Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 19435 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 19435 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DI NOME nato a PRIZZI il 03/01/1953
avverso l’ordinanza del 18/06/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME lette le conclusioni del PG, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Palermo ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata da NOME COGNOME in relazione al periodo di custodia cautelare in carcere applicata nei suoi confronti dal 28/06/2017 sino al 27/07/2020 (per complessivi 1.119 giorni), a seguito di ordinanza emessa il 28/06/2017 dal GIP presso il Tribunale di Termini Imerese nel procedimento che la vedeva indagata, in concorso con il figlio NOME COGNOME per l’omicidio pluriaggravato di NOME COGNOME (artt.61, n.5, 110, 575, 576, comma 1, n.1, in relazione all’art.61, n.2, cod.pen.) e per la rapina pluriaggravata di un fucile e relative munizioni ai danni della stessa persona offesa (artt. 61, n.5, 628, commi 1 e 3, n.1, cod.pen.), reati dai quali era stata assolta dalla Corte d’assise di Palermo ai sensi dell’art.530, comma 2, cod.pen., con pronuncia confermata dalla Corte d’assise di appello di Palermo con sentenza del 07/01/2022, divenuta irrevocabile,
La Corte d’appello, quale giudice adito ai sensi dell’art.315 cod.proc.pen., ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta attesa la sussistenza del presupposto ostativo rappresentato dalla colpa grave della ricorrente.
La Corte territoriale ha riassunto il compendio indiziario posto alla base della misura cautelare, relativa a un omicidio commesso il 16/09/2007 nei confronti di una persona offesa già legata da rapporti lavorativi con l’odierna ricorrente, quale collaboratrice domestica; ha esposto, in particolare, che il procedimento (originariamente archiviato) era stato riaperto a seguito del contenuto di alcune captazioni tra terzi soggetti e anche tra gli stessi indagati; ha riassunto il contenuto della pronuncia assolutoria, nella quale era stata evidenziata la carenza di un movente credibile e la non attendibilità del contenuto delle dichiarazioni accusatorie captate in conversazioni provenienti da NOME COGNOME sorella della ricorrente, ritenendo altresì che nelle conversazioni fra gli indagati non fosse emersa alcuna dichiarazione di valenza confessoria.
La Corte ha evidenziato peraltro alcune circostanze di fatto emerse nel corso del processo.
In particolare, ha evidenziato che – nella conversazione del 27/10/2016 tra la ricorrente e il figlio NOME COGNOME – la Di Pisa, dopo avere appreso che a quest’ultimo, nel corso dell’interrogatorio davanti al p.m., era stato offerto un bicchiere d’acqua, aveva espresso la preoccupazione che attraverso la saliva rimasta sul bicchiere sarebbe stato possibile effettuare
una comparazione con il materiale biologico rimasto sulla vittima; ha quindi dedotto che fosse incontestabile che, mediante tale condotta, la Di Pisa avesse concorso a dare causa alla misura della custodia cautelare, trattandosi di elemento sicuramente idoneo a indurre in errore l’autorità giudiziaria, essendo deducibile dal tenore della conversazione che la Di Pisa temesse gli esiti di un eventuale accertamento biologico.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore, articolando un unitario motivo di impugnazione, con il quale ha dedotto – ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e), cod.proc.pen. – la violazione dell’art.314 cod. proc. pen..
Ha dedotto che l’ordinanza impugnata non si sarebbe confrontata con l’integrale compendio indiziario originariamente posto alla base del provvedimento cautelare oltre che con la motivazione posta alla base delle due pronunce assolutorie; ha dedotto che, con valutazione parcellizzata, la Corte avrebbe valorizzato la sola conversazione sopra citata, ma senza dare rilievo al resto del dialogo, dal quale sarebbe emerso che gli indagati non avevano alcuna effettiva preoccupazione in ordine agli eventuali esiti di un accertamento biologico, in tal modo attribuendo erroneamente alla ricorrente una condotta colposa in sinergia con il provvedimento restrittivo.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Va premesso che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo la sussistenza di un comportamento – da parte dell’istante – che abbia concorso a darvi luogo con dolo o colpa grave.
In particolare, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione) o processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi), in ordine
alla cui attribuzione all’interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il giudice è tenuto a motivare specificamente (Sez.4, n.34656 del 03/06/2010, COGNOME, RV. 248074; Sez.4, n. 4372 del 21/10/2014, dep.2015, COGNOME, RV. 263197; Sez.3, n. 28012 del 05/07/2022, COGNOME, RV. 283411); in particolare, il giudice di merito, per stabilire se chi ha patito la detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez.4, n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, COGNOME, RV. 268952), con particolare riferimento alla commissione di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti (Sez.4, n.27548 del 05/02/2019, Hosni, RV. 276458).
Deve altresì essere ricordato che, sulla base dell’arresto espresso da Sez. U, n.43 del 13/12/1995, dep.1996, COGNOME, RV. 203638, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di esaminare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione; derivandone, in diretta conseguenza di tale principio, quello ulteriore in base al quale il giudice del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione può rivalutare fatti emersi nel processo penale, ivi accertati o non esclusi, ma ciò al solo fine di decidere sulla sussistenza del diritto alla riparazione (Sez.4, n.27397 del 10/Q6/2010, COGNOME, RV. 247867; Sez.4, n.3895 del 14/12/2017, dep.2018, P., RV. 271739); con il solo limite di non potere ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della
cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima, Rv. 270039).
3. In relazione ancora più specifica rispetto alla fattispecie concreta in esame deve rilevarsi come il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico; il giudice di merito deve, in modo autonomo e in modo completo, apprezzare tutti gli elementi probatori a sua disposizione e rilevare, se la condotta tenuta dal richiedente abbia ingenerato o contribuito a ingenerare, nell’autorità procedente, la falsa apparenza della configurabilità della stessa come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (Sez. U, 27/05/2010, n.32383, COGNOME, RV. 247664).
Va quindi rilevato che, al fine di valutare l’eventuale sinergia tra comportamento extraprocessuale tenuto dall’imputato e applicazione della misura cautelare, il giudice della riparazione ben può fare ricorso al contenuto di conversazioni intercettate, fatta salva l’ipotesi – non ricorrente nel caso di specie – in cui le stesse siano state dichiarate inutilizzabili in dibattimento (cfr. Sez. 4, n. 6893 del 27/01/2021, Napoli, Rv. 280935, tra le altre).
Deve quindi ritenersi che la Corte territoriale, nella propria stringata motivazione, non abbia fatto corretta applicazione dei suddetti principi, omettendo di chiarire in modo adeguato quale sia il comportamento della ricorrente effettivamente caratterizzato da colpa.
Difatti, nel corso della suddetta conversazione e sulla base del suo tenore testuale, la ricorrente ha espresso preoccupazione per il possibile esito di una comparazione tra materiale genetico appartenente al figlio; ma, in tale ambito, non si ravvisa effettivamente una condotta caratterizzata dal necessario elemento soggettivo e connotata del necessario requisito sinergico con la detenzione subìta.
Dovendosi rilevare come la Corte territoriale abbia, di fatto, rivalutato sotto il profilo previsto dall’art.314 cod.proc.pen. un elemento fattuale avente sicura valenza indiziaria ma senza specificare il necessario coefficiente psicologico; non avendo neanche adeguatamente motivato in
ordine al riflesso di tale potenziale accertamento sulla posizione personale della parte istante.
5. Per l’effetto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Palermo; il quale provvederà a specificare la valenza sinergica
del comportamento tenuto dalla ricorrente nel frangente suddetto rispetto alla detenzione sofferta.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Palermo.
Così deciso, 1’8 aprile 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente