Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 23681 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 23681 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a TRANI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 07/03/2024 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 7.03.2024 la Corte d’appello di Bari ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta privazione della libertà personale con custodia in carcere dal 6.02.2014 a seguito di ordinanza Gip del Tribunale di Trani per il reato di cui all’art. 73 DPR 309/90, in concorso con altri, commesso dal 12.09.2012 al 12.02.2013 in Trani.
COGNOME era stato condannato in primo grado con sentenza del Gup del Tribunale di Trani alla pena di un anno di reclusione ed euro mille di multa, previa riqualificazione dei fatti ai sensi del comma quinto dell’art. 73 DPR 309/90 e successivamente era stato assolto dalla Corte di appello per non aver commesso il fatto con sentenza del 15.10.2019,divenuta irrevocabile.
La Corte di appello di Bari ha ritenuto sussistente la colpa grave dell’interessato ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. rilevando che egli è stato assolto per non aver commesso il fatto non essendo emersa la prova certa circa la sua partecipazione attiva, materiale o morale, all’attività di spaccio svolta dal coimputato COGNOME, condannato in via definitiva.
L’ordinanza osserva che, secondo quanto emerso nel giudizio di cognizione, COGNOME frequentava assiduamente COGNOME e COGNOME, sottoposto quest’ultimo alla sorveglianza speciale con obbligo di dimora e si metteva a disposizione degli stessi che erano dediti pacificamente all’attività di spaccio di cocaina, li raggiungeva negli immobili da loro utilizzati e guidava le loro autovetture nei vari spostamenti sul territorio.
Contro l’ordinanza, COGNOME ha proposto ricorso per mezzo del proprio difensore, deducendo erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe mal interpretato la norma che stabilisce i presupposti per l’equa riparazione e avrebbe ritenuto configurabile la colpa grave sulla base di condotte illecite ritenute escluse o comunque non sufficientemente provate dalla sentenza di assoluzione.
Con requisitoria scritta, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto il rigetto del ricorso. Analoga richiesta è stata formulata con memoria scritta dall’Avvocatura generale dello Stato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
Va premesso che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio
penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini della sussistenza del diritto all’indennizzo, peraltro, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606). Si tratta di una valutazione che va effettuata ex ante, ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
La motivazione del provvedimento impugnato sviluppa, sotto il profilo logico, un ragionamento coerente con queste premesse, non contraddittorio e scevro dai vizi che gli vengono addebitati
I giudici della ri pa razione,a invero, pur a fronte di una assoluzione dal reato continuato di spaccio, ha ritenuto, alla luce di quanto affermato dai giudici di merito, in particolare della GLYPH “capillare rilettura del contenuto dei contatti telefonici con il coimputato COGNOME che GLYPH il COGNOME fosse consapevole della dedizione del primo ad illecite attività di cessione di cocaina” e che se ciò non ha consentito di trarre alcun obiettivo elemento univocamente rivelatore non soltanto di un contributo partecipa tivo a quella attività, seppur semplicemente morale, ma addirittura della stessa effettiva inerenza di dette conversazioni a traffici di stupefacenti” (ved. pag.3 della sentenza della Corte di appello di Bari 3974/19), che proprio quel rapporto confidenziale o amichevole con un soggetto dedito e condannato in via definitiva per quell’attività di spaccio ha ingenerato colposamente la falsa apparenza del suo coinvolgimento nell’illecito penale e quindi hanno legittimato ex ante l’intervento dell’RAGIONE_SOCIALE.
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Si rammenta in proposito che, come più volte sottolineato da questa Corte di legittimità, le frequentazioni ambigue con coloro che fanno parte di una consorteria dedita a traffici illeciti, che siano idonee ad essere oggettivamente interpretate come complicità, sono segni certamente sufficienti a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare. Si tratta, invero, di condotte che, per la loro prossimità all’ambiente criminale, possono facilmente indurre l’apparenza della partecipazione al reato, e che, in quanto macroscopicamente imprudenti e causalmente connesse con la decisione adottata nei confronti dell’interessato, ben possono essere inquadrate nella colpa grave.
Le argomentazioni della Corte territoriale sul punto appaiono conformi al principio di autoresponsabilità – più volte richiamato in materia dalla Corte di legittimità – in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equ riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’autorità giudiziaria. In questo senso, è gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, ponga in essere – per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203637).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Nulla sulle spese sostenute dal Ministero resistente considerato che la memoria ha contenuto generico e non ha fornito un utile contributo alla decisione,
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 5.06.2024