Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20956 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20956 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a PANTELLERIA il 03/04/1960
avverso l’ordinanza del 26/09/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di Appello di Roma, con ordinanza assunta in data 26 settembre 2024, ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata dall’odierno ricorrente COGNOME NOME Pasquale in relazione alla detenzione custodiale, dapprima in carcere e poi agli arresti domiciliari da questi sofferta dal 18.3.2015 al 11.5.2015 in relazione a ipotesi di concorso nel reato di peculato in quanto, in ragione dei rapporti intrattenuti con il fratello NOME NOME e con NOME NOME, pubblico ufficiale incaricato della liquidazione della Gestione Fuori Bilancio di fondi pubblici, originariamente destinati a Particolari e Straordinarie Esigenze anche di Ordine Pubblico della città di Palermo, aveva contribuito, mediante un comportamento omissivo a determinare il depauperamento del suddetto ingente patrimonio in liquidazione, che veniva dirottato anche verso società di cui il ricorrente era socio e, in relazione ad una di esse, anche amministratore; contestazione dalla quale il ricorrente veniva assolto con sentenza del 30 giugno 2022 del Tribunale di Roma con formula ampiamente liberatoria.
2. La Corte di Appello di Roma ha rilevato che il prevenuto aveva concorso a dare causa alla detenzione in ragione di una condotta, esaltata dalle produzioni documentali e dalle stesse ammissione del ricorrente, che non era consistita soltanto nell’esercizio di una attività di consulenza finanziaria in favore della gestione liquidatoria facente capo al COGNOME promuovendo il deposito dei fondi presso istituto di credito che gli aveva corrisposto una rilevante provvigione, ma risultava avere mantenuto interessenze e partecipazioni in società che avevano beneficiato di rilevanti accrediti provenienti dalla suddetta gestione liquidatoria che, a dire del ricorrente, egli aveva accettato per compiacere il fratello, che non voleva figurare in quanto anch’esso vicino al COGNOME, e nella consapevolezza che la liquidità che affluiva nelle predette società era soltanto in transito, in quanto doveva essere trasferita in favore di terzi. I suddetti elementi, non esclusi nella sentenza assolutoria, che pure aveva escluso una complicità di NOME COGNOME nella fraudolenta attività di dispersione del suddetto patrimonio anche mediante dismissione in favore di terzi, ponevano in luce un comportamento gravemente imprudente e negligente in quanto il ricorrente, titolare di studio di commercialista, aveva accettato che lo stesso venisse indicato quale sede delle predette società e aveva altresì
acquisito partecipazioni e cariche amministrative in dette compagini ben sapendo, anche in ragione delle confidenze ricevute dal fratello, che nelle casse sociali sarebbero transitati fondi pubblici per essere poi dirottati per destinazioni e finalità ignote. In tale modo aveva serbato una condotta extra processuale che aveva indotto gli inquirenti a ritenerlo compartecipe della condotta appropriativa ascritta al COGNOME e allo stesso fratello COGNOME NOME NOME.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, NOME COGNOME articolando due motivi di ricorso.
Con il primo deduce violazione di legge con riferimento all’art.314 cod. proc. pen. assumendo che nella condotta del ricorrente non erano stati individuati profili di colpa sinergicannente collegati all’adozione della misura cautelare a fronte di quadro indiziario che era stato completamente neutralizzato dalla sentenza di assoluzione.
Con una seconda articolazione assume difetto di motivazione con riferimento alla prova dei profili soggettivi della colpa grave, quale causa ostativa alla riparazione di cui all’art.314 cod. proc. pen. e con riferimento alla prova del rapporto di causalità tra il comportamento ascritto all’istante e i fatti di reato di cui alla misura cautelare e alla sentenza di assoluzione. In particolare deduce che nessun addebito di colpa poteva essergli ascritto atteso che lo stesso, al pari di altri soggetti indagati per lo stesso reato, non aveva alcun potere di controllo sui pagamenti eseguiti dalle predette società e comunque un siffatto omesso controllo non aveva rivestito alcun rilievo sinergico, in quanto si sarebbe verificato in un momento successivo a quello in cui vi era stata distrazione del patrimonio della gestione liquidatoria del COGNOME. Nella specie, era mancata qualsiasi individuazione degli elementi caratterizzanti la colpa grave del ricorrente che avrebbe contribuito a dare luogo all’adozione della cautela nei suoi confronti.
Si è costituito il Ministero della Economia e delle Finanze depositando una memoria difensiva e chiedendo che venisse dichiarata la inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo (v. da ultimo, Sezioni unite, 28 novembre 2013, n. 51779, Nicosia). L’art.314 comma I c.p.p. prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
2. In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, rappresenta causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, COGNOME, Rv. 226004). In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a
3 GLYPH
tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13.12.1995 dep. il 9.2.1996, COGNOME ed altri, Rv. 203637).
Poiché inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (sez. 4, n. 43302 del 23.10.2008, Maisano, Rv. 242034).
La Corte territoriale, con una motivazione del tutto resistente alle censure mosse in questa sede, ha dato coerente e motivata giustificazione al proprio iter motivazionale in quanto ha ravvisato profili di colpa grave in capo al PERSICO che si si sono posti quale antecedente causale della detenzione poi risultata ingiusta, costituendo il fondamento per l’adozione della cautela nel corso delle indagini.
Invero il giudice della riparazione, con motivazione del tutto coerente sotto il profilo logico giuridico, ha stigmatizzato l’assoluta opacità dell’azione del COGNOME il quale, oltre ad avere mediato con il COGNOME una rilevante remunerazione economica per la custodia delle ingenti dotazioni patrimoniali della gestione liquidatoria da questi gestita, aveva altresì fornito la propria disponibilità al fratello a rendersi titolare di asset societari utilizzati da questi e dal COGNOME per dirottare rilevanti provviste finanziarie, che già costituivano dotazione della gestione liquidatoria, verso ulteriori soggetti dopo essere transitate sui conti delle società di cui lo stesso aveva partecipazioni nella consapevolezza, che gli derivava dalle confidenze del fratello, che quest’ultimo non avrebbe potuto figurare nelle suddette compagini, proprio in quanto coinvolto in interessenze con il COGNOME il quale, a sua volta, non avrebbe potuto investire in tali enti in quanto liquidatore della gestione.
Tale condotta, coerentemente ritenuta dal giudice della riparazione gravemente imprudente, anche per la duplicità di ruoli
assunti dal COGNOME in quanto amministratore di una di tali compagini e consulente finanziario del COGNOME, forniva l’apparenza, secondo l’apprezzamento del giudice della riparazione, logicamente motivato, di contiguità e di collaborazione, piuttosto che di mera consulenza, rispetto agli altri due imputati, avendo con essi contribuito a realizzare, seppure con un comportamento colposo, una situazione di artificiosità finanziaria, strumentale alle successive azioni appropriative del COGNOME. Invero l’apporto di consulenza finanziaria da parte del COGNOME, in una situazione di evidente antidoverosità dei soggetti che movimentavano rilevantissimi segmenti dell’ingente patrimonio dell’ente pubblico, si poneva, agli occhi degli inquirenti, quale estemporaneo e indebito ausilio a operazioni poco trasparenti, invero motivate da finalità distrattive, di trasferimento e di distrazione di imponenti risorse finanziarie, in violazione dei principi deontologici cui la funzione del COGNOME, nota al ricorrente, era preordinata.
Sotto questo profilo pertanto il percorso logico seguito dalla corte territoriale si inserisce nel tracciato della interpretazione già espressa da questa corte quando ha affermato che in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante” – e secondo un iter logicomotivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale. (Cass. sez.4, n. 9212 del 13/11/2013 Maltese).
Le argomentazioni utilizzate dal giudice della riparazione si presentano coerenti e incensurabili in sede di legittimità, laddove la Corte di Appello, per valutare se l’imputato vi abbia dato causa con dolo o colpa grave, ha correttamente apprezzato tutti gli elementi probatori disponibili, tenendo conto dei comportamenti del ricorrente che denotarono GLYPH evidente e macroscopica leggerezza, tali da essere interpretati, sul piano della riparazione, quali ipotesi di concorso o di favoreggiamento nelle illecite finalità del proprio cliente.
9. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla per le spese in favore del ministero resistente
le cui argomentazioni difensive risultano generiche e non pertinenti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese tri i ,5
processuali. hí
t Aia, ‘reit
GLYPH
eSC GLYPH
. 5’00(4)Ce, °Lei
GLYPH
GLYPH
r- :;
.
re
L
Ate,y3′
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 18 marzo 2025.