Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13616 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13616 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Paternò il 23/02/1967
NOME nata a Siracusa il 17/12/1975
avverso la sentenza del 28/02/2024 della Corte di appello di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; udito i difensori dei ricorrenti, avv.ti NOME COGNOME ed NOME COGNOME per COGNOME, e NOME COGNOME per COGNOME, che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna di NOME COGNOME e NOME COGNOME per il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione, previsto e punito dall’art. 321 in relazione all’art. 318, cod. pen..
Essi, nelle loro rispettive qualità di responsabile tecnico-operativo e di socia unica della “RAGIONE_SOCIALE e della “RAGIONE_SOCIALE, operanti nel settore della gestione dei rifiuti, sono stati ritenuti colpevoli di aver corro NOME COGNOME, direttore tecnico della discarica denominata “Bellolampo”, gestita dalla “RAGIONE_SOCIALE, società partecipata dal Comune di Palermo, versandogli a più riprese del denaro ed ottenendo, in cambio, il suo interessamento per agevolare il pagamento dei corrispettivi dovuti da tale società, nonché la rivelazione in anteprima di notizie riservate sulle strategie operative della stessa, sulle condizioni economiche di imprese eventualmente concorrenti e su altri possibili affari commerciali.
Impugnano tale decisione entrambi gli imputati, con atti dei rispettivi difensori, sulla base, per lo più, di motivi ed argomenti comuni, che dunque possono essere esposti in modo unitario, con la sintesi imposta dall’art. 173, disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Si denunciano, anzitutto, violazione della legge penale e vizi della motivazione in punto di qualificazione giuridica del fatto, sostenendosi che questo andrebbe inquadrato piuttosto nella fattispecie della concussione ai danni dei ricorrenti o, al più, nella induzione indebita di cui all’art. 319 -quater, cod. pen..
Rilevano anzitutto le difese – accompagnando le loro deduzioni da ampia citazione di precedenti di legittimità – che il vantaggio asseritamente ottenuto dagli imputati in corrispettivo delle dazioni non fosse affatto indebito, consistendo nel pagamento dei corrispettivi spettanti alle loro società per le prestazioni da queste erogate alla “RAGIONE_SOCIALE“.
Inoltre, secondo la stessa ricostruzione dei fatti ritenuta in sentenza, COGNOME si sarebbe presentato agli imputati come risolutore dei loro problemi contrattuali, tacendo loro, però, che, in realtà, questi erano proprio da lui creati. Egli, dunque, attraverso la strumentalizzazione del suo ruolo e dei poteri ad esso connessi, e facendo abusivamente pesare tale sua posizione, avrebbe posto gli imputati in una condizione, quanto meno, di soggezione compiacente, se non addirittura di costrizione, in cui il versamento della “tangente” rappresentava l’alternativa obbligata per evitare la crisi aziendale, e quindi la verificazione di un male ingiusto, o comunque per acquisirne la necessaria disponibilità clientelare, altrimenti impossibile. Si sarebbe in presenza, dunque, di un abuso di potere o della qualità pubblica, il quale rappresenta la causa efficiente dell’effetto costrittivo od induttivo, e quindi il comune denominatore della concussione e dell’induzione indebita, che differiscono tra loro per il mezzo usato: nel primo caso, la minaccia; nel secondo, la persuasione, la suggestione, l’inganno.
La sentenza, invece, ha tratto la convinzione di una trattativa condotta dai ricorrenti in posizione di sostanziale parità con il pubblico funzionario – perciò ravvisando l’elemento qualificante e peculiare della corruzione – in ragione delle interlocuzioni affettuose tra costoro (registrate nelle loro conversazioni e nei messaggi telefonici oggetto d’intercettazione) e del fatto che sia stato COGNOME ad assumere l’iniziativa di avvicinare COGNOME.
Replicano, però, le difese che, in tema di concussione, l’abuso costrittivo non deve necessariamente manifestarsi in forme esplicite, potendo rivelarsi anche mediante espressioni semplicemente allusive o finanche falsamente esortative (sul punto, richiamano a proprio conforto la decisione del Tribunale del riesame, che aveva qualificato come «vere e proprie estorsioni» quelle subite da COGNOME); e, quanto all’iniziativa, osservano che essa costituisce solamente un indice sintomatico, non un dato differenziale decisivo tra le diverse fattispecie in discussione, rilevando che, nella determinazione in tal senso del COGNOME, ha prevalso non già la prospettiva di possibili conseguenze positive per le sue aziende, ma piuttosto il timore di quelle negative. Il fatto, poi, che, a sèguito dei versamenti ricevuti, COGNOME abbia agevolato la definizione dei pagamenti non ha rappresentato alcun vantaggio indebito per i ricorrenti, ma soltanto il rispristino di una situazione di regolarità abusivamente deviata dalla condotta del pubblico funzionario.
Si citano, a conforto, precedenti di legittimità nei quali la condotta abusiva dell’operatore pubblico volta a bloccare pagamenti dovuti al privato è stata qualificata come concussione; ed il ricorso di COGNOME, in particolare, nel suo terzo motivo, richiama specifiche acquisizioni istruttorie che si assumono dimostrative della condotta prevaricatrice del Bonanno, lamentandone l’omessa od inadeguata valutazione da parte della Corte d’appello.
2.2. Altro motivo comune di ricorso è quello relativo alla qualifica del COGNOME, dai giudici d’appello ritenuto pubblico ufficiale, poiché munito di poteri autoritativi tali dovendo intendersi quei poteri pubblici discrezionali nei confronti di un soggetto, il quale venga perciò a trovarsi in posizione non paritetica rispetto all’agente pubblico. Nello specifico – prosegue la sentenza – COGNOME, nella sua posizione di direttore tecnico della discarica, aveva piena potestà nella procedura per la liquidazione delle fatture, spettando a lui apporvi il visto di conformità, nonché per l’adozione degli atti propedeutici alla compensazione delle partite di credito.
Obiettano le difese – anche in questo caso con numerosi richiami di precedenti di questa Corte – che la Corte d’appello ha del tutto pretermesso la puntuale disamina delle attività svolte da Bonanno, invece necessaria per la corretta
applicazione del criterio oggettivo-funzionale individuato dalla giurisprudenza quale elemento differenziale tra le varie categorie di operatori pubblici.
Premesso che i soggetti inseriti nella struttura organizzative e lavorativa di una società possono assumere qualifica pubblica solo quando l’attività della società sia disciplinata da normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con strumenti di diritto privato, rilevano le difese che la “RAGIONE_SOCIALE” era una società di diritto privato ed esercitava un’attività economica in un settore, quale quello del recupero e gestione dei rifiuti urbani, che non costituisce servizio di stretta prerogativa pubblica, potendo essere svolto anche da privati autorizzati.
Inoltre – osservano – COGNOME era un impiegato di tale società, della quale non aveva alcun potere di rappresentanza, svolgendo semplicemente il ruolo di direttore tecnico di una discarica. Le sue erano mansioni di mero ordine, poiché l’apposizione del visto sulle fatture non costituiva esplicazione di un potere certificativo, rappresentando un controllo di tipo esclusivamente formale, con valore semplicemente interno alla società, spettandone invece la liquidazione al dirigente dell’area finanziaria; mentre, in relazione alle compensazioni dei crediti, egli si limitava alle attività preparatorie, essendo il consiglio di amministrazione della società il titolare del relativo potere dispositivo.
Pertanto – concludono i ricorsi, citando giurisprudenza formatasi con riferimento ai rappresentanti ed ai dirigenti delle società c.d. “in house” e, comunque, a partecipazione pubblica – COGNOME avrebbe potuto rivestire, al più, la qualifica di incaricato di pubblico servizio, con la conseguente applicazione, laddove si volesse riconoscere l’ipotesi della corruzione, del meno rigoroso trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 320, cod. pen..
Il ricorso dell’imputata COGNOME denuncia, inoltre, violazioni di legge e viz della motivazione su altri tre profili.
3.1. Il primo è quello del concorso di costei nella corruzione eventualmente ravvisa bile.
La sentenza impugnata ne individua gli elementi sintomatici nella consegna del denaro a Bonanno, da lei operata in due occasioni, e nei rapporti di cordialità esistenti tra i due.
Obietta la difesa:
che è apodittica e contraddittoria la scissione delle dichiarazioni del COGNOME operata dai giudici d’appello, che le hanno ritenute attendibili per le accuse mosse a COGNOME e mendaci, invece, là dove completamente liberatorie per la Pisasale;
che non è stato accertato quale fosse il reale contenuto della busta da lei consegnata in una delle occasioni a Bonanno, né, comunque, se ella fosse consapevole del carattere indebito dell’eventuale dazione, valorizzandosi a tal fine
in sentenza soltanto un’isolata battuta di un dialogo intercettato poco prima tra di essi;
che la sentenza omette completamente di individuare la condotta ed il momento in cui l’imputata avrebbe manifestato, anche soltanto con un comportamento concludente, l’intenzione di aderire al patto corruttivo in tesi stretto già da tempo tra Caruso e Bonanno, nonché se ed in quale misura l’ipotetica consegna del denaro da lei effettuata a quest’ultimo abbia apportato un contributo causale indispensabile alla realizzazione di tale accordo illecito;
che, infatti, deve escludersi il concorso nel delitto di corruzione del soggetto estraneo al patto corruttivo, il quale intervenga soltanto nella fase esecutiva dell’accordo, senza che la sua condotta ne comporti una novazione od una modifica.
3.2. La difesa si duole, poi, del trattamento sanzionatorio riservato all’imputata, la cui posizione è stata arbitrariamente parificata a quella del COGNOME, in ragione del «lungo periodo di ottenuto mercimonio».
Deduce il ricorso che tanto non si addice alla Pisasale, la quale ha preso parte soltanto a due ipotetiche dazioni di somme avvenute nell’arco di tre mesi; inoltre, la pena inflittale si è discostata sensibilmente dal minimo edittale, nonostante il suo contributo comunque di minima importanza, la sua incensuratezza, la sua condotta personale inappuntabile, le sue solidissime condizioni di vita familiare e sociale. Peraltro, tale determinazione della Corte distrettuale si pone in contraddizione con il «noviziato criminale dei due imputati» dalla stessa evidenziato.
3.3. Infine, con l’ultimo motivo del suo ricorso, l’imputata censura il diniego delle attenuanti generiche, giustificato in sentenza con il fatto che ella ed il suo compagno e coimputato COGNOME fossero ricchi imprenditori, che avevano optato per la scelta corruttiva al fine di meglio perseguire i loro interessi economici.
Replica il ricorso che si tratta di affermazione priva di base giuridica, dovendo altrimenti escludersi la possibilità di riconoscimento di tali attenuanti per qualsiasi delitto di corruzione. Inoltre, si lamenta la mancata considerazioni di diversi elementi favorevoli, indicati nell’atto d’appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo dei motivi comuni, quello che attiene alla qualificazione giuridica del fatto, non è fondato.
1.1. Il tema controverso non è quello del “regolamento di confini” tra le diverse fattispecie, dell’individuazione, cioè, degli elementi differenziali tr concussione, induzione indebita ed ipotesi corruttive, che i giudici d’appello hanno
correttamente risolto, richiamando l’ormai stabile giurisprudenza di legittimità sul punto, a partire da Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, ric. COGNOME (Rv. 258470, 258074).
Anche i ricorrenti, infatti, convengono sul fatto che i primi due di quei delitti richiedano una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o ad indurre alla dazione o alla promessa indebita l’extraneus, il quale versa comunque in posizione di soggezione; mentre l’accordo corruttivo presuppone la “par condicio contractualis” e l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti. E neppure discutono che la concussione sia caratterizzata da una violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui derivi una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario, posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita, senza alcun vantaggio indebito per sé; mentre l’induzione prevista dall’art. 319-quater, cod. pen., si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), come forma di pressione morale, cioè, con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisca col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale.
1.2. I loro difensori censurano, piuttosto, l’opera di sussunzione delle condotte nell’una anziché nelle altre di tali fattispecie, compiuta dai giudici di merito, e motivazione ad essa sottostante, vale a dire il percorso logico attraverso il quale le sentenze sono pervenute alla conclusione che COGNOME e COGNOME non abbiano dovuto soccombere alla condotta prevaricatrice di Bonanno, per ottenere quanto loro spettante, ma si siano accordati con lui al fine di conseguire vantaggi loro non dovuti, per questo remunerandolo.
Ritiene però il Collegio che la ricostruzione e la valutazione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata non presentino alcuna illogicità manifesta, perciò sottraendosi alla censura del giudice di legittimità.
Va rilevato, anzitutto, che, diversamente da quanto si legge nei ricorsi, la Corte d’appello non ha dedotto l’esistenza di un accordo di tipo corruttivo soltanto dai rapporti particolarmente cordiali instaurati dai ricorrenti con COGNOME e dal fatto che l’iniziativa di avvicinare quest’ultimo sia partita da COGNOME.
La sentenza impugnata, infatti, individua e valorizza ulteriori risultanze probatorie, non controverse – perché di esse i ricorsi non fanno parola – ed indiscutibilmente suggestive nel senso da essa ritenuto; vale a dire: a) la circostanza, riferita dallo stesso COGNOME, secondo cui le contestazioni mossegli in origine da COGNOME sulla corretta esecuzione del contratto, e risoltesi con il
versamento delle “tangenti”, si presentavano magari eccessive, ma comunque non del tutto infondate (pag. 13, sent.); b) la prosecuzione degli indebiti versamenti di denaro a Bonanno per alcuni mesi dopo la fine dei rapporti tra le aziende dei ricorrenti e la “RAGIONE_SOCIALE“, rimasta sostanzialmente inspiegata, perché COGNOME, espressamente interrogato sul punto, si è mostrato per lo meno ondivago e malcerto (amplius, pag. 14, sent.); c) il fatto che la collaborazione prestata da COGNOME ai ricorrenti non si sia limitata all’agevolazione dei pagamenti spettanti alle loro aziende, ma si sia estesa alla veicolazione, in anteprima e in esclusiva, di informazioni riservate.
Soprattutto con riferimento a tal ultimo profilo, va osservato che, quando il rapporto affaristico tra pubblico funzionario e privato non abbia ad oggetto un singolo o determinato atto, il giudizio sulla natura di tale relazione deve necessariamente essere di tipo diacronico e verificare com’essa si sia in concreto evoluta, non potendo tale valutazione essere condotta secondo classificazioni rigide ed immodificabili, come se si trattasse di qualificare un contratto lecito.
È ben possibile, allora, che un rapporto di tal genere, nato su basi asimmetriche, possa progressivamente trasformarsi in un patto “tra pari”, essendo, anzi, nient’affatto improbabile che ciò avvenga quando, come normalmente accade nelle relazioni umane, si venga ad instaurare tra le parti un rapporto fiduciario per effetto di una reciproca affidabilità sperimentata in concreto. Nel qual caso, non si vede per quale ragione dovrebbe escludersi la configurabilità di una fattispecie corruttiva nell’ipotesi in cui il privato, volgendo proprio favore l’iniziale rapporto di soggezione rispetto al pubblico funzionario infedele, riesca poi ad instaurare con lui una relazione connotata dal mutuo scambio di indebite utilità su base del tutto volontaria.
Nello specifico, dunque, le anzidette circostanze rammentate in sentenza, soprattutto se lette unitamente tra loro, sorreggono agevolmente sul piano logico la conclusione per cui la determinazione degli imputati di versare “tangenti” a Bonanno – con ogni verosimiglianza sin dall’inizio, ma, comunque, al di là di ogni dubbio ragionevole nel successivo dispiegarsi del loro rapporto – non abbia rappresentato una condotta di fatto obbligata dalla necessità di evitare altrimenti un ingiusto pregiudizio, né dall’intento di speculare un vantaggio loro non dovuto e non raggiungibile se non soggiacendo al volere di costui, quanto piuttosto lo strumento per accaparrarsene un pregiudiziale favore, onde ritrarne utilità loro non legittimamente spettanti.
La qualificazione dei fatti di reato nella fattispecie della corruzione per l’esercizio della funzione, a norma degli artt. 318 e 321, cod. pen., deve perciò ritenersi corretta.
Non altrettanto può dirsi dell’attribuzione a COGNOME da parte dei giudici distrettuali, della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale, sebbene non tutte l censure difensive sul punto meritino di essere assentite.
2.1. Non può esserlo, anzitutto, quella che revoca in dubbio la natura di “pubblico servizio” dell’attività svolta dalla “RAGIONE_SOCIALE
È indiscusso che, al fine di individuare se l’attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen., non rileva la sua veste giuridica, che, qualora si tratti di un’attivi economica, può anche essere una di quelle tipicamente previste dalla legge civile per l’attività dei privati; il dato qualificante, piuttosto, è rappresentato dal f che l’attività dell’ente sia disciplinata da norme di diritto pubblico, giacché – ed i quanto – diretta al soddisfacimento di interessi generali (per tutte: Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190).
In questo senso, del resto, nella disciplina riguardante specifici settori dell’attività amministrativa, l’ordinamento offre significativi e puntuali riferiment
Così, per esempio, il d. Igs. 31 marzo 2023, n. 36 (“codice dei contratti pubblici”), qualifica come «”organismo di diritto pubblico”, qualsiasi soggetto, anche avente forma societaria: 1) dotato di capacità giuridica; 2) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, attraverso lo svolgimento di un’attività priva di carattere industriale o commerciale; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione s soggetta al controllo di questi ultimi (…) .
Ed un utile, quanto eloquente dato normativo si rinviene pure nel d. Igs. 19 agosto 2016, n. 175 (“testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”), il quale, all’art. 4, nel disciplinare le finalità perseguibili mediante l’acquisizion la gestione di partecipazioni pubbliche, stabilisce che: «le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società» (comma 1); ulteriormente specificando che, in tali limiti, tali amministrazioni possono «costituire società e acquisire o mantenere partecipazioni in società esclusivamente per lo svolgimento delle attività sotto indicate: a) produzione di un servizio di interesse generale, ivi
inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai serviz medesimi (…)».
E’ sufficiente considerare, allora, per un verso, che la “RAGIONE_SOCIALE” è un’azienda a capitale pubblico del Comune di Palermo, da questo controllata e per il quale opera in via esclusiva, occupandosi della raccolta dei rifiuti e del servizio d’igiene ambientale, come da contratto di servizio; e, per l’altro, che è indiscutibile la natura di tali servizi come d’interesse generale per la collettività territoriale riferimento. Anche per questo aspetto, semmai necessario, è ancora una volta il citato d. Igs. n. 175 del 2016 a venire incontro all’interprete, là dove, all’art. comma 1, lett. h), definisce «”servizi di interesse generale” le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale».
D’altronde, questa Corte si è costantemente espressa nel senso della natura pubblica dei servizi di raccolta e gestione dei rifiuti (fra le molte: Sez. 6, n. 182 del 27/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278125; Sez. 6, n. 49286 del 07/07/2015, COGNOME, Rv. 265702; Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, COGNOME, Rv. 257384).
2.2. Dove la sentenza impugnata erra, invece, è nell’attribuzione al COGNOME della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale.
Anche in questo caso, i giudici distrettuali individuano correttamente la regula iuris, ma ne fanno un’applicazione sbagliata, assegnando a costui poteri autoritativi, in ragione della sua competenza all’emissione del visto di conformità propedeutico alla liquidazione delle fatture presentate alla “RAGIONE_SOCIALE” dalle aziende fornitrici.
Errano, però, pure le difese dei ricorrenti, là dove deducono che a lui fossero affidate mansioni di puro ordine, non potendo perciò essere qualificato neppure come incaricato di pubblico servizio.
2.2.1. Anche sotto il profilo in esame, la giurisprudenza di questa Corte, sulle affermazioni di principio, è ormai consolidata, nel senso che:
la qualifica di “pubblico ufficiale” dev’essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della pubblica amministrazione oppure
esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati;
b) sono, invece, “incaricati di un pubblico servizio” coloro i quali, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purché non svolgano semplici mansioni di ordine, né prestino opera meramente materiale; il pubblico servizio, cioè, è un’attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è sol in rapporto di accessorietà o complementarietà;
c) rientrano nel concetto di “poteri autoritativi” non soltanto quelli coercitivi, ma anche tutte le attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto, il quale viene perciò a trovarsi su un piano non paritetico – di diritto privato – rispetto all’autorità che tale potere eserc rientrano, invece, nel concetto di “poteri certificativi” tutte quelle attivit documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado (per tutte, Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu, Rv. 191171, 191172, 191173).
2.2.2. Se così è, risulta agevole escludere, anzitutto, che COGNOME svolgesse mansioni semplicemente di ordine e di tipo puramente materiale.
Al di là della qualifica formale, quella, cioè, di direttore tecnico del principal sito di convogliannento e trattamento di rifiuti di una città di diverse centinaia d migliaia di abitanti, qual è Palermo, ruolo in sé difficilmente conciliabile con compiti puramente materiali e non di tipo intellettivo, è sufficiente richiamare gli stralci de dialoghi intercettati tra lui e la ricorrente Pisasale, nei quali egli mostra, ed an rivendica, i propri poteri gestori e la propria influenza sulle scelte amministrative della “RRAGIONE_SOCIALE.” (pag. 16, sent.); e, se anche questi non bastassero, soccorrerebbero comunque le testimonianze dei vertici della società (il legale rappresentante COGNOME, il direttore generale COGNOME ed il dirigente dell’area finanza e bilancio Collesano), i quali – secondo quanto adduce lo stesso COGNOME nel suo ricorso (pag. 15) – hanno tutti concordemente riferito che la vidimazione delle fatture e la decisione sulla compensazione delle stesse con eventuali crediti competessero al COGNOME limitandosi gli organi amministrativi all’adozione formale dei relativi atti.
2.2.3. Allo stesso modo, però, non possono a lui essere attribuiti i poteri tipici della pubblica funzione.
Quelli “certificativi”, in particolare, non li riconosce nemmeno la sentenza impugnata, giacché ad essi non fa alcun riferimento; e, in effetti, tali non possono qualificarsi i compiti del COGNOME, le cui “attestazioni” (semmai si volessero così intendere i visti sulle fatture dei fornitori e gli esiti dell’attività ist strumentale alla liquidazione dei relativi corrispettivi) erano destinate ad avere
rilevanza soltanto nei rapporti interni alla società, senza alcuna valenza autoritativa sulla controparte contrattuale.
E da ciò discende, a maggior ragione, l’impossibilità di riconoscergli anche i poteri “autoritativi”. Volendo ulteriormente specificare quanto già detto dalla citata “sentenza Delogu”, questi sono i poteri in forza dei quali la pubblica amministrazione, esercitando quelle prerogative che l’ordinamento giuridico le assegna per la tutela di interessi collettivi, impone le proprie determinazioni al cittadino, il quale deve soggiacervi, salva la possibilità di esperire i rimedi giurisdizionali od amministrativi eventualmente accordatigli dall’ordinamento medesimo.
Con tali poteri, invece, non possono essere confuse quelle situazioni – di puro fatto, ma non di diritto – in cui, nello svolgimento di un rapporto negoziale con la pubblica amministrazione, la parte pubblica e, per essa, il funzionario che interagisca con la controparte privata versino in una condizione di maggiore “forza contrattuale”.
Nella realtà delle cose, si tratta di un’evenienza nient’affatto improbabile, considerando che, a differenza del funzionario pubblico, il privato assume su di sé il rischio economico dell’operazione e, per altro verso, non di rado è interessato a coltivare buone relazioni con l’amministrazione in prospettiva di ulteriori commesse, perciò venendo a trovarsi nella condizione di “contraente debole”. Ciò non di meno, in questi casi non si configura quella disparità di posizioni “istituzionale”, tale perché prevista dall’ordinamento giuridico, tra agente pubblico (che decide e impone) e cittadino (che soggiace), invece essenziale perché possa parlarsi di potere “autoritativo”.
Proprio questo, però, è l’errore in cui è incorsa la Corte distrettuale, che ha ritenuto COGNOME depositario di poteri autoritativi, per il sol fatto della sua qualità di direttore tecnico del sito e del suo potere d’influire in modo decisivo sull’ammontare e sui tempi di liquidazione dei corrispettivi delle aziende degli imputati (pag. 19, sent.): un potere, tuttavia, soltanto di fatto, in ragione dell prassi seguite dalla “R.ARAGIONE_SOCIALE.”, e non, invece, perché a quest’ultima – e per essa a lui – fosse giuridicamente riconosciuto il potere di determinare unilateralmente quegli aspetti.
2.3. A Bonanno, dunque, dev’essere riconosciuta la qualità d’incaricato di pubblico servizio, a norma dell’art. 358, cod. pen., in coerenza, d’altronde, con la giurisprudenza di questa Corte formatasi con riferimento agli organi direttivi delle società per azioni a prevalente capitale pubblico operanti nella gestione dei servizi pubblici territoriali in materia di rifiuti (tra altre: Sez. 6, n. 1826 del 2020, Sez. 6, n. 45908 del 2013, cit.).
2.4. In ragione di tanto, ai ricorrenti dovrà essere applicato il meno rigido trattamento sanzionatorio di cui all’art. 320, secondo comma, cod. pen..
Trattandosi di valutazione di fatto, come tale rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, il processo dev’essere perciò rinviato a quest’ultimo, previo annullamento, sul punto, della sentenza impugnata.
Venendo alla disamina degli ulteriori motivi di ricorso rassegnati in via esclusiva dalla ricorrente COGNOME, quello con cui se ne contesta il concorso nel reato non è fondato.
Ella non era solamente la convivente del coimputato COGNOME ma era la socia unica e la rappresentante legale di entrambe le società di cui quegli era il responsabile tecnico ed operativo; e, soprattutto, è stata colei che ha consegnato personalmente nelle mani di COGNOME le “tangenti” nei due episodi direttamente accertati dagli investigatori, peraltro avvenuti con modalità e cautele rappresentative di una significativa esperienza, ed era, pure, l’abituale interlocutrice diretta dello stesso COGNOME per gli affari delle società.
Là dove, dunque, lascia intendere che costei sia stata parte ab origine del patto corruttivo, la motivazione della sentenza si presenta ampiamente ragionevole; senza contare che, quand’anche, in ipotesi, l’accordo criminoso fosse stato concluso senza il suo personale contributo, ella, essendosi personalmente occupata del versamento delle somme pattuite, comunque avrebbe concorso nel reato. In tema di corruzione, infatti, mentre non risponde a titolo di concorso il terzo che, non essendo stato parte dell’accordo corruttivo, intervenga nella sola fase esecutiva adoperandosi per la sua realizzazione, deve considerarsi concorrente nel reato colui che, pur rimasto estraneo al patto illecito, abbia avuto piena e consapevole compartecipazione nel reperire, creare o mettere a disposizione del funzionario infedele il prezzo della corruzione, posto che non si tratta di un’attività meramente esecutiva della pattuizione illecita, bensì costituisce essa stessa frazione di una delle condotte tipiche mediante le quali il reato si consuma e rappresenta il momento di massima estrinsecazione dell’offesa al bene giuridico tutelato (Sez. 6, n. 168 del 12/10/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284266).
Le considerazioni difensive sull’eventuale inconsapevolezza dell’imputata riguardo al contenuto della busta consegnata a Bonanno od al carattere indebito di tale dazione, poi, sono obiezioni non soltanto di puro fatto, già per questo non sindacabili in questa sede, ma sono, altresì, puramente ipotetiche, perché non sorrette da risultanze istruttorie anche soltanto difficilmente conciliabili con l ricostruzione dei fatti concordemente compiuta dai giudici di merito.
Né la motivazione della decisione si presenta contraddittoria od altrimenti irragionevole nella parte in cui ha escluso l’attendibilità delle dichiarazioni, per le salvifiche, del suo compagno, diversamente da quanto avvenuto per quelle, di contenuto accusatorio, dallo stesso COGNOME rese all’indirizzo di COGNOME. Dal punto di vista logico, infatti, si presenta indiscutibilmente più plausibile la diver valutazione compiuta dai giudici di merito, sol che si considerino il rapporto del tutto diverso, sul piano umano e degli affari, che legava quel dichiarante ai due soggetti ed il correlato suo interesse ad aggravare la posizione dell’uno e ad alleggerire quella dell’altra.
Debbono ritenersi superate, invece, le residue doglianze, entrambe riguardanti il trattamento sanzionatorio. Dovendo nuovamente pronunciarsi sul punto il giudice di rinvio, su di esse non v’è necessità di trattenersi.
P.Q.M.
Qualificate le condotte contestate ai sensi degli artt. 318 e 320, cod. pen., annulla la sentenza impugnata e rinvia per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2025.