Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 22865 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 22865 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GENTILE NOME nato a CATANZARO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 27/03/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 27 marzo 2023, la Corte di appello di Catanzaro ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME volta ad ottenere la liquidazione dell’equa riparazione per l’ingiusta privazione della libertà personale subìta dal 21 luglio 2011 al 26 ottobre 2012.
Come emerge dalla lettura dell’ordinanza, tale rij privazione della libertà personale (custodia in carcere dal 21 luglio 2011 al 23 gennaio 2012; arresti domiciliari dal 24 gennaio 2012 al 26 ottobre 2012) fu eseguita e mantenuta per la ritenuta esistenza di gravi indizi del concorso nei reati di estorsione aggravata (capo A) tentata estorsione aggravata (capo B) e sequestro di persona (capo C) in danno di NOME COGNOME.
Da questi reati – in ipotesi accusatoria commessi in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME – NOME COGNOME e i coimputati furono assolti dal Tribunale di Catanzaro, con sentenza in data 8 novembre 2013, «perché il fatto non sussiste». La sentenza di assoluzione fu impugnata dalla Pubblica accusa e la Corte di appello, ritenuto che il fatto fosse diverso da come contestato, con sentenza del 12 maggio 2016, dispose la restituzione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale. Questa sentenza fu impugnata dal Procuratore generale presso la Corte di appello e dagli imputati e fu annullata dalla Corte di cassazione in data 28 marzo 2017. Il 10 gennaio 2018, giudicando in sede di rinvio, la Corte di appello di Catanzaro ha confermato l’assoluzione. Il ricorso proposto contro la sentenza pronunciata in sede di rinvio è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di cassazione con sentenza del 30 maggio 2019. Pertanto, l’assoluzione è diventata definitiva. L’istanza volta ad ottenere la liquidazione dell’equa riparazione per l’ingiusta privazione della libertà personale è stata depositata il 31 gennaio 2020 entro il termine previsto dall’art. 315 cod. proc. pen.
Come si è detto, l’assoluzione è stata pronunciata per insussistenza del fatto e ha riguardato, oltre alla posizione di NOME COGNOME, anche quelle dei coimputati NOME COGNOME e NOME COGNOME. I giudici di merito, infatti, hanno valutato inattendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, sulle quali l’accusa era principalmente fondata.
La Corte di appello ha ritenuto che COGNOME abbia contribuito, con la propria condotta, a determinare l’applicazione della misura cautelare. Ha rilevato a tal fine che, nel corso del giudizio, egli ha ammesso di essere stato presente ad incontri tra COGNOME e COGNOME nel corso dei quali il primo tenne condotte minacciose
nei confronti del secondo e di essere stato presente anche ad un incontro nel quale COGNOME tirò «due ceffoni» a COGNOME. Secondo la Corte territoriale, la condotta di COGNOME aveva «oggettivamente natura prevaricante sul COGNOME» e, con la propria presenza, COGNOME agevolò e rafforzò l’azione minacciosa del coimputato. L’ordinanza impugnata riferisce che COGNOME è stato ritenuto inattendibile per il contrasto emerso tra le sue dichiarazioni e quelle della convivente, NOME COGNOME, la quale ha parzialmente ritrattato in giudizio le dichiarazioni rese nel corso delle indagini. Sostiene, però, che i giudici della cognizione non hanno giudicato false le dichiarazioni accusatorie inizialmente rese e ritiene, pertanto, che di quelle dichiarazioni è possibile tenere conto nel giudizio per la riparazione.
Contro l’ordinanza della Corte di appello di Catanzaro, NOME COGNOME ha proposto tempestivo ricorso per mezzo del proprio difensore.
Il difensore deduce violazione di legge e vizi di motivazione osservando:
che, per escludere il diritto alla riparazione, la Corte territoriale h attribuito rilevanza alle dichiarazioni rese da COGNOME nel corso del dibattimento, ma tali dichiarazioni, essendo successive alla revoca degli arresti domiciliari, non possono avere contribuito all’applicazione e al mantenimento della misura;
che la sentenza di assoluzione ha escluso la sussistenza dei fatti perché ha ritenuto inattendibile la persona offesa e tale valutazione di inattendibilità è stata formulata perché il narrato del teste presentava «aporie e incongruenze logiche»;
che, pertanto, nel giudizio di cognizione, i fatti narrati da COGNOME sono stati ritenuti non provati, ma l’ordinanza impugnata ha considerato quei fatti ostativi al riconoscimento del diritto all’equo indennizzo.
il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Con memoria in data 19 aprile 2024 l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato nei termini di seguito specificati.
Si deve premettere che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini della sussistenza del diritto all’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606).
Nell’esaminare il provvedimento impugnato e i motivi di ricorso si deve preliminarmente ribadire che vi è totale autonomia tra il giudizio penale e il successivo giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione.
Tale autonomia è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte: Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663). Si è affermato in proposito:
che «il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, Trombetta, Rv. 256764);
che «in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante” -e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale» (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, La Fornara, Rv. 268952);
che «nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione,
ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa gra può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, che rilevi che quest’ultimo si sia definito con l’assoluzione dell’imputato base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata a diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di me valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dub (Sez. 4, n. 2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280246; nello stesso senso Sez. 4, n. 34438 del 02/07/2019, COGNOME, Rv. 276859).
4. Nel caso di specie, la Corte di appello non ha individuato quali condot ostative al riconoscimento del diritto le condotte riferite dalla persona off cui sussistenza è stata esclusa nel giudizio di cognizione, ma le condotte che, corso del dibattimento, COGNOME ha ammesso di aver tenuto. L’ordinanza impugnata riferisce, infatti (pag. 9), che COGNOME ha dichiarato di essere presente a un incontro nel quale COGNOME «aveva iniziato a “sbraitare come u animale” verso NOME e la compagna» e di essere stato presente anche «ai fatt accaduti a Roccelletta» quando COGNOME minacciò COGNOME e gli tirò «due ceffoni».
L’affermazione secondo cui, nell’escludere il diritto alla riparazione pe ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libe personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accer non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996 COGNOME, Rv. 203636) è coerente con questi principi. L’ autonomia tra i du giudizi, infatti, esclude che il dolo o la colpa grave possano essere desunt condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o n sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 198491). Proprio perché i due giudizi sono autonomi, tuttavia, il giudice della riparazione deve valut autonomamente le emergenze processuali e tale valutazione, che deve essere compiuta “ex ante”, non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della pen responsabilità. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Poiché si tratta di comportamenti che l’istante ha ammesso, la Cort territoriale ben poteva valutarne la rilevanza ai fini del riconoscimento del di all’indennizzo. Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente, n rileva che tali comportamenti siano stati ammessi in un interrogatorio successiv
all’adozione della misura cautelare. Quella misura, infatti, fu disposta perché COGNOME era gravemente indiziato di aver concorso a più condotte estorsive compiute in danno di NOME e dalle dichiarazioni che l’odierno ricorrente ha reso in udienza si desume che egli fu presente a minacce e violenze subite da NOME ad opera di COGNOME. Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto non smentiti nel corso del giudizio di cognizione fatti che, nel corso di quel giudizio, COGNOME ha ammesso e nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità può essere individuato nell’aver ritenuto che, per questa parte, i fatti che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare potessero essere valutati ai fini della riparazione. Le condotte che COGNOME ha ammesso, infatti, non sono successive, ma precedenti alla adozione della misura e non rileva che le dichiarazioni ammissive siano avvenute in epoca successiva alla revoca, atteso che esse confermano, sia pure in minima parte, il quadro indiziario sulla base del quale la misura fu disposta.
Fatta questa doverosa premessa, si deve tuttavia ribadire che nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o abbia concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito e, nel caso di specie, la Corte territoriale non si è limitata a rilevare che la presenza di COGNOME a condotte aggressive compiute da COGNOME non era stata esclusa dal giudizio di cognizione; ha anche affermato il carattere doloso o gravemente colposo di tale presenza sostenendo che, con questa condotta, COGNOME avrebbe «agevolato e rafforzato l’azione minacciosa del coimputato».
Nel giungere a questa conclusione, la Corte di appello non ha considerato che COGNOME è stato ritenuto inattendibile sicché, all’esito del giudizio di cognizione, il fatto che la persona offesa fosse stata minacciata o fatta oggetto di comportamenti violenti al fine di ottenere denaro è stato ritenuto non sussistente perché non provato e, del pari, è stato ritenutotsussistente, perché non provato, il concorso di COGNOME nelle attività estorsive.
L’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata secondo la quale le dichiarazioni di NOME non sono state considerate false, non può assumere rilievo nel senso indicato dalla Corte territoriale. Quelle dichiarazioni, infatti, sono state considerate insufficienti all’affermazione della penale responsabilità perché «non hanno trovato positivo riscontro nell’istruttoria dibattimentale» e «il narrato di NOME è risultato caratterizzato da una serie di aporie ed incongruenze logiche non argomentativamente componibili e tali da far ritenere inattendibile la sua
ricostruzione» (così recita testualmente la sentenza della Corte di appello di Catanzaro del 10 gennaio 2018), sicché la versione dei fatti fornita dalla persona offesa è stata ritenuta non provata e dalla stessa non possono essere tratti argomenti per ritenere che la condotta ammessa da COGNOME sia connotata da dolo o colpa grave.
La Corte territoriale, avrebbe dovuto muoversi all’interno di queste coordinate ermeneutiche e, pertanto, avrebbe dovuto spiegare sulla base di quali elementi la cui sussistenza sia stata accertata (o comunque non sia stata esclusa) nel giudizio di cognizione sia possibile ritenere che, avendo assistito a condotte minacciose o violente compiute da NOME COGNOME possa averle favorite o agevolate e sulla base di quali elementi, diversi da quelli che il giudizio di cognizione ha ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provati, la mera presenza ad altrui condotte aggressive possa considerarsi gravemente colposa e tale da determinare, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, «una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo» (Sez. Unite n. 43 del 13/12/1995 dep. 1996, COGNOME, Rv. 203637).
Sotto questo profilo l’argomentazione sviluppata è carente.
Se è vero, infatti, che la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’equo indennizzo, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva è pur vero che, all’esito del giudizio di cognizione, COGNOME è stato assolto per insussistenza del fatto da tutte le imputazioni a lui ascritte: dunque, non solo dalle accuse di estorsione consumata e tentata e di sequestro di persona , ma anche dall’accusa di aver provocato lesioni a COGNOME . Le condotte minacciose e violente descritte da COGNOME, dunque, pur collocate nel periodo cui si riferiscono i fatti oggetto di imputazione, non possono essere valutate come dirette ad ottenere denaro da COGNOME (perché il giudizio di cognizione ha escluso che di ciò vi sia prova) e neppure si può ritenere che i «due ceffoni» dei quali l’odierno ricorrente ha parlato siano stati causa delle lesioni contestate al capo D). In questa situazione la Corte territoriale avrebbe dovuto spiegare perché, essendo stato presente a un incontro nel quale COGNOME iniziò « a “sbraitare come un animale” verso NOME e la compagna» e a «fatti accaduti a Roccelletta» (dei quali non è indicata la data), quando COGNOME minacciò NOME e gli tirò «due ceffoni», COGNOME abbia rafforzato, conoscendola, una volontà criminosa preesistente o, in alternativa, perché egli avesse l’obbligo giuridico di impedire le condotte minacciose e violente che tollerò e perché fosse in condizioni dì farlo (sul tema dei rapporti tra connivenza e colpa grave ostativa
al riconoscimento del diritto all’indennizzo di cui all’art. 314 cod. proc. pen. cfr: Sez. 4, n. 4113 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280391; Sez. 3, n. 22060 del 23/01/2019, COGNOME, Rv. 275970; Sez. 4, n. 15745 del 19/02/2015, COGNOME, Rv. 263139; Sez. 4, n. 6878 del 17/11/2011, COGNOME, Rv. 252725 e, di recente, anche Sez. 4, n. 33999 del 14/06/2022, COGNOME, non massimata).
Per quanto esposto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catanzaro, cui deve essere demandata anche la regolamentazione tra le parti delle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso il 9 maggio 2024
Il Consigliere f ensore
Il Presid n e