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Inammissibilità ricorso Cassazione: limiti ex art. 448

La Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità di un ricorso contro una sentenza del Giudice dell’Udienza Preliminare. La decisione si basa sulla constatazione che i motivi addotti dal ricorrente non rientravano nelle specifiche categorie previste dall’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale. Questa ordinanza ribadisce la rigidità dei presupposti per impugnare determinate sentenze, comportando per il ricorrente la condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 4.000 euro. Il caso evidenzia l’importanza di una corretta formulazione dei motivi per evitare l’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Inammissibilità Ricorso Cassazione: Quando l’Appello è Destinato a Fallire

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha riaffermato i rigidi paletti che governano l’accesso al giudizio di legittimità, in particolare per le sentenze emesse in seguito a riti premiali. L’analisi del provvedimento offre spunti cruciali per comprendere l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e le sue pesanti conseguenze, tra cui la condanna a spese e sanzioni pecuniarie. Questo principio serve a garantire l’efficienza del sistema giudiziario, filtrando i ricorsi che non presentano vizi specificamente previsti dalla legge.

Il Caso in Esame: Un Ricorso Respinto in Partenza

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza del Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) di Verona. L’imputato, tramite il suo legale, ha tentato di portare la questione all’attenzione della Suprema Corte, contestando la decisione di primo grado. Tuttavia, il suo tentativo si è scontrato con una barriera procedurale insormontabile, che ha portato a una declaratoria di inammissibilità ancora prima di un esame nel merito.

I Limiti all’Impugnazione e l’Inammissibilità del Ricorso in Cassazione

Il cuore della questione risiede nell’articolo 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale. Questa norma, introdotta con la legge n. 103 del 2017 (la cosiddetta “Riforma Orlando”), ha limitato drasticamente i motivi per cui è possibile impugnare in Cassazione una sentenza di patteggiamento. I motivi ammessi sono tassativi e riguardano esclusivamente:

* L’espressione della volontà dell’imputato;
* Il difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza;
* L’erronea qualificazione giuridica del fatto;
* L’illegalità della pena o della misura di sicurezza.

Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che le censure mosse dal ricorrente esulavano completamente da questo elenco. I motivi proposti non rientravano in alcuna delle categorie consentite, rendendo il ricorso manifestamente infondato dal punto di vista procedurale.

La Decisione della Corte: Applicazione Rigorosa della Norma

Di fronte a un ricorso con motivi non consentiti, la Suprema Corte ha applicato l’articolo 610, comma 5-bis, del codice di procedura penale. Tale disposizione consente di dichiarare l’inammissibilità “senza formalità”, ovvero con una procedura accelerata, quando i motivi sono palesemente estranei a quelli previsti dalla legge.

La conseguenza diretta di questa decisione è stata duplice: in primo luogo, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali. In secondo luogo, e in modo ancora più significativo, è stato condannato al versamento di una somma di euro 4.000,00 in favore della Cassa delle ammende, una sanzione che mira a scoraggiare la presentazione di ricorsi palesemente inammissibili.

Le motivazioni

La motivazione della Corte si fonda su un’interpretazione rigorosa e letterale della normativa vigente. Il legislatore, con la riforma del 2017, ha inteso deflazionare il carico di lavoro della Corte di Cassazione, limitando l’accesso per quelle sentenze che nascono da un accordo tra le parti, come il patteggiamento. L’idea di fondo è che, se l’imputato accetta un determinato esito processuale, la sua facoltà di contestarlo successivamente deve essere circoscritta a vizi gravi e specifici, che intaccano la validità stessa dell’accordo o la legalità della pena. Qualsiasi altro motivo di doglianza è considerato irrilevante ai fini dell’impugnazione. La pronuncia “senza formalità” è lo strumento processuale che permette di attuare questo principio in modo rapido ed efficiente, evitando di impegnare le risorse della Corte in un’udienza pubblica per discutere un ricorso privo dei presupposti di legge.

Le conclusioni

L’ordinanza in esame rappresenta un monito importante per gli operatori del diritto. La presentazione di un ricorso per Cassazione, specialmente in ambito penale e avverso sentenze da rito premiale, richiede un’analisi preliminare estremamente attenta dei motivi ammissibili. Proporre censure generiche o non rientranti nell’elenco tassativo dell’art. 448, comma 2-bis, c.p.p. non solo non porta ad alcun risultato utile per l’assistito, ma espone quest’ultimo a conseguenze economiche rilevanti. La decisione della Suprema Corte consolida un orientamento giurisprudenziale volto a preservare la funzione di nomofilachia della Corte stessa, sanzionando l’abuso dello strumento processuale e garantendo che solo le questioni di legittimità meritevoli di approfondimento giungano al suo vaglio.

In quali casi è possibile ricorrere in Cassazione contro una sentenza come quella del caso di specie?
Secondo l’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, il ricorso è ammesso solo per motivi specifici: vizi relativi all’espressione della volontà dell’imputato, mancanza di correlazione tra la richiesta e la sentenza, erronea qualificazione giuridica del fatto, o illegalità della pena o della misura di sicurezza.

Cosa accade se un ricorso viene presentato per motivi non previsti dalla legge?
Il ricorso viene dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione, spesso con una procedura semplificata e senza udienza pubblica. Questa declaratoria comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Quali sono le conseguenze economiche di un ricorso inammissibile?
Oltre alla condanna al pagamento delle spese processuali, il ricorrente viene condannato a versare una somma di denaro alla Cassa delle ammende. Nell’ordinanza esaminata, tale somma è stata quantificata in 4.000,00 euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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