Inammissibilità ricorso: quando un errore strategico preclude l’esame in Cassazione
L’esito di un processo penale dipende non solo dalla fondatezza delle proprie ragioni, ma anche dal rigoroso rispetto delle regole procedurali. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un punto fondamentale: l’inammissibilità del ricorso quando i motivi presentati non sono stati precedentemente sollevati in appello. Questo principio, apparentemente tecnico, ha conseguenze pratiche enormi per l’imputato e sottolinea l’importanza di una strategia difensiva attenta fin dai primi gradi di giudizio.
I Fatti del Caso
Il caso in esame riguarda un ricorso presentato alla Suprema Corte avverso una sentenza della Corte d’Appello di Palermo. L’imputato, tramite il suo difensore, sollevava un’unica questione: un presunto errore nella valutazione della recidiva, ovvero la condizione di chi commette un nuovo reato dopo una precedente condanna. La difesa sosteneva che la Corte d’Appello avesse errato nel riconoscere tale aggravante, chiedendone di fatto l’annullamento.
La Decisione della Corte di Cassazione e l’Inammissibilità del Ricorso
La Corte di Cassazione non è entrata nel merito della questione. Non ha valutato se la recidiva fosse stata applicata correttamente o meno. Al contrario, ha tagliato corto, dichiarando il ricorso inammissibile. La ragione di questa drastica decisione risiede in un vizio procedurale insuperabile: la questione della recidiva non era mai stata sollevata come specifico motivo di doglianza nell’atto di appello. Di conseguenza, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di tremila euro alla Cassa delle ammende.
Le Motivazioni
La motivazione della Corte si basa su un principio cardine del nostro sistema processuale, sancito dall’articolo 606, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce che non è possibile presentare per la prima volta in Cassazione motivi che non siano stati dedotti in appello. Il giudizio di appello, infatti, delimita l’oggetto della discussione futura (il cosiddetto ‘effetto devolutivo’). Il giudice di secondo grado può pronunciarsi solo sui punti della sentenza di primo grado che sono stati specificamente contestati dalle parti.
Se una questione, come quella sulla recidiva, non viene inclusa tra i motivi di appello, si forma una sorta di ‘preclusione’. La Corte di Cassazione, il cui ruolo è quello di verificare la corretta applicazione della legge (giudizio di legittimità) e non di riesaminare i fatti, non può quindi prendere in considerazione una censura ‘nuova’. La Suprema Corte ha inoltre precisato che, qualora il riepilogo dei motivi d’appello riportato nella sentenza impugnata fosse stato incompleto o errato, sarebbe stato onere del ricorrente contestarlo specificamente, producendo gli atti necessari a dimostrare la sua tesi. Non avendolo fatto, il ricorso è risultato inevitabilmente inammissibile.
Le Conclusioni
Questa ordinanza offre un importante monito: la costruzione di una difesa efficace richiede una pianificazione meticolosa sin dal primo grado di giudizio. Ogni possibile motivo di contestazione deve essere attentamente valutato e formalizzato nei rispettivi atti di impugnazione. Dimenticare di inserire un motivo nell’atto di appello significa, nella maggior parte dei casi, perdere definitivamente la possibilità di farlo valere in Cassazione. La conseguenza non è solo il rigetto della propria istanza, ma anche una condanna economica che aggrava la posizione dell’imputato. La forma, nel diritto processuale, è sostanza, e un errore procedurale può chiudere la porta a qualsiasi discussione sul merito della questione.
È possibile presentare un motivo di ricorso per la prima volta in Cassazione?
No, la Corte ha chiarito che un motivo di ricorso non sollevato precedentemente nell’atto di appello non può essere esaminato in sede di legittimità, rendendo il ricorso inammissibile, come previsto dall’art. 606, comma 3, del codice di procedura penale.
Qual è la conseguenza dell’inammissibilità del ricorso in questo caso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta non solo il mancato esame del merito della questione, ma anche la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro (nel caso specifico, tremila euro) in favore della Cassa delle ammende.
Cosa avrebbe dovuto fare il ricorrente se il riassunto dei motivi d’appello nella sentenza impugnata fosse stato errato?
Secondo la Corte, se il ricorrente avesse ritenuto che la sentenza d’appello riportasse in modo incompleto o errato i motivi originariamente presentati, avrebbe dovuto contestare specificamente tale riepilogo nel suo ricorso per cassazione, dimostrando la discrepanza.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 10563 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 10563 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 17/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a SANTA FLAVIA il 28/04/1968
avverso la sentenza del 17/04/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO
Letto il ricorso di COGNOME Stefano;
ritenuto che l’unico motivo di ricorso, che deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della recidiva, non è consentito in sede di legittimità perché la censura non risulta essere stata previamente dedotta come motivo di appello secondo quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 606 comma 3 cod. proc. pen., come si evince dal riepilogo dei motivi di gravame riportato nella sentenza impugnata (si veda pag. 1), che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto contestare specificamente nell’odierno ricorso, se incompleto o comunque non corretto (ex multis: Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Rv. 270627 – 01);
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2024.