Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 31316 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 31316 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE COGNOME nato a SIDERNO il 27/01/1979
avverso l’ordinanza del 09/01/2025 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 9/1/2025 la Corte d’appello di Reggio Calabria ha accolto l’istanza di equa riparazione presentata da COGNOME Filippo per la dedotta ingiusta detenzione sofferta agli arresti domiciliari dal 2 aprile 2016 al 2 maggio 2016, nell’ambito di un procedimento penale nel quale era elevata a suo carico l’accusa di partecipazione ad un’associazione finalizzata al compimento di più reati concernenti l’abusiva attività creditizia di cui all’art. 132 d. Igs. n. 385 dell’ settembre 1993.
Da tale reato il ricorrente era assolto con sentenza del Tribunale di Locri divenuta irrevocabile il 23/6/2020.
La Corte territoriale, nell’accogliere la domanda, ha escluso che il richiedente avesse serbato un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento dell’indennizzo.
Ha invece ritenuto di individuare nei comportamenti serbati dal richiedente una colpa lieve, incidente sulla quantificazione della liquidazione, determinata nella misura di euro 4150,432.
Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’Avvocatura di Stato, che ha articolato i seguenti motivi di ricorso.
Vizio di motivazione; motivazione mancante e/o contraddittoria; violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta esistenza del presupposto di non avere il richiedente concorso con dolo o colpa grave alla custodia cautelare subita.
La motivazione con la quale l’ordinanza impugnata esclude che l’istante abbia concorso a dare causa all’ingiusta detenzione è, in realtà, solo apparente; il giudice della riparazione, infatti, si limita a riprodurre lo schema argomentativo della sentenza assolutoria, mancando di effettuare un autonomo accertamento in ordine all’eventuale concorso di colpa del richiedente e contraddicendo i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità cui dichiara, invece, di conformarsi.
Con riferimento alla posizione di COGNOME, la Corte d’appello richiama l’esistenza di conversazioni intercettate presso la Casa circondariale di Catanzaro, ove COGNOME NOME, principale protagonista della vicenda, era detenuto.
In tali conversazioni si discuteva, tra l’altro, dell’occultamento di danaro e titoli di credito provento di reato.
L’erroneità e la contraddittorietà della motivazione emergerebbe sotto diversi profili.
La Corte di merito ammette l’esistenza in capo al richiedente di un profilo di colpa eziologicamente incidente sulla detenzione subita, pervenendo egualmente a riconoscere l’indennizzo in ragione della qualificazione lieve della colpa.
La decisone contrasta con le opposte conclusioni a cui sono pervenuti gli stessi giudici con riferimento alla moglie di COGNOME, NOME NOME, originaria coimputata, la cui posizione è sovrapponibile a quella dell’attuale richiedente e la cui richiesta di riparazione è stata rigettata, come si evince dall’ordinanza allegata al ricorso.
La conferma di ciò si rinviene nella sentenza assolutoria del Tribunale di Locri (n. 468/19), in cui il giudice, riferendosi a COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, afferma che costoro “risultano esser intervenuti a vario titolo nelle conversazioni ambientali monitorate, affrontando si discorsi inerenti la riscossione delle somme di denaro prestate dal COGNOME o la consegna dei consueti assegni postdatati, ma secondo modalità che non hanno permesso di ritenere provata né una sinergica attività di erogazione abusiva del credito né tantomeno, in capo a ciascuno di essi, la qualità di autore materiale dei finanziamenti”.
La decisione impugnata contiene elementi valutativi contrastanti con la qualificazione della condotta colposa tenuta dall’istante. Da tali elementi, evidenziati in altro passaggio motivazionale dell’ordinanza, risulta che la condotta è stata tenuta dall’istante con consapevolezza e volontà di partecipare ad attività che, sebbene non integranti reato, restano, comunque, illecite. Di qui il carattere doloso della condotta serbata dal richiedente.
Infatti, come emerge dalla sentenza n. 468/19 del Tribunale di Locri, COGNOME Filippo era intervenuto nelle conversazioni ambientali monitorate, affrontando discorsi inerenti alla riscossione delle somme di danaro prestate da COGNOME Nicola con modalità criminose. E’ la stessa Corte d’appello, nel provvedimento impugnato ad affermare: «Si fa riferimento, ad alcune espressioni contenute nei dialoghi riportati, che lasciavano trasparire l’utilizzo, da parte di COGNOME Nicola di termini che evocano la dazione di somme di denaro, espressioni in cui si fa riferimento ad assegni, a consegne di denaro e alla necessità di “occultare” il denaro e i titoli dell’attività svolta dal Prota. E’ chiaro che ove si fosse trattato di attività lecita non vi sarebbe stata alcuna volontà di occultamento così come altrettanto chiara è la consapevolezza da parte del COGNOME dell’oggetto della conversazione».
La consapevolezza da parte del richiedente delle ragioni illecite sottese all’attività di occultamento, di cui dà atto la Corte di merito, avrebbe dovuto indurre la stessa a qualificare come dolosa e non colposa la condotta del
richiedente, il quale era ben conscio della natura criminosa dell’attività dello zio COGNOME NOMECOGNOME
Quand’anche si volesse considerare colposo l’atteggiamento del COGNOME, la colpa dovrebbe essere considerata grave e non certamente lieve.
La condotta di chi prende parte a conversazioni concernenti l’occultamento di denaro di nota provenienza delittuosa, senza prendere le distanze da quanto affermato, mostrando, al contrario, disponibilità a realizzare gli intenti del sodale, rivela un significativo grado di scostamento rispetto alla diligenza che si richiede all’uomo medio in situazioni del genere.
II) Mancanza e contraddittorietà della motivazione nella quantificazione dell’indennizzo con conseguente violazione dell’art. 315 cod. proc. pen.
Il giudice della riparazione ha considerato la condotta di COGNOME lievemente colposa, stabilendo una riduzione del quantum dell’indennizzo pari al 20%.
Tuttavia, è del tutto carente la motivazione in ordine ai fattori che hanno indotto la Corte a contenere entro detti limiti la liquidazione, laddove la consapevolezza della provenienza illecita del danaro ed il tenore dei dialoghi avrebbero dovuto determinare una riduzione ben più cospicua dell’indennizzo.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con requisitoria scritta, ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria per nuovo giudizio.
La difesa di COGNOME Filippo ha depositato memoria difensiva nella quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, con vittoria di spese e competenze di giudizio da distrarsi, ex art. 93 cod. proc. civ., a favore del procuratore anticipata rio.
Secondo quanto riportato nella memoria in atti, l’Avvocatura di Stato avrebbe palesemente travisato la vicenda giudiziaria in esame e le prove poste a fondamento dell’originaria accusa nei confronti di COGNOME Filippo; per altro verso, i motivi di ricorso proposti sarebbero manifestamente infondati, non risultando l’impugnazione rispettosa del criterio dell’autosufficienza. Il ricorrente, infatti, non si è fatto carico di produrre la sentenza del Tribunale di Locri citata.
La posizione della coimputata COGNOME NOME, in relazione alla quale è stata richiamata la diversa decisione con la quale la medesima Corte d’appello ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione, non è sovrapponibile a quella di COGNOME NOME. Infatti, mentre COGNOME NOME, coniuge del principale imputato NOME NOME, accusato di avere commesso il reato di usura, ha intrattenuto con il predetto decine di colloqui in carcere, COGNOME Filippo ha avuto pochissimi colloqui, insieme ad altri familiari, all’interno della Casa
Circondariale di Catanzaro. Ne è riprova il fatto che la stessa Corte d’appello, a pag. 5 dell’ordinanza, abbia definito il richiedente un “mero spettatore”.
Il ricorrente ometterebbe di indicare quali sarebbero gli elementi indiziari, tratti dalle conversazioni ambientali, in forza dei quali risulterebbe dimostrata l’asserita sovrapponibilità delle due posizioni. I riferimenti contenuti nel ricorso alla motivazione resa dal Tribunale di Locri non riguarderebbero la persona di COGNOME NOME, ma le posizioni di COGNOME NOME e COGNOME NOME, rispettivamente moglie e figlio di COGNOME NOME.
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME e NOME, come ha evidenziato la stessa Corte di merito, sono stati meri spettatori dei colloqui nei quali altri dimostravano disponibilità ad occultare documenti e danaro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso, con valore assorbente rispetto alla seconda doglianza, è fondato e deve essere accolto nei termini di seguito precisati.
Come ricordato dall’esponente, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato causa o abbia concorso a darvi causa, con dolo o colpa grave, deve apprezzare tutti gli elementi disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti (così, ex multis, da ultimo Sez. 4, n. 22642 del 21/03/2017, De Gregorio, Rv. 270001).
A tal fine, nel seguire un iter logico motivazionale autonomo rispetto a quello del giudice della cognizione, deve prendere in considerazione fatti concreti e precisi, individuando in essi le condizioni che permettano di ritenere o escludere la possibilità del riconoscimento dell’indennizzo richiesto, le quali condizioni dipendono strettamente dall’assenza o dalla presenza di dolo o colpa grave nella condotta del richiedente.
Ove ravvisi dolo o colpa grave nel comportamento serbato dall’interessato, il giudice della riparazione deve ulteriormente valutare l’incidenza di tali elementi sulla determinazione della detenzione, mettendone in rilievo il rapporto sinergico.
Nell’applicare tali regole valutative deve fare uso di criteri logici, secondo un corretto incedere, che deve risultare immune da aporie e contraddizioni, fornendo adeguata motivazione del proprio convincimento.
Deve ulteriormente rammentarsi come il giudizio ex art. 314 cod. proc. pen. sia del tutto autonomo rispetto a quello della cognizione, dovendo il giudice della riparazione stabilire, con valutazione da effettuarsi “ex ante”, non se la condotta
serbata dal richiedente integri gli estremi di reato, aspetto che compete al giudice della cognizione, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di un errore dell’Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (così Sez. U., n. 32383 del 27/5/2010, COGNOME).
Non è superfluo aggiungere l’ulteriore principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice della riparazione, nella valutazione da compiere nell’ambito di tale giudizio, incontra il solo limite di non poter ritenere dimostrate circostanze escluse in sede di cognizione e, viceversa, di non poter ritenere non provate circostanze valutate dal giudice della cognizione come esistenti e dimostrate (così ex multis Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima, Rv. 270039).
Ebbene, nella disamina del caso concreto, il giudice della riparazione cade in una evidente contraddizione: nel descrivere l’atteggiamento del richiedente riferisce di comportamenti fortemente ambigui, connotati non solo da piena consapevolezza dell’agire illecito altrui, ma anche dalla disponibilità a fornire un supporto materiale nell’attività tesa ad occultare prove riguardanti la commissione del reato (si veda in particolare quanto riportato alle pagine 4 e 5 dell’ordinanza).
Per altro verso, il giudice della riparazione riconosce in tali comportamenti manifestazioni di colpa lieve, non chiarendo come sia pervenuto a tale giudizio dalle premesse da cui ha preso le mosse.
I comportamenti descritti sono stati desunti dalla sentenza assolutoria, di cui l’ordinanza riporta significativi passaggi testuali, nei quali il giudice della cognizione, nell’escludere la configurazione del reato di erogazione abusiva del credito, osserva come i familiari di COGNOME Nicola “risultano esser intervenuti a vario titolo nelle conversazioni ambientali monitorate, affrontando si discorsi inerenti la riscossione delle somme di denaro prestate dal COGNOME o la consegna dei consueti assegni postdatati…”.
Con particolare riferimento alla posizione di COGNOME NOME, il giudice della riparazione richiama talune conversazioni registrate presso la Casa Circondariale di Catanzaro, il cui contenuto, si legge nella ordinanza, “attiene per un verso a vicende che esulano dall’imputazione e che comunque vedono il COGNOME quale mero spettatore, per l’altro all’occultamento di denaro e titoli di credito provento del reato”.
Alla stregua di quanto risulta nei passaggi motivazionali evidenziati, si è ritenuto che il richiedente avesse serbato comportamenti suscettibili di
ingenerare nell’Autorità procedente l’erroneo, seppur ragionevole, convincimento che il COGNOME fosse coinvolto nell’attività illecita a cui era dedito COGNOME NOME.
A tale riguardo, in risposta al rilievo formulato dalla difesa nella memoria depositata, occorre rilevare come la veste di “mero spettatore” attribuita a COGNOME nella ordinanza risulta riferita a vicende non riguardanti l’imputazione.
Quanto alla necessità, rappresentata anch’essa nella memoria difensiva, della produzione del testo della sentenza assolutoria da parte dell’Avvocatura per il rispetto dell’autosufficienza del ricorso, è d’uopo osservare come l’impugnazione, lungi dal richiamare elementi che esulano dal perimetro dei dati illustrati nella ordinanza impugnata, si è limitata a criticare il percorso logico argomentativo seguito dalla Corte d’appello per pervenire alle conclusioni a cui è giunta in ordine alla qualificazione della colpa.
3. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è ispirato a principi solidaristici, in forza dei quali il diritto ad ottenere un ristoro per la detenzione patita incontra un limite nell’assenza di interferenze causali della condotta del richiedente – di natura dolosa o gravemente colposa – sull’evento della custodia.
Sul punto, non è superfluo rammentare che le Sezioni Unite D’ambrosio (sent. n. 32383 del 27/5/2010) abbiano sottolineato come il principio solidaristico sotteso all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione trovi “il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali evidentemente non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati”.
L’art. 314, comma 1, cod. pen., infatti, prevede che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria, i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a
tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 dep. il 1996, COGNOME, Rv. 203637).
La nozione di colpa grave si ricava invece dall’art. 43 cod. pen., e riguarda quelle condotte che, pur tese ad altri risultati, per macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, creino una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale.
In altra successiva condivisibile pronuncia è stato affermato che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, COGNOME, Rv. 242034).
Ciò premesso, sebbene il grado di colpa da attribuirsi al comportamento serbato dal richiedente coinvolga aspetti valutativi di merito, è indubbio che tale valutazione debba essere ancorata a criteri logici, di cui il giudice della riparazione deve dare conto, scevri da aporie e intime contraddizioni che possano minare la tenuta delle sue conclusioni.
La condotta colposa, nella vita di qualsiasi rapporto giuridico, può assumere varie gradazioni, che vanno da quella lieve a quella grave, quest’ultima considerata dal legislatore ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Tale differenziazione si basa sull’entità del discostamento della condotta del soggetto interessato dalle regole di normale diligenza e prudenza che devono informare i comportamenti umani in qualunque situazione. Se lo scollamento è considerevole, non potranno i comportamenti essere considerati espressione di colpa lieve.
Quanto al dolo, nell’ambito della materia della riparazione, esso rileva come componente soggettiva diretta ? intenzionalOcilt i é” à rovoca re l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria che si esplica mediante l’adozione di un provvedimento restrittivo a tutela della collettività.
Ebbene, alla stregua di quanto sin qui precisato, il riconoscimento della colpa lieve nel comportamento serbato dal richiedente è frutto di un ragionamento assertivo e, pertanto, insoddisfacente sul piano argomentativo.
La qualificazione del comportamento colposo, oltre a risultare immotivata, è distonica rispetto al procedimento argomentativo sviluppato dalla Corte d’appello ed alle considerazioni contenute nella motivazione, in cui si pone in evidenza l’atteggiamento collaborativo del richiedente nei confronti di COGNOME NOME e la sua consapevolezza della natura illecita delle richieste provenienti da questi.
L’ulteriore questione riguardante l’assimilazione della posizione di COGNOME a quella della moglie di COGNOME NOME, COGNOME NOME, introdotta dall’Avvocatura e criticata dalla difesa nella memoria difensiva, non ha rilievo, rimanendo tale aspetto indifferente alla regiudicanda che occupa, avente ad oggetto la qualificazione dei comportamenti colposi facenti capo al richiedente.
L’ordinanza, non supportata da idonea motivazione sul punto, deve essere pertanto annullata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte di appello di Reggio Calabria, cui viene demandata altresì la regolamentazione delle spese tra le parti del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte di appello di Reggio Calabria, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti del presente giudizio di legittimità.
In Roma, così deciso in data 11 giugno 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente