Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 25004 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 25004 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato il 21/07/1974
avverso l’ordinanza del 05/11/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG il quale ha chiesto il rigetto del ricorso. Lette le conclusioni del ministero resistente che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di Appello di Roma, con ordinanza in data 5 novembre 2024, ha rigettato la domanda di riparazione per la ingiusta detenzione sofferta da NOME per 645 giorni in relazione al reato di rapina aggravata per cui era stato arrestato in flagranza di reato in data 24 novembre 2011, reato da cui era stato definitivamente assolto dal Tribunale di Tivoli, che lo aveva invece riconosciuto colpevole del reato di lesioni in concorso, reato da cui era dichiarato il non luogo a procedere dalla Corte di appello di Roma per mancanza di querela.
La Corte di appello, oltre a rilevare che in relazione ad una porzione del periodo in cui era stato sottoposto a misura cautelare era stata già riconosciuta la fungibilità in favore del COGNOME in relazione ad altra misura detentiva, rilevava che ricorreva il presupposto ostativo alla riparazione rappresentato dalla colpa grave, laddove il COGNOME era stato riconosciuto colpevole del reato di lesioni personali in concorso ai danni della persona offesa la quale denunciava che, nella medesima occasione, era stato rapinato dai correi, e che, in occasione dell’interrogatorio di garanzia il COGNOME aveva in sostanza ammesso di avere aggredito violentemente la persona offesa provocandole lesioni personali. Tale comportamento, di natura dolosa, aveva fondatamente indotto gli inquirenti a contestare il delitto di rapina, visto che la persona offesa assumeva di essere stato, nel contesto di violenza sopra descritto, privato di effetti personali, e le sue dichiarazioni erano state riconosciute non utilizzabili in ragione della sopravvenuta impossibilità di assumere la testimonianza in sede dibattimentale per ragioni non imprevedibili.
La difesa del COGNOME, con un primo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art.314 cod. proc. pen. per assenza di dolo o colpa grave in quanto l’indagato non aveva affatto ammesso la propria responsabilità per il reato di rapina e, in relazione alle dichiarazioni rese in sede di convalida dell’arresto, le stesse non equivalevano ad una confessione, essendosi il COGNOME limitato ad affermare che si era trattato di una colluttazione.
3.1. Con ulteriore articolazione denuncia violazione del principio di non colpevolezza da cui doveva trarsi l’inferenza che il ricorrente aveva patito un lungo periodo di cautela pur essendo stato riconosciuto del tutto
estraneo ai fatti allo stesso contestati. La domanda era stata poi respinta per manifesta infondatezza, ma la Corte di appello non aveva esplicitato le ragioni del proprio convincimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L’art.314 comma I c.p.p. prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, rappresenta causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa sez. 4, n. 34181 del 5.11.2002, COGNOME, Rv. 226004).
2. Ancora le Sezioni Unite, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. Unite, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247664). E, ancora, più recentemente, il Supremo Collegio ha ritenuto di dover precisare ulteriormente che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere
i
ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. Unite, n. 51779 de 28.11.2013, Nicosia, rv. 257606).
2.1. In linea generale, va ribadito che il giudice della riparazione per l’ingiusta detenzione, al fine di stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, onde accertare – con valutazione necessariamente “ex ante” e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale .
2.2. Ai medesimi fini, inoltre, il giudice deve esaminare tutti gli elementi probatori utilizzabili nella fase delle indagini, alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati del tutto inutilizzabili ovvero siano stat esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione (cfr. sez. 4 n. 19180 del 18/02/2016, COGNOME, Rv. 266808; n. 41396 del 15/09/2016, Piccolo, Rv.268238).
2.3. Quanto alla natura del comportamento ostativo, lo stesso può essere integrato anche dalla condotta di chi, nei reati contestati in concorso, abbia tenuto, pur consapevole dell’attività criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità (cfr. sez. 4 n. 45418 del 25/11/2010, Rv. 249237; n. 37528 del 24/06/2008, Rv. 241218). Va ancora evidenziato che il comportamento ostativo alla riparazione non può essere costituito da qualsiasi violazione di vincoli giuridici o di norme deontologiche, in qualche modo collegata al fatto storico oggetto delle indagini preliminari che hanno poi condotto alla adozione della misura cautelare, ma assume rilievo esclusivamente quel comportamento che abbia contribuito a determinare un’apparenza di reità in relazione alla specifica ipotesi criminosa che ha fondato il titolo cautelare, ovvero a ipotesi di reato strettamente connessa alla prima, altrimenti non potendosi riconoscere il collegamento richiesto dall’art.314 comma 1 cod proc.pen. tra condotta colposa e adozione della cautela
(sez.4, 23/04/2015, COGNOME, Rv.264318; 26/09/2017, COGNOME, Rv.271039; 7/11/2018, COGNOME, Rv.276253).
Tanto premesso, deve rilevarsi che il percorso argomentativo seguito dal giudice della riparazione appare coerente con i principi di diritto testé richiamati in quanto, ai fini dell’esclusione della riparazione ha preso in considerazione la condotta del ricorrente nella specifica occasione in cui si era verificato il fatto lesivo della integrità fisica nei confronti della persona offesa, che aveva inoltre denunciato di avere subito una violenta spoliazione patrimoniale. Il giudice distrettuale, a tale fine, ha in primo luogo valorizzato le dichiarazioni dell’imputato in sede di convalida dell’arresto in cui sostanzialmente ammetteva di avere percosso la persona offesa nell’ambito di un serrato contraddittorio.
3.1. Sotto diverso profilo ha dato rilievo alle dichiarazioni della persona offesa che ha riconosciuto il ricorrente quale uno dei soggetti che lo aveva aggredito e tali dichiarazioni, assunte nel corso delle indagini possono essere utilizzate dal giudice della riparazione, anche se non confermate in dibattimento al quale la persona offesa si è sottratta, dovendo la condotta dell’indagato essere vagliata, ai fini della riparazione, tenendo conto degli elementi legittimamente considerati dal giudice della cautela (Sez. 4 n. 40281 del 23/05/2019, COGNOME, Rv. 278284 – 01).
Corretta è pertanto la valutazione della Corte di appello laddove ha ravvisato profili di colpa ostativa nel comportamento doloso del COGNOME il quale aveva partecipato all’aggressione della persona offesa nello stesso contesto in cui quest’ultima denunciava di essere stata privata di beni di sua proprietà, concorrendo in tal modo, con la propria azione e a prescindere dalle ragioni personali che avevano generato la violenta contrapposizione, a determinare negli inquirenti l’erroneo convincimento che il COGNOME aveva concorso anche al delitto di rapina, sui cui era stata poi fondata la misura cautelare.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato e il ricorrente va condannato alle spese processuali. Nulla sulle spese in favore del Ministero resistente le cui argomentazioni non hanno offerto alcun contributo utile alla definizione del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla sulle spese in favore del Ministero resistente.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 7 maggio 2025.