Maltrattamento animali: quando la sofferenza esclude la non punibilità
Il tema del maltrattamento animali è sempre più al centro del dibattito giuridico e sociale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito un’importante chiarificazione sui limiti di applicazione della causa di non punibilità per ‘particolare tenuità del fatto’ (art. 131-bis c.p.) in questi casi. La Suprema Corte ha stabilito un principio netto: quando la sofferenza inflitta all’animale è grave, non c’è spazio per considerare il fatto come ‘tenue’ e, di conseguenza, per escludere la punizione.
Il caso in esame
I fatti alla base della decisione riguardano la condanna di una persona per aver detenuto il proprio cane meticcio in condizioni del tutto incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze. L’animale era stato trovato legato con un guinzaglio talmente corto da impedirgli quasi ogni movimento, senza acqua a disposizione, assetato e affamato. Era costretto a vivere in uno spazio angusto, sporco di urina e feci, per molte ore e senza alcuna assistenza. A seguito di questa prolungata condizione, il cane aveva anche iniziato a zoppicare.
Il Tribunale di primo grado aveva condannato l’imputata al pagamento di un’ammenda di 5.000 euro. Contro questa decisione, la difesa aveva proposto ricorso in Cassazione, basandosi su tre motivi principali: il mancato proscioglimento per particolare tenuità del fatto, il diniego delle attenuanti generiche e la presunta eccessività della pena.
La decisione della Cassazione sul maltrattamento animali
La Corte di Cassazione ha rigettato completamente le argomentazioni della difesa, dichiarando il ricorso manifestamente infondato e quindi inammissibile.
I Giudici hanno smontato la tesi difensiva secondo cui si sarebbe trattato di un episodio isolato e di una responsabilità meramente colposa. Al contrario, le prove raccolte, incluse le testimonianze, hanno dimostrato una condizione di sofferenza acuta e consapevole.
La Corte ha sottolineato che la gravità della sofferenza patita dall’animale è un elemento che, di per sé, è ‘intrinsecamente incompatibile’ con il concetto di ‘particolare tenuità del fatto’. In altre parole, non si può definire lieve un comportamento che causa un dolore significativo a un essere vivente.
Le motivazioni della Corte
La motivazione della sentenza è chiara e diretta. La Corte ha spiegato che la prospettazione difensiva, che tentava di minimizzare l’accaduto come un singolo episodio di negligenza, tralasciava gli elementi più gravi emersi durante il processo: la sete, la fame, la sporcizia e la menomazione fisica (la zoppia) causata dalla posizione innaturale. Questi elementi, nel loro complesso, delineano un quadro di sofferenza che non può essere liquidato come irrilevante.
Inoltre, è stato respinto l’argomento relativo al diniego delle attenuanti generiche. La difesa aveva fatto leva sull’incensuratezza della persona e sull’occasionalità del fatto. Tuttavia, la Corte ha valorizzato un altro elemento: la consapevolezza del pregiudizio che l’animale avrebbe subito. Secondo quanto accertato, la proprietaria aveva affidato il cane a un’altra persona pur essendo pienamente cosciente delle conseguenze negative che ne sarebbero derivate.
Le conclusioni
Questa pronuncia rafforza la tutela giuridica degli animali e invia un messaggio inequivocabile: il maltrattamento animali che provoca gravi sofferenze non sarà tollerato né considerato un reato minore. La decisione della Cassazione stabilisce un importante precedente, chiarendo che la valutazione della ‘tenuità del fatto’ deve tenere conto in modo primario del grado di sofferenza inflitta. La condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle Ammende a carico della ricorrente suggella la serietà con cui l’ordinamento giuridico intende affrontare e punire questi comportamenti.
Quando il maltrattamento di animali può essere considerato un fatto di ‘particolare tenuità’ non punibile?
Secondo la sentenza, non può mai essere considerato di ‘particolare tenuità’ quando è accertata una grave sofferenza dell’animale, poiché tale condizione è intrinsecamente incompatibile con la lievità del fatto richiesta dalla norma (art. 131-bis c.p.).
Quali elementi ha considerato la Corte per confermare la condanna per maltrattamento animali?
La Corte ha basato la sua decisione sulle condizioni concrete in cui versava l’animale: era legato con un guinzaglio cortissimo, privato di acqua, affamato, viveva in uno spazio angusto e sporco di deiezioni, e aveva sviluppato una zoppia a causa della posizione scorretta tenuta per lungo tempo.
Perché il ricorso dell’imputata è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le argomentazioni presentate sono state ritenute manifestamente infondate e inconsistenti. La difesa tentava di ottenere una nuova valutazione dei fatti, cosa non permessa in sede di Cassazione, e la Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza impugnata logica, coerente e priva di contraddizioni.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 7032 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 7032 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso di NOMECOGNOME nata in Ecuador il 17/11/1990, avverso la sentenza in data 19/03/2024 del Tribunale di Genova, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 19 marzo 2024 il Tribunale di Genova ha condannato l’imputata alle pene di legge per il reato dell’art. 727, secondo comma, cod. pen., perché deteneva il cane meticcio in condizioni incompatibili con la sua salute e produttive di gravi sofferenze, infatti era privo d’acqua, legato a un guinzaglio corto che ne inibiva il movimento, bloccato in uno spazio angusto coperto di urina e feci, per numerose ore e senza assistenza.
L’imputata articola tre motivi di ricorso per cassazione per violazione di legge e vizio di motivazione, il primo relativo al mancato proscioglimento ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.; il secondo relativo al diniego delle generiche; il terzo relativo alla determinazione della pena.
I
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
La ricorrente ha affermato che dalla motivazione della sentenza erano emersi i presupposti del proscioglimento ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., che le era stato illegittimamente negato: l’episodio era stato isolato e il cane era accudito normalmente, era stata ravvisata una responsabilità colposa e non dolosa, le era stato riaffidato il cane. La prospettazione difensiva coglie solo alcuni profili e ne tralascia altri ben più pregnanti. Il Giudice ha accertato sulla base della testimonianza dell’ispettore NOME COGNOME e del volontario della croce gialla NOME COGNOME che il cane si trovava legato con un guinzaglio talmente corto che non poteva girare su stesso, una volta liberato aveva zoppicato a causa della posizione scorretta tenuta per lungo tempo, era assetato, affamato, viveva in una condizione di grave sporcizia e c’era del cibo avariato in casa e nella ciotola per cani. Ha irrogato la pena di euro 5.000 di ammenda, tenuto conto della condizione di particolare sofferenza e del fatto che si era trattato “verosimilmente” di un episodio isolato e che “per quanto noto” il cane era accudito normalmente. Tale motivazione non è manifestamente illogica o contraddittoria per cui sia la terza doglianza sull’entità della pena sia la prima sul diniego del proscioglimento sono inconsistenti. L’accertata grave sofferenza dell’animale è intrinsecamente incompatibile con il fatto di particolare tenuità.
Del pari inconsistente è la seconda censura sul diniego delle generiche perché la ricorrente ha dedotto in suo favore circostanze in parte irrilevanti, l’incensuratezza e il contegno processuale, in parte disancorate dalle emergenze processuali, l’occasionalità del fatto e le ottime condizioni di vita del cane, quando il Giudice ha accertato che la donna lo aveva affidato a un amico nella perfetta consapevolezza del pregiudizio che avrebbe subito.
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata, in ragione della consistenza della causa di inammissibilità del ricorso, in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende Così deciso, il 22 ottobre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente