Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 46589 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 46589 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 03/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 26/02/1974
avverso l’ordinanza del 19/06/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 19 giugno 2024, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta sottoposizione a misura cautelare privativa della libertà personale (custodia in carcere dal 22 febbraio 2017 al 26 febbraio 2018; arresti domiciliari, dal 27 febbraio 2018 al 5 novembre 2020).
La misura cautelare fu disposta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria per la ritenuta sussistenza di gravi indizi del concorso nei reati di rapina aggravata, detenzione di un fucile e ricettazione. Da questi reati COGNOME è stato assolto con sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria divenuta irrevocabile il 21 marzo 2021.
L’ordinanza impugnata ha ritenuto ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo la circostanza che, nel pomeriggio antecedente alla rapina (avvenuta alle 20:00 del 29 agosto 2015), COGNOME sia stato in costante contatto con NOME COGNOME (che della rapina è stato ritenuto responsabile), si sia spostato insieme a lui dalla zona Sud di Reggio Calabria verso le frazioni di Pellaro e Bocale (luogo nel quale, in serata, fu commessa la rapina) e, prima della rapina, si sia intrattenuto con Monorchio e con altri nei pressi della tabaccheria, in un incontro che è stato considerato come un sopralluogo preliminare alla consumazione del reato. Secondo la Corte territoriale, tali condotte, che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare, pur valutate insufficienti all’affermazione della penale responsabilità, sono connotate da colpa grave.
Per mezzo del proprio difensore, munito di procura speciale, COGNOME ha proposto ricorso contro l’ordinanza di rigetto lamentando erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen. e vizi di motivazione.
Il difensore del ricorrente osserva che gli elementi sulla base dei quali la misura cautelare è stata applicata sono gli stessi che, all’esito del giudizio, sono stati valutati inidonei all’affermazione della penale responsabilità. Rileva che il Giudice per le indagini preliminari ha respinto la richiesta di misura cautelare avanzata dal pubblico ministero con riferimento ad un altro indagato che, come COGNOME, risultava aver avuto contatti con Monorchio nel pomeriggio dei fatti, e, insieme a COGNOME, lo aveva accompagnato sul posto. Ne desume che il quadro indiziario era ab origine carente e lo è divenuto ancor più all’esito del giudizio, atteso che i giudici della cognizione hanno ritenuto inattendibile, in ragione della scarsa qualità delle immagini, il riconoscimento eseguito dagli ufficiali di PG
incaricati delle indagini, secondo i quali uno dei rapinatori ripresi dalle telecamere installate nella tabaccheria sarebbe stato proprio Gallus°.
La difesa riferisce che, già nell’interrogatorio di garanzia, l’odierno ricorrente ha giustificato i contatti con Monorchio e la presenza nella zona di Pellaro. Ha spiegato, infatti, di avere con Monorchio un rapporto di amicizia risalente nel tempo e di recarsi quotidianamente a San Gregorio (zona limitrofa a Pellaro) per far visita alla madre. Il difensore osserva che tali dichiarazioni sono state confermate dagli ufficiali di PG esaminati in giudizio, i quali hanno anche riferito che le celle agganciate dal telefono di COGNOME nei momenti precedenti e successivi alla rapina erano «compatibili con quella servente la dimora della di lui madre» (pag. 2 dell’atto di ricorso). Ne desume che al comportamento valorizzato dalla Corte di appello non può essere attribuito carattere gravemente colposo e sostiene che quel comportamento non può essere considerato ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Nei termini di legge il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Nello stesso senso ha concluso l’Avvocatura dello Stato con memoria in data 8 novembre 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Va premesso che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Perché sorga il diritto all’indennizzo, peraltro, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato causa – o non abbia concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606). Si tratta di una valutazione che va effettuata ex ante, ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del
provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663).
L’ autonomia tra il giudizio penale e il successivo giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità e non solo dalle sentenze delle Sezioni Unite sopra richiamate.
Si è affermato in proposito:
che «il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 256764);
che «in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabili con valutazione “ex ante” e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale» (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, COGNOME, Rv. 268952);
che «nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, senza che rilevi che quest’ultimo si sia definito con l’assoluzione dell’imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio» (Sez. 4, n. 2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280246; nello stesso senso, Sez. 4, n. 34438 del 02/07/2019, Messina, Rv. 276859).
L’affermazione secondo la quale, nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o abbia concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale,
il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636) è coerente con questi principi. L’ autonomia tra i due giudizi, infatti, esclude che il dolo o la colpa grave possano essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 198491).
Proprio perché i due giudizi sono autonomi, tuttavia, il giudice della riparazione deve valutare autonomamente le emergenze processuali e tale valutazione, che deve essere compiuta “ex ante”, non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della penale responsabilità.
La motivazione del provvedimento impugnato sviluppa, sotto il profilo logico, un ragionamento esaustivo e coerente con queste premesse.
La Corte territoriale riferisce che COGNOME è stato assolto dall’accusa di aver preso parte alla rapina a mano armata della quale era gravemente indiziato perché non è stato valutato attendibile il riconoscimento eseguito dalla PG sulla base dei filmati ripresi dalla videocamera installata all’interno della tabaccheria e, pertanto, la sua presenza sul luogo della rapina nel momento in cui il reato fu commesso non è stata ritenuta provata al di là di ogni ragionevole dubbio.
L’ordinanza impugnata riporta il contenuto della sentenza di assoluzione, secondo la quale non v’è «prova piena» dell’ingresso di Calluso nella tabaccheria, e, pertanto, non è possibile determinare «il tipo di contributo offerto nella consumazione del reato, in un contesto dimostrativo che offre, a fianco di alcuni elementi a carico (come l’avere partecipato all’incontro pianificatore del pomeriggio) degli oggettivi vuoti conoscitivi».
Preso atto di questa motivazione la Corte di appello osserva:
che il giudizio di cognizione non ha escluso la presenza di COGNOME all’incontro nel quale COGNOME ed altri pianificarono la rapina (ha affermato, anzi, che a quell’incontro egli era presente);
che, secondo i giudici di merito, COGNOME si recò a quell’incontro, partendo da Reggio Calabria, insieme a Monorchio;
che COGNOME è stato ritenuto responsabile della rapina.
Non v’è dubbio che le condotte valorizzate dalla Corte di appello abbiano avuto un ruolo sinergico nell’applicazione della misura e nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità può essere ravvisato nell’aver ritenuto che tali condotte fossero gravemente imprudenti e perciò ostative al riconoscimento
del diritto all’indennizzo. I rapporti di amicizia esistenti tra Monorchio e l’odierno ricorrente, infatti, non comportavano la presenza di COGNOME ad un incontro che, nel giudizio di cognizione, è stato ritenuto preparatorio della rapina successivamente commessa e la presenza a quell’incontro consente di escludere che COGNOME abbia compiuto il viaggio da Reggio Calabria a Pellaro e a Bocale solo per far visita alla madre.
.5. La motivazione fornita dalla Corte territoriale si allinea agli insegnamenti di questa Corte di legittimità sulla valutazione dell’ambiguità delle condotte emerse in fase di indagini preliminari quale fattore condizionante l’errore, dell’autorità giudiziaria. In generale, infatti, le frequentazioni ambigue che siano idonee ad essere oggettivamente interpretate come complicità, sono segni certamente sufficienti a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare. Si tratta, invero, di condotte che, per la loro prossimità all’ambiente criminale, possono facilmente indurre l’apparenza della partecipazione al reato e dunque di condotte che, in quanto macroscopicamente imprudenti e causalmente connesse con la decisione adottata nei confronti dell’interessato, ben possono essere inquadrate nella colpa grave.
Le argomentazioni della Corte territoriale sul punto appaiono pienamente conformi al principio di autoresponsabilità, più volte richiamato in materia dalla giurisprudenza di legittimità, in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’autorità giudiziaria. pertanto, in questo senso, gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, ponga in essere – per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si . sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, COGNOME, Rv. 203637).
6. A ciò deve aggiungersi che, come ribadito in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, «la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, può ravvisarsi anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva quando, alternativamente, detto atteggiamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale volti ad impedire il
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verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi nel tollerare che un reato sia consumato, sempre che l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti avere oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova che egli fosse a conoscenza di tale attività» (Sez. 4, n. 4113 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280391; Sez. 3, n. 22060 del 23/01/2019, COGNOME, Rv. 275970; Sez. 4, n. 15745 del 19/02/2015, Di Spirito, Rv. 263139 Sez. 4, n. 6878 del 17/11/2011, COGNOME, Rv. 252725; Sez. 4, n. 2659 del 03/12/2008, Vottari, Rv. 242538; Sez. 4, n. 40297 del 10/06/2008, Koci, Rv. 241325; Sez. 4, n. 8993 del 2 15/01/2003, Lushay, Rv. 223688).
Le situazioni sopra indicate possono sussistere alternativamente. Per ritenere la colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto, dunque, è sufficiente che ne sia integrata anche una sola. Nel caso in esame, la Corte di appello ha preso atto che, secondo i giudici della cognizione, COGNOME fu presente all’incontro nel quale la rapina fu pianificata. Tale comportamento, pur non avendo fornito un concreto contributo alla consumazione dell’illecito e non essendo diretto a favorirla, fu obiettivamente idoneo a rafforzare la volontà criminosa di COGNOME. Non è illogico, pertanto, averlo considerato gravemente colposo.
Ed invero, si tratta di un comportamento accondiscendente rispetto alla pianificazione di un reato che, oltre a creare quella apparenza di reità sulla quale si fonda la condizione ostativa alla riparazione, esprime indifferenza rispetto alla lesione di beni giuridici protetti e comporta la violazione di regole di condivisione sociale (così, in motivazione, Sez. 4 n. 35999 del 14/06/2022, Gangi, non massimata; Sez. 4, n. 32344 del 2023, Bakuradze, non massimata).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute per questo grado di giudizio dal Ministero resistente, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente che liquida in complessivi euro mille.
Così deciso il 3 dicembre 2024
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