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Irreperibilità condannato: legittimo il rigetto

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione di un Tribunale di Sorveglianza, dichiarando inammissibile il ricorso di un soggetto contro il diniego dell’affidamento in prova. La decisione si fonda sulla corretta valutazione dell’irreperibilità del condannato, supportata da verbali ufficiali di vane ricerche. L’appello è stato qualificato come una mera contestazione dei fatti, non ammissibile in sede di legittimità.

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Pubblicato il 27 ottobre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Irreperibilità del condannato e rigetto dell’affidamento in prova: l’analisi della Cassazione

Quando un condannato chiede di accedere a una misura alternativa al carcere come l’affidamento in prova, le autorità devono poterlo rintracciare per avviare il programma. Ma cosa succede se la persona risulta irreperibile? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta proprio il tema dell’irreperibilità condannato, stabilendo chiari limiti alla possibilità di contestare la decisione del giudice basata su ricerche infruttuose.

I fatti del caso: la richiesta di affidamento e il diniego

Un uomo, condannato a una pena di undici mesi e dodici giorni di reclusione, presentava un’istanza al Tribunale di Sorveglianza per ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale. Questa misura gli avrebbe permesso di scontare la pena fuori dal carcere, seguendo un percorso di reinserimento.

Tuttavia, il Tribunale di Sorveglianza rigettava la richiesta. La ragione principale del diniego era la sostanziale irreperibilità condannato: le autorità non erano riuscite a rintracciarlo per le necessarie valutazioni.

Il ricorso in Cassazione e l’irreperibilità del condannato

L’uomo, tramite il suo difensore, decideva di ricorrere in Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale. La difesa sosteneva che non si trattasse di una vera e propria irreperibilità, ma piuttosto di una “mera difficoltà o mancanza di diligenza” da parte delle forze dell’ordine incaricate delle ricerche.

La contestazione delle ricerche

Secondo il ricorrente, le ricerche non erano state condotte in modo approfondito. In particolare, si lamentava l’omessa ricerca sia presso la residenza anagrafica sia presso il datore di lavoro. Sosteneva inoltre che il suo diritto di difesa fosse stato compromesso, poiché era stata negata la richiesta di rinvio dell’udienza in cui si discuteva la sua istanza. Queste argomentazioni miravano a dimostrare una violazione procedurale, nello specifico dell’art. 159 del codice di procedura penale.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. Secondo i giudici supremi, le critiche mosse dal ricorrente non sollevavano questioni di legittimità, ma si limitavano a contestare la valutazione dei fatti già operata dal Tribunale di Sorveglianza.

Le motivazioni

La Corte ha sottolineato che le censure del ricorrente rappresentavano una “mera doglianza confutativa”, ovvero un tentativo di rimettere in discussione l’accertamento dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità. Il Tribunale di Sorveglianza, infatti, aveva basato la sua decisione su elementi concreti e documentati. In particolare, la sua motivazione faceva esplicito riferimento a due atti:

1. Il verbale di vane ricerche redatto dai Carabinieri in data 25/11/2022.
2. Gli esiti di un’informativa degli stessi militari datata 05/12/2022.

Questi documenti, secondo la Cassazione, costituivano una base solida e sufficiente per concludere che le ricerche erano state effettivamente inutili. La motivazione del provvedimento impugnato è stata quindi ritenuta congruente, logica e, di conseguenza, non censurabile in sede di legittimità. Di fronte a prove documentali dell’infruttuosità delle ricerche, la semplice affermazione di una “mancanza di diligenza” non è sufficiente per invalidare la decisione del giudice.

Le conclusioni

L’ordinanza ha delle implicazioni pratiche importanti. In primo luogo, ribadisce che il giudizio di Cassazione non è una terza istanza di merito dove si possono riesaminare i fatti. In secondo luogo, chiarisce che la valutazione dell’irreperibilità di un condannato, se fondata su atti ufficiali come i verbali di vane ricerche, è difficilmente contestabile se non si evidenziano palesi vizi logici o violazioni di legge. Infine, la declaratoria di inammissibilità comporta, come previsto dall’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, in questo caso fissata in tremila euro.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione del giudice sull’irreperibilità di un condannato?
No, se la contestazione si limita a una diversa interpretazione dei fatti, come l’efficacia delle ricerche svolte. La Corte di Cassazione ha chiarito che un ricorso basato su una mera “doglianza confutativa” dei fatti, senza evidenziare vizi di legittimità o palesi illogicità nella motivazione, è inammissibile.

Quali documenti sono sufficienti a provare l’irreperibilità di un soggetto ai fini di una decisione?
Secondo l’ordinanza, il contenuto di un verbale di “vane ricerche” e gli esiti di un’informativa redatta dalle forze dell’ordine sono elementi sufficienti per fondare una decisione che accerti l’irreperibilità e l’inutilità di ulteriori ricerche.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
La dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, come in questo caso, al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, determinata dal giudice ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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