Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 1871 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 1871 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a TAURIANOVA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 27/06/2022 della CORTE APPELLO di CATANZARO
svolta la relazione dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto NOME
COGNOME, con le quali si è chiesto il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Catanzaro ha rigettato l’istanza di riconoscimento di un indennizzo per la detenzione ingiustamente subita da COGNOME NOME, indagato per concorso in estorsione, aggravata ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 152/1991 e lesioni personali ai danni del denunciante COGNOME, reati dai quali era stato assolto a seguito di annullamento senza rinvio da parte della Corte di cassazione. I giudici della riparazione hanno ritenuto che l’istante avesse, nell’occorso, concorso con il suo comportamento gravamente colposo a delineare una situazione che aveva dato origine alla detenzione ingiustamente patita a causa dell’errore inegenerato nell’AG procedente, rinvenendolo nella circostanza che il NOME era stato controllato in compagnia del COGNOME, condannato per un episodio posto in essere qualche giorno prima dei fatti contestati al NOME ai danni della stessa persona offesa, le cui dichiarazioni erano state ritenute inidonee a provare, da sole, la penale responsabilità dei soggetti accusati, quanto ai restanti reati.
In particolare, pare utile, al fine di una migliore comprensione della vicenda che fa da sfondo al presente procedimento, un richiamo alle considerazioni svolte nella sentenza della Corte di cassazione dalla quale è conseguita l’assoluzione del ricorrente.
In quella sede, si era precisato che il NOME (unitamente a COGNOME NOME e altri) era stato tratto a giudizio per rispondere del reato di rapina di un computer di proprietà di COGNOME NOME (persona offesa del reato di tentata estorsione contestato, tra gli altri, anche al citato COGNOME, ma non anche al NOME), aggravata dall’art. 7 d.l. n. 152/1991 e del reato di lesioni in danno del citato COGNOME, sempre aggravato dall’art. 7 cit., in concorso, tra gli altri, con COGNOME.
Le reticenze manifestate dal teste in sede dibattimentale avevano determinato l’esito assolutorio, avendo il Tribunale condannato solo il COGNOME per il reato di tentata estorsione di cui al capo a), in quanto le dichiarazioni accusatorie rese dal COGNOME nei confronti del suddetto imputato erano COGNOME state COGNOME riscontrate COGNOME da elementi oggettivi
(la COGNOME registrazione di un colloquio telefonico Fra COGNOME il COGNOME e l’imputato e le dichiarazioni di un teste), valutando in manie frazionata la credibilità del riferito del COGNOME quanto agli episodi di ai capi b) e c), qui d’interesse.
Tale decisione era stata però ribaltata dal giudice d gravame a seguito di impugnazione del pubblico ministero, avendo quel diverso giudice valutato le successive reticenze del COGNOME alla stregua delle intimidazioni dallo stesso subite.
Nella specie, secondo il giudice dell’annullamento, il COGNOME non poteva essere considerato un “teste” indifferente proprio per il ruolo COGNOME assunto nella COGNOME vicenda processuale in esame, cosicché, pur non risultando imputato, le sue dichiarazioni COGNOME dovevano COGNOME essere COGNOME scrutinate COGNOME a COGNOME norma dell’art.192, comma 4, cod. COGNOME proc. COGNOME pen.: a fronte della valutazione del Tribunale (che aveva assolto COGNOME gli COGNOME imputati COGNOME dalle suddette imputazioni perché il referto prodotto dal COGNOME attestava solo “algia alla spalla destra e cervicalgia” e contusioni che avrebbero dovuto risultare a seguito dei riferi pugni e perché la denuncia del COGNOME non era suffragata da alcun riscontro), la Corte territoriale era andata in contrar avviso, valorizzando a titolo di riscontro le dichiarazioni dell’ispett COGNOME, il quale aveva dichiarato che, dopo la denuncia per i fatti di cui ai capi b) e c), il COGNOME aveva riferito di esser stato convoc dal COGNOME presso un bar e da un controllo effettuato era emerso che effettivamente il COGNOME era stato visto in compagnia del NOME nei pressi del luogo dell’appuntamento il 12/10/2013, ai due essendosi poi aggiunti anche il COGNOME e COGNOME NOME (figlio di NOME). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tale COGNOME giustificazione, COGNOME però, COGNOME non COGNOME poteva considerarsi rispondente al canone della motivazione rafforzata, avuto riguardo al fatto che l’episodio riferito av valenza neutra rispetto ai fatti di cui ai capi d’imputazi sub b) e c) avvenuti il 09/10/2013 e, quindi, tre gior prima, quanto al referto medico, inoltre, non avendo quel giudice opposto alcunché alla motivazione fornita dal Tribunale, essendosi limitato ad affermare in maniera apodittica che lo stesso costituiva un riscontro alla denuncia del COGNOME.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore del NOME, formulando un unico motivo, con il quale ha dedotto erronea interpretazione e applicazione dell’art. 314, cod. proc. pen. e vizio della motivazione, rilevando che l’episodio al quale il giudice della riparazione aveva accordato rilievo ai fini del riconoscimento di un comportamento ostativo aveva avuto valenza neutra rispetto ai reati contestati al NOME, come riconosciuto dal giudice di legittimità nella sentenza di annullamento. Si era trattato di un episodio accaduto tre giorni dopo rispetto agli episodi di cui alle contestazioni per le quali era intervenuto il ribaltamento del verdetto di assoluzione (capi b e c dell’imputazione), non essendo mai emersa una condotta specifica dell’istante, risultato presente nel luogo del presunto appuntamento dato alla vittima senza riscontri in ordine alla sua partecipazione all’episodio delle lesioni, egli essendo stato già assolto in primo grado dal reato di tentata estorsione del 9/10/2013.
Inoltre, la difesa ha rilevato c:he la Corte della riparazione, rigettando la relativa domanda, sarebbe andata al di là delle proprie competenze, attribuendo valore ad elementi ritenuti ininfluenti e sminuendo la circostanza che gli inquirenti avrebbero dovuto sin da subito ricercare gli elementi di riscontro alle dichiarazioni di un soggetto che non poteva essere considerato “indifferente” rispetto ai fatti denunciati.
Il Procuratore generale, in persona del sostituto NOME COGNOME, ha rassegnato proprie conclusioni, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
L’Avvocatura generale dello Stato, per il Ministero resistente, ha depositato memoria con la quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità COGNOME del COGNOME ricorso, COGNOME in COGNOME subordine COGNOME il COGNOME ricietto con COGNOME ogni conseguente statuizione per spese, diritti ed onorari del giudizio.
Considerato in diritto
Il ricorso va rigettato.
La Corte territoriale ha sostanzialmente valorizzato la circostanza che l’interessato si era trovato in compagnia del COGNOME, condannato per il tentativo di estorsione ai danni della medesima persona offesa posto in essere tre giorni dopo i fatti del 9 ottobre 2013, contestati all’istante.
Orbene, la valutazione circa l’esistenza di un comportamento gravemente negligente dell’interessato sinergicamente collegato alla restrizione della libertà personale costituisce giudizio di merito che, ove sorretto da un ragionamento congruo, logico e non contraddittorio, non censurabile è in questa sede.
Ai fini del riconoscimento delhndennizzo, peraltro, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (Sez. U, n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606). Inoltre, il giudice della riparazione per l’ingiusta detenzione, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, anc:orché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (sez. 4 n. 9212 del 13/11/2013, dep. 2014, Maltese, Rv. 259082). Nello svolgere tale verifica, peraltro, non viene in rilievo la valutazione del compendio probatorio ai fini della responsabilità penale, ma solo la verifica dell’esistenza di un comportamento del ricorrente che abbia contribuito a configurare, pur nell’errore dell’autorità procedente, quel grave quadro indiziante un suo coinvolgimento negli illeciti oggetto d’indagine. Ai medesimi fini, il giudice deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (sez. 4 n. 27458 del 05/02/2019, Hosni, R/ 276458).
In altri termini, il giudice di merito’ per stabilire se chi l’ha patita abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, co
valutazione ex ante e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016, dep. 2017, La Fornara, Rv. 268952; n. 3895 del 14/12/2017, dep. 2018, P., Rv. 271739), essendovi completa autonomia tra il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione e quello di cognizione, poiché essi impegnano piani d’indagine diversi che possono portare a conclusioni differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, il che non consente al giudice della riparazione di ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (sez. 4 n. 11150 del 19/12/2014, dep. 2015, Patanella, Rv. 262957).
Orbene, alla luce di tale premessa in diritto, deve ritenersi del tutto legittimo, nel caso all’esame, il collegamento tra un comportamento di frequentazione o connivenza all’altrui attività delittuosa, rispetto all’apparenza di un quadro che collocava il NOME nel contesto di condotte illecite ai danni dello stesso denunciante, tenuto anche conto che il quadro porbatorio era andato delineandosi all’esito dell’istruttoria, a seguito dell’indebolimento dell’apporto dichiarativo del denunciante.
Pare, inoltre, utile ricordare che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva quando, alternativamente, detto atteggiamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale volti ad impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi nel tollerare che un reato sia consumato, sempre che l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti avere oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova che egli fosse a conoscenza di tale attività (sez. 4, n. 4113 del 13/1/2021, COGNOME, Rv. 280391-01, in cui, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto immune da censure l’ordinanza che aveva ravvisato la colpa grave, ostativa alla riparazione per l’ingiusta detenzione subita per il reato di cui all’art. 73 t.u. stup., nella condotta dell’instante consistita nell’intrattenere rapporti economici con soggetto dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, e nella
sua presenza al momento in cui quest’ultimo aveva occultato lo stupefacente e durante la trattativa per l’acquisto della sostanza predetta, nonché mentre l’acquirente annusava la sostanza consegnando la banconota allo spacciatore; sez. 3, n. 22060 del 23/1/2019, COGNOME, Rv. 275970-02; sez. 4, n. 15745 del 19/2/2015, COGNOME, RV. 263139-01).
Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non anche quella alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, non avendo la memoria depositata nel suo interesse, a causa della genericità, fornito alcun contributo alla dialettica processuale (sul punto, Sez. U, n. 34559 del 26/6/2002, COGNOME, Rv. 222264; Sez. U, n. 877 del 14/7/2022, dep. 2023, COGNOME, in motivazione).
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla per le spese in favore del Ministero.
Deciso il 13 dicembre 2023