Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 46723 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 46723 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a OSTUNI il 23/02/1964
avverso l’ordinanza del 28/05/2024 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 28 maggio 2024, la Corte d’appello di Bari ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta privazione della libertà personale subìta dal 21 ottobre al 23 novembre 1999.
Risulta dagli atti che la COGNOME fu sottoposta a misura cautelare (custodia in carcere fino al 5 novembre 1999, poi arresti domiciliari) per la ritenut sussistenza di gravi indizi del reato di partecipazione ad una associazione di tipo mafioso (capo A) e riciclaggio di denaro proveniente da attività di contrabbando svolte da quella associazione (capo K3). In tesi accusatoria, la COGNOME era partecipe di una associazione di stampo camorristico-mafioso, diretta e promossa dal latitante NOME COGNOME (cognato della COGNOME perché sposato con la sorella), finalizzata al contrabbando di tabacchi, armi e sostanze stupefacenti e al finanziamento del circuito economico criminale realizzato attraverso i proventi di questi reati. In particolare, insieme al marito NOME COGNOME – maresciallo della Guardia di Finanza in servizio presso il Comando gruppo di Padova – si occupava di custodire ingenti somme di denaro provenienti dalle attività delittuose dell’associazione e di recapitarle a corrieri incaricati del riciclaggio operanti ne confederazione elvetica.
Da questi reati la COGNOME è stata assolta «per non aver commesso il fatto» dalla Corte di Assise di Bari con sentenza del 27 ottobre 2020 che è stata confermata dalla Corte di Assise di appello di Bari con sentenza del 28 febbraio 2013, divenuta irrevocabile il 12 luglio 2013.
L’istanza volta ad ottenere l’equa riparazione, proposta in data 5 marzo 2015, è stata respinta dalla Corte di appello di Bari con l’ordinanza oggetto del presente ricorso. La Corte territoriale ha ritenuto sussistente una colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo. Ha sottolineato a tal fine che la sentenza di assoluzione della Corte di Assise di appello ha ritenuto la COGNOME pienamente consapevole delle attività illecite compiute dal marito in favore della associazione e l’ha assolta perché ha considerato la condotta dell’imputata quale mera connivenza inidonea a integrare il concorso nel reato di riciclaggio e la partecipazione al reato associativo.
NOME COGNOME ha proposto ricorso contro l’ordinanza di rigetto per mezzo del proprio difensore, munito di procura speciale, lamentando violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. Il difensore della ricorrente sostiene
che la Corte territoriale avrebbe confuso l’azione del risarcimento del danno per ingiusta detenzione con l’azione civile volta ad ottenere l’affermazione della responsabilità, per dolo o colpa grave, del giudice che ha applicato la misura e avrebbe espresso valutazioni sulla legittimità del provvedimento cautelare piuttosto che esaminare il comportamento della COGNOME la quale è risultata estranea alle accuse per le quali è stata privata della libertà personale con sentenza passata in giudicato.
Nei termini di legge il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Con memoria in data 1° novembre 2024, l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.
Va premesso che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini dell’esistenza del diritto all’indennizzo, peraltro, può an prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606). Si tratta di una valutazione che va effettuata ex ante, ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME
Rv. 247663).
L’autonomia tra il giudizio di riparazione e il giudizio di cognizione è stata pi volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità ed è coerente con questo principio l’affermazione secondo cui, nell’escludere il diritto alla riparazione per ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U. n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636). Proprio perché i due giudizi sono autonomi, infatti, il dolo o la colpa grave non possono essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 198491) ed è proprio per questo che il giudice della riparazione deve valutare autonomamente le emergenze processuali: una valutazione che deve essere compiuta “ex ante” e non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della penale responsabilità.
3. L’ordinanza impugnata ha fatto buon governo di questi principi di diritto. Ha sottolineato infatti che, secondo i giudici della cognizione, l’odierna ricorrent era a conoscenza delle illecite attività poste in essere dal marito NOME COGNOME nell’ambito dell’associazione di cui al capo A), come era a conoscenza dell’attività di riciclaggio da lui compiuta e mantenne rispetto a tali condotte un atteggiamento di convivenza, insufficiente all’affermazione di responsabilità per il reat associativo e insufficiente anche per ritenere il concorso nel reato di riciclaggio ma rilevante quale comportamento gravemente colposo ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. L’ordinanza impugnata riferisce, inoltre, che la sentenza definitiva di assoluzione ha ritenuto provata la presenza della COGNOME, i compagnia di Celino, in una occasione nella quale questi doveva consegnare ad un corriere somme di denaro provenienti dall’attività di contrabbando svolta dall’associazione, consegna che non andò a buon fine perché NOME si accorse della presenza di estranei e preferì soprassedere.
Nel ritenere che tale condotta sia caratterizzata da grave imprudenza la Corte territoriale si è allineata agli insegnamenti di questa Corte di legittimità s valutazione dell’ambiguità delle condotte emerse in fase di indagini preliminari quale fattore condizionante l’errore dell’autorità giudiziaria. Ed invero, «in terna riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di
connivenza passiva quando, alternativamente, detto atteggiamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale volti ad impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi nel tollerare c un reato sia consumato, sempre che l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti avere oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova che egli fosse a conoscenza di tale attività» (Sez. 4, n. 4113 del 13/01/2021, Sanyang, Rv. 280391; Sez. 3, n. 22060 del 23/01/2019; COGNOME, Rv. 275970; Sez. 4, n. 15745 del 19/02/2015, Di Spirito, Rv. 263139).
Come è stato sottolineato, inoltre, le frequentazioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo, anche quando intervengano con persone legate da rapporto di parentela o – come nel caso di specie – di coniugio, purché siano accompagnate dalla consapevolezza del coinvolgimento nei traffici illeciti e le attività compiute non siano assolutament necessitate (cfr. Sez. 4, n. 29550 del 05/06/2019, COGNOME Rv. 277475).
Nel caso di specie, la COGNOME non ha spiegato perché la sua presenza all’incontro programmato tra Celino e un corriere cui (come emerso dalle intercettazioni telefoniche) egli doveva consegnare denaro provento del reato di contrabbando fosse necessitata dal rapporto di coniugio. Quanto alla consapevolezza da parte della COGNOME dell’attività illecita realizzata dal marito dal cognato, il ricorso non la contesta e non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato dalla quale risulta che la ricorrente mantenne assidue frequentazioni con la sorella e, tramite lei, col cognato NOME COGNOME (all’epoca latitante in Montenegro) e, in alcune occasioni, si prestò a ricevere denaro dalla sorella e a custodirlo fino al rientro ad Ostuni del marito al quale po lo consegnò (pag. 8 della motivazione).
4. In conclusione: le condotte che l’ordinanza impugnata ha posto a fondamento delle proprie valutazioni sono state ritenute provate nel giudizio di cognizione, ma insufficienti per affermare che la COGNOME fosse partecipe dell’associazione di cui al capo A) e concorrente nell’attività di riciclaggio realizza dal marito; nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità è ravvisabil nell’aver ritenuto che tali condotte fossero idonee ad essere oggettivamente interpretate come complicità e sufficienti a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare; non è illogico né contraddittorio aver considerato tali condotte macroscopicamente imprudenti e
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neppure averle ritenute decisive nel determinare l’applicazione della misura cautelare. L’atto di ricorso non si confronta con nessuno di questi passaggi argomentativi e non li contesta, limitandosi a ricordare che la ricorrente è stata assolta, è stata esclusa la sua partecipazione all’associazione ed è stato escluso anche il concorso nell’attività di riciclaggio. Si tratta, pertanto, di un ri aspecifico e, per questo, inammissibile.
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico della COGNOME, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità. La ricorrente deve essere condannata, inoltre, a rifondere le spese sostenute dal Ministero resistente per questo giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, che liquida in complessivi euro 1.000,00.
Così deciso il 26 novembre 2024
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