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Mandato a impugnare: inammissibile appello senza

La Corte di Cassazione conferma l’inammissibilità di un appello proposto nell’interesse di un’imputata giudicata in assenza. La decisione si fonda sulla mancata presentazione di uno specifico mandato a impugnare, rilasciato dal difensore dopo la sentenza di primo grado, come richiesto dalla recente riforma processuale (art. 581, co. 1-quater c.p.p.). La Corte ha respinto le questioni di legittimità costituzionale, ritenendo la norma una scelta legislativa ragionevole per garantire la volontà effettiva dell’imputato di appellare.

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Pubblicato il 28 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Mandato a impugnare: l’appello è inammissibile senza

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 23909 del 2024, ha ribadito un principio fondamentale introdotto dalla Riforma Cartabia: per l’imputato giudicato in assenza, l’appello proposto dal difensore è inammissibile se non è accompagnato da uno specifico mandato a impugnare rilasciato dopo la sentenza. Questa decisione chiarisce la portata di una norma volta a garantire che l’impugnazione sia frutto di una scelta consapevole e personale dell’interessato, sollevando importanti questioni pratiche per la difesa tecnica.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da una condanna emessa dal Tribunale di Bologna per il reato di tentato furto. La persona imputata era stata giudicata in assenza e condannata a una pena pecuniaria. Il suo difensore di fiducia ha successivamente proposto appello contro la decisione di primo grado.

La Decisione della Corte di Appello

La Corte di appello di Bologna, tuttavia, non è entrata nel merito della questione. Ha dichiarato l’impugnazione inammissibile. La ragione era puramente procedurale: il difensore non aveva depositato, insieme all’atto di appello, uno specifico mandato a impugnare, rilasciato dalla sua assistita dopo la pronuncia della sentenza di condanna. Questo adempimento è espressamente richiesto dall’art. 581, comma 1-quater, del codice di procedura penale, una norma introdotta per i procedimenti in cui l’imputato è assente.

L’Analisi della Cassazione e la validità del mandato a impugnare

Il difensore ha presentato ricorso in Cassazione, basandosi su due motivi principali:

1. Erronea applicazione della legge processuale: Secondo la difesa, l’imputata aveva già eletto domicilio fin dalle prime fasi del procedimento. Questa elezione di domicilio avrebbe dovuto essere considerata sufficiente a manifestare la sua volontà di ricevere comunicazioni e, implicitamente, a delegare la difesa per le fasi successive, inclusa l’impugnazione.
2. Questione di legittimità costituzionale: La difesa ha sostenuto che la nuova norma fosse irragionevole e sproporzionata, violando il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza e il principio di parità tra le parti. La richiesta di un nuovo mandato, secondo il ricorrente, svuoterebbe il ruolo della difesa tecnica e creerebbe una disparità di trattamento rispetto all’imputato presente, il cui difensore può impugnare autonomamente.

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi, confermando la decisione di inammissibilità.

Le Motivazioni della Sentenza

La Suprema Corte ha chiarito in modo definitivo la ratio della norma. L’art. 581, comma 1-quater, c.p.p. stabilisce un requisito formale inderogabile: per l’imputato assente, l’atto di impugnazione del difensore deve essere accompagnato, a pena di inammissibilità, da un mandato specifico rilasciato dopo la sentenza. Questo significa che qualsiasi precedente elezione di domicilio è irrilevante ai fini della validità dell’appello.

Secondo i giudici, questa non è una scelta irragionevole del legislatore. Al contrario, è volta a garantire che l’impugnazione derivi da “un’opzione ponderata e personale della parte”. In altre parole, la legge vuole la certezza che l’imputato assente sia venuto a conoscenza della sentenza di condanna e abbia personalmente deciso di contestarla. Si tratta di un meccanismo per assicurare il contatto effettivo tra difensore e assistito dopo la condanna, evitando impugnazioni presentate in automatico senza un confronto sul merito della decisione.

La Corte ha inoltre escluso l’illegittimità costituzionale, citando precedenti giurisprudenziali. La norma non limita il diritto di difesa, ma ne disciplina le modalità di esercizio in una situazione particolare (l’assenza dell’imputato), bilanciando la tutela dell’imputato con l’efficienza processuale. I correttivi previsti, come l’ampliamento dei termini per impugnare e la restituzione nel termine, offrono garanzie adeguate.

Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento rigoroso sull’applicazione delle nuove norme processuali per l’imputato assente. Per i difensori, emerge la necessità assoluta di ottenere un nuovo e specifico mandato a impugnare dal proprio assistito dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado. Non è più sufficiente il mandato originario o la precedente elezione di domicilio. Questa pronuncia sottolinea come la Riforma Cartabia abbia voluto rafforzare la partecipazione, anche se mediata, dell’imputato alle scelte processuali che lo riguardano, imponendo un onere formale il cui mancato rispetto ha conseguenze definitive come l’inammissibilità dell’appello.

Perché l’appello è stato dichiarato inammissibile?
L’appello è stato dichiarato inammissibile perché il difensore dell’imputata, giudicata in assenza, non ha depositato uno specifico mandato a impugnare rilasciato dalla sua assistita dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, come richiesto dall’art. 581, comma 1-quater, del codice di procedura penale.

Una precedente elezione di domicilio è sufficiente per autorizzare il difensore a impugnare?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che la precedente elezione di domicilio è irrilevante ai fini del rispetto del requisito specifico del mandato post-sentenza. La norma richiede un atto formale e successivo alla condanna per garantire la volontà attuale e personale dell’imputato di appellare.

La norma che richiede un mandato specifico per l’imputato assente è costituzionale?
Sì. Secondo la giurisprudenza citata dalla Corte, si tratta di una scelta legislativa non manifestamente irragionevole, finalizzata a limitare le impugnazioni che non derivano da una decisione ponderata e personale della parte. Non viola il diritto di difesa, ma ne regola l’esercizio in una specifica situazione processuale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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