevenuto potrebbe essere ristretto.
La sentenza impugnata ha, infine, puntualizzato che la circostanza che nel rapporto del CPT gli istituti di pena di Craiova e Ploiesti non siano individuati tra quelli per i quali vi sono criticità particolari, è indicativa dell’assenza di una esposizione specifica a fattori di inidoneità del luogo di detenzione.
Sulla base di quanto premesso, risultano anche inammissibili le produzioni documentali effettuate in questa sede dal ricorrente che mirano in definitiva a rimettere in discussione la valutazione compiuta dalla Corte di appello (che in ogni caso non doveva investire l’intero sistema carcerario rumeno, ma soltanto lo specifico trattamento riservato al ricorrente). Né possono essere avanzate altre critiche al provvedimento impugnato, fuoriuscendo le stesse dai limiti del devoluto del ricorso principale e comunque essendo travolte dall’inammissibilità di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen.
5.Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. Considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della Cassa delle ammende.
La Cancelleria provvederà alle comunicazioni di rito.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 22, comma 5, legge n. 69 del 2005.
Così deciso il 11 aprile 2025
Il Consig estensore
Il Presi ente