Impugnazione Patteggiamento: la Cassazione chiarisce i limiti del ricorso
L’istituto del patteggiamento, o applicazione della pena su richiesta delle parti, rappresenta una delle vie più comuni per la definizione dei procedimenti penali. Tuttavia, le possibilità di contestare la sentenza che ne deriva sono molto limitate. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre un importante chiarimento su quando una impugnazione patteggiamento sia da considerarsi inammissibile, specialmente se basata su apparenti, ma non sostanziali, discordanze nella pena.
I Fatti del Caso
Il caso ha origine dal ricorso di un imputato condannato per guida in stato di ebbrezza aggravato. L’imputato aveva concordato con il Pubblico Ministero una pena di 44 giorni di arresto. Il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP), nell’emettere la sentenza, aveva però irrogato una pena quantificata in “mesi uno e giorni 14 di arresto”.
Ritenendo che vi fosse una violazione dell’accordo e una mancata applicazione del patto, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando proprio questa discrepanza formale.
La Decisione della Corte di Cassazione e l’Impugnazione Patteggiamento
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile senza neppure procedere con le formalità di udienza. La decisione si fonda su una precisa norma procedurale, l’articolo 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale.
Questa disposizione, introdotta con la riforma del 2017, stabilisce che la sentenza di patteggiamento può essere impugnata solo per motivi molto specifici, tra cui:
* Vizi nella manifestazione della volontà dell’imputato.
* Difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza.
* Erronea qualificazione giuridica del fatto.
* Illegalità della pena o della misura di sicurezza applicata.
Il motivo sollevato dal ricorrente, secondo la Corte, non rientrava in nessuna di queste categorie.
Le Motivazioni della Sentenza
Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione del concetto di “pena”. La Corte ha sottolineato che il vizio lamentato non costituiva una reale violazione della volontà dell’imputato o un difetto di correlazione tra richiesta e sentenza. La ragione è puramente matematica e giuridica, e si trova nell’articolo 134 del codice penale.
Secondo tale articolo, nel computo delle pene, i mesi sono considerati di 30 giorni ciascuno. Di conseguenza, una pena di “un mese e 14 giorni” equivale esattamente a 44 giorni (30 + 14). La pena irrogata dal GIP, sebbene espressa in una forma diversa, era nella sostanza identica a quella concordata tra le parti. Non vi era quindi alcuna illegalità né alcuna modifica dell’accordo. La doglianza del ricorrente si basava su un cavillo puramente formale, privo di qualsiasi rilevanza giuridica sostanziale.
Le Conclusioni
Questa ordinanza ribadisce con forza i confini molto stretti entro cui è possibile muovere una impugnazione patteggiamento. La Corte di Cassazione chiarisce che non sono ammesse contestazioni basate su mere differenze nominali o formali che non incidono sulla sostanza della pena concordata. Per i difensori e gli imputati, ciò significa che un eventuale ricorso deve fondarsi su vizi concreti e legalmente riconosciuti, come un errore nel calcolo che porti a una pena effettivamente più grave, un’errata qualificazione del reato o un difetto nel consenso, e non su semplici differenze nel modo di esprimere una quantità di pena identica. La conseguenza di un ricorso infondato, come in questo caso, è non solo la sua dichiarazione di inammissibilità, ma anche la condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
Perché il ricorso contro la sentenza di patteggiamento è stato respinto?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché il motivo sollevato non rientrava tra quelli tassativamente previsti dalla legge (art. 448, comma 2-bis c.p.p.). La presunta differenza nella pena era solo formale e non sostanziale.
Una pena di ‘un mese e 14 giorni’ è legalmente diversa da una di ’44 giorni’?
No. In base all’articolo 134 del codice penale, per il calcolo delle pene il mese è considerato di 30 giorni. Pertanto, ‘un mese e 14 giorni’ (30 + 14) corrisponde esattamente a 44 giorni, rendendo le due espressioni legalmente identiche.
Quali sono le conseguenze per chi presenta un ricorso inammissibile in questi casi?
La parte che ha presentato il ricorso inammissibile viene condannata al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, che nel caso specifico è stata fissata in quattromila euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 2895 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 2895 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PONTEDERA il 19/03/1965
avverso la sentenza del 06/06/2024 del GIP TRIBUNALE di PISTOIA
ll- udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
t
•
Motivi della decisione
Il ricorrente in epigrafe ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. dal Tribunale di Pistoia per il reato di guida in stato di ebb aggravato.
L’esponente deduce vizio relativo alla mancata applicazione del patto, essendo stata concordata una pena pari a 44 giorni di arresto, mentre era stata irrogata la pena di mesi uno e giorni 14 di arresto.
Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso senza formalità ai sensi dell’art. 610, comma 5-bis cod. proc. pen, introdotto dall’art. 1, comma 62, della legge 23.6.2017 n. 103, a decorrere dal 3 agosto 2017.
Ed invero, a far tempo da tale ultima data, successive alla quale sono sia la richiesta d patteggiamento che la relativa impugnativa (cfr. art. 1, co. 51, della L. 23.6.2017 n. 103 pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena ex artt. 444 e so. cod. proc. pen. “solo per motivi attinenti all’espressi della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza all’e qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena e della misura di sicurezza” (ar comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dalla legge n.103/17).
Orbene, é agevole rilevare il vizio lamentato non costituisce una violazione della volontà dell’imputato, atteso che, per legge, le pene si computano in giorni, mesi e anni ( art. 134 co pen.).
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro quattromila, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di quattromila euro in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2024
Il Consigliere stensore
GLYPH