Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 21614 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 1 Num. 21614 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 10/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a NORIMBERGA( GERMANIA) il 01/09/1994
avverso l’ordinanza del 06/11/2023 del TRIB. RAGIONE_SOCIALE di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME lette le conclusioni del PG, ASSUNTA COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza emessa il 6 novembre 2023, il Tribunale di Napoli ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta nell’interesse di NOME COGNOME avverso il provvedimento reso dalla Corte di assise di appello di Napoli il 10 ottobre 2023 con cui, in accoglimento della richiesta del Pubblico ministero, era stata applicata a COGNOME la misura della custodia cautelare in carcere con riferimento ai reati per i quali quella Corte aveva, con decisione del 28 settembre 2023, pronunciato – in riforma della sentenza assolutoria di primo grado condanna a carico dell’imputato.
Sulla scorta di questa analisi il Tribunale ha ritenuto che lo strumento per impugnare l’ordinanza dovesse essere l’appello, essendo esclusa la proponibilità della richiesta di riesame avverso ordinanze diverse da quella che applica per la prima volta la misura cautelare: tuttavia, valutato l’atto, esso è stato considerato privo dei requisiti previsti dall’art. 581, lett. d), cod. proc. pen., poiché è risu mancante dei motivi, e ciò ha determinato la declaratoria di inammissibilità prevista dall’art. 591 cod. proc. pen.
Il Tribunale ha osservato che l’atto con cui era stato introdotto il procedimento impugnatorio, qualificato genericamente come impugnazione, intendeva contrastare il provvedimento cautelare emesso dalla Corte di assise di appello in relazione ai reati di omicidio in danno di NOME COGNOME di tentato omicidio in danno di NOME COGNOME e di detenzione dell’arma utilizzata per i suddetti delitti; tale ordinanza cautelare era seguita ad analogo provvedimento applicativo della medesima misura cautelare nei confronti di COGNOME emesso dal Tribunale del riesame in data 15 settembre 2021, in sede di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., misura che aveva, però, perduto efficacia a seguito dell’assoluzione conseguita da COGNOME in ordine alle suddette imputazioni, in virtù della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 6 ottobre 2022; era poi sopravvenuta la suindicata sentenza di secondo grado del 28 settembre 2023 con cui la Corte di assise di appello di Napoli, ribaltando l’esito di primo grado, aveva dichiarato COGNOME colpevole dei reati succitati, facendo poi seguire, su richiesta del Pubblico ministero, il provvedimento di applicazione della custodia cautelare in carcere; si trattava, secondo il giudice cautelare, del ripristino di una precedente misura, non di un’ordinanza genetica, autonomamente applicativa di misura cautelare. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il difensore di NOME COGNOME chiedendone l’annullamento sulla scorta di un unico motivo con cui ha prospettato l’erronea applicazione degli artt. 275, 309 e 310 cod. proc. pen.
L’impostazione data alla questione della nuova applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dell’imputato non è condivisa dalla difesa del ricorrente: l’originaria misura custodiale era stata emessa con riferimento all’accusa di omicidio volontario e di tentato omicidio, con l’individuazione nell’art. 110 cod. pen. del titolo di concorso ascritto all’imputato mentre la misura oggetto dell’attuale impugnazione era una misura cautelare nuova, anche perché riguardava sempre l’ipotesi di omicidio volontario, ma il titolo del concorso era stato individuato nell’art. 116 cod. pen.; la diversità de reato rispetto a quello che aveva sorretto il primo provvedimento cautelare corrobora, per il ricorrente, la constatazione della novità dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare emessa il 10 ottobre 2023.
Sulla base di questi argomenti il ricorrente sostiene che l’ordinanza applicativa di questa misura vada qualificata come nuova e, a sua volta, genetica: di conseguenza, il rimedio impugnatorio avverso la stessa era da individuarsi nella richiesta di riesame, ossia lo strumento in concreto adottato.
Deriva da tale approdo, secondo la difesa, l’erroneità della decisione assunta dal Tribunale di Napoli che, previa qualificazione dell’atto di impugnazione come appello, lo ha dichiarato inammissibile, non considerando, del resto, che, sia nella richiesta del Procuratore generale territoriale, sia nel provvedimento della Corte di assise di appello non si è discorso di mero ripristino della precedente misura.
Il Procuratore generale, nella requisitoria scritta rassegnata ai sensi nella requisitoria scritta, rassegnata ai sensi dell’art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre del 2020, n. 176, come richiamato dall’art. 16 d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15, nonché, ulteriormente, dall’art. 94, comma 2,, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a sua volta emendato dall’art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18, ha chiesto il rigetto del ricorso evidenziando che la costante elaborazione di legittimità esclude la natura genetica della nuova ordinanza, in quanto l’originaria misura aveva perso efficacia – per effetto della sentenza assolutoria di primo grado – senza però essere eliminata del tutto, sicché il sovvertimento del verdetto assolutorio ne ha comportato la reviviscenza, con i conseguenti effetti in tema di individuazione del mezzo stabilito dall’ordinamento per l’impugnazione.
Il Collegio, alla fissata udienza del 5 marzo 2024, reputata l’emersione dell’importanza della questione da decidere, ha disposto il differimento della deliberazione all’udienza del 10 aprile 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorrente solleva la quaestio iuris relativa all’individuazione del mezzo previsto dall’ordinamento processuale per impugnare il provvedimento cautelare emesso ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., allorquando l’imputato, già destinatario di sentenza di non luogo a procedere o comunque prosciolto, sia successivamente condannato per lo stesso fatto.
La norma indicata abilita, in questa evenienza, il giudice procedente a disporre misure coercitive quando ricorrano le esigenze cautelari prevista dall’art. 274, comma 1, lett. b) oppure c), cod. proc. pen., vale a dire, rispettivamente, il pericolo di fuga ovvero il pericolo di reiterazione dei delitti richiamati.
L’inquadramento del provvedimento cautelare emesso in questa evenienza processuale ha riflesso rilevante sull’individuazione del mezzo appello o richiesta di riesame – previsto per la sua impugnazione.
La differenza fra i due mezzi impugnatori è nota ed è marcata.
Soltanto per evidenziare la rilevanza della questione su cui si impernia l’attuale disamina, in relazione all’inammissibilità dell’impugnazione contestata dal ricorrente, si osserva che, quanto alla sua forma, il gravame costituto dall’appello deve, a pena di inammissibilità, indicare in modo specifico i punti del provvedimento di cui l’impugnante richiede il nuovo esame e deve precisarne le ragioni, pena – in mancanza – il rilievo della sua genericità; genericità che, nella meno recente elaborazione ermeneutica, si intendeva limitata al profilo intrinseco al motivo stesso, così da ritenerla prescissa dal confronto con quanto argomentato dal giudice del provvedimento impugnato, confronto invece necessario per il controllo di specificità della devoluzione operata con il ricorso per cassazione (Sez. Sez. 3, n. 31939 del 16/04/2015, COGNOME, Rv. 264185 – 01; Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasem, Rv. 259456 – 01); verifica della genericità che ora è da intendersi assimilabile, con le dovute specificazioni, a quella che inerisce al ricorso per cassazione, essendosi precisato che l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto p fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME Rv. 268822 – 01; fra le
successive, Sez. 2, n. 51531 del 19/11/2019, Greco, Rv. 277811 – 01).
L’approdo registrato nella vicenda interpretativa dell’istituto ha ricevuto ratifica normativa con la modificazione dell’art. 581 cod. proc. pen., con l’inserimento del comma 1-bis (in forza dell’art. 33, comma :L, lett. d, d.lgs. 15 ottobre 2022, n. 150), al lume del quale l’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione.
I riflessi in tema di appello cautelare, di cui all’art. 310 cod. proc. pen., son intuitivi: si ritiene, invero, che l’appello cautelare possegga la fisionomi strutturale e strumentale degli ordinari mezzi di impugnazione. Pertanto, a tale mezzo devono applicarsi le norme generali in materia, tra cui le disposizioni di cui agli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., con l’effetto che questa impugnazione, non solo deve indicare i capi e i punti ai quali si riferisce, ma deve anche enunciare i corrispondenti motivi, con l’indicazione specific:a delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta (Sez. 5, n. 9432 del 12/01/2017, COGNOME, Rv. 269098 – 01; Sez. 1, n. 32993 del 22/03/2013, COGNOME, Rv. 256996 – 01).
Sempre circoscrivendo il discorso alla forma dell’atto, la richiesta di riesame proposta avverso l’ordinanza applicativa della misura cautelare, ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., non esige la necessaria articolazione in motivi dei profili di censura. Si suole precisare che, nell’ambito del riesame di misure cautelari personali, il difetto di specificità dei motivi non comporta l’inammissibilit dell’impugnazione, stanti la natura interamente devolutiva del mezzo l’inapplicabilità dell’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. e la conseguente facoltatività dell’indicazione dei motivi stessi (Sez. 5, n. 36917 del 20/06/2017, C., Rv. 271307 – 01); ciò, con l’opportuna specificazione che la natura interamente devolutiva di tale mezzo di impugnazione e la facoltatività dell’indicazione dei motivi non comportano l’automatica rilevanza di doglianze di carattere generico, dal momento che, in assenza della formulazione di specifiche questioni sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il giudice del riesame, pur tenuto a verificare anche tale presupposto, può, in presenza di un provvedimento motivato, limitarsi a richiamare il contenuto del titolo genetico, a condizione che mostri di averlo comunque valutato (Sez. 6, n. 56968 del 11/09/2017, COGNOME, Rv. 272202 – 01).
In ogni caso, la richiesta di riesame, integrando un mezzo di impugnazione con effetto interamente devolutivo, determina la conseguenza che il tribunale può annullare o riformare in senso favorevole all’imputato il provvedimento
impugnato anche per motivi diversi da quelli enunciati nell’atto di impugnazione, così come può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nell motivazione dell’ordinanza cautelare, ferma restando l’attenuazione dell’obbligo motivazionale rispetto ai punti non oggetto di censura, qualora la richiesta deduca contestazioni avverso uno solo dei presupposti applicativi della misura (Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, Valorosi, Riv. 278314 – 03).
D’altro canto, il discrimen fra i procedimenti a cui danno ingresso la richiesta di riesame, ex art. 309 cod. proc. pen., per un verso, e l’atto di appello, ex art. 310 cod. proc. pen., per altro verso, rileva anche per diversi altri ambiti, fra quali la possibilità, in sede di riesame, di introdurre motivi nuovi in sede camerale, la diversità e la natura dei termini fissati per io svolgimento del procedimento e l’emissione del provvedimento, nonché le modalità di svolgimento del procedimento stesso in relazione agli elementi acquisibili e utilizzabili per la decisione e ai poteri istruttori dei giudici procedenti.
Non pare indispensabile, in questa evenienza, puntualizzare nei dettagli le ulteriori, sensibili differenze fra i due strumenti impugnatori, né approfondire gl effetti determinati dalla riqualificazione dello strumento impugnatorio adottato dalla parte (e i loro limiti: cfr., ad esempio, Sez. 1, n. 16819 del 23/04/2010, COGNOME, Rv. 247078 – 01, quanto all’irrilevanza del mancato rispetto dei termini prescritti per la decisione in ipotesi di appello riqualificato com riesame), essendo sufficiente il richiamo alla forma di tali atti ora operato, in quanto è questo requisito che qui primariamente rileva, giacché in virtù della sua valutazione è stata ritenuta dal Tribunale l’inammissibilità dell’impugnazione.
3. L’analisi comparata della disciplina istitutiva dei mezzi di impugnazione in discorso muove dall’assodata constatazione che il riesame è funzionalizzato all’impugnazione del provvedimento “che dispone una misura coercitiva”, mentre l’appello è lo strumento per impugnare, da parte del pubblico ministero, il provvedimento di diniego dell’applicazione della succitata misura nonché quello che modifica, revoca o sostituisce la misura coercitiva già applicata.
In via di prima approssimazione, l’individuazione in via residuale dell’area di operatività dell’appello cautelare (“fuori dei casi previsti dall’art. 309, comma 1”) orienta a individuare nell’appello il mezzo previsto per l’impugnazione dello stesso provvedimento che ripristina la medesima misura cautelare. Viceversa, quando la prima misura coercitiva sia stata caducata e successivamente si applichi una nuova misura parimenti coercitiva, l’autonomia di questa ulteriore misura ne determina l’impugnabilità con la richiesta di riesame.
Nella varietà delle fattispecie verificabili nel corso della vicenda della misura cautelare coercitiva, per alcune risulta non agevole la collocazione del
provvedimento nell’una o nell’altra delle indicate categorie al conseguente fine dell’individuazione del mezzo previsto per la corrispondente impugnazione.
Fra queste il Collegio considera da annoverarsi quella che qui rileva, inerente all’emissione da parte del giudice procedente della misura cautelare coercitiva prevista dal già ricordato art. 300, comma 5, cod. proc. pen. allorquando l’imputato, già prosciolto, sia stato successivamente condannato per lo stesso fatto e il giudice procedente abbia disposto nei suoi confronti la misura coercitiva stessa, avendo apprezzato come sussistenti le esigenze cautelari ex art. 274, comma 1, lett. b) o c), cod. proc. pen.
3.1. Il non vasto quadro dì arresti che ha affrontato il tema, ove si limiti l verifica alle decisioni massimate, pare fornire l’orientamento dell’esegesi di legittimità verso la proposizione dell’appello.
Si è, in tale senso, affermato che, in tema di misure cautelari personali, è impugnabile con l’appello – e non con il riesame – l’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, previamente revocata a seguito di assoluzione e successivamente riadottata a seguito di condanna in sede di appello, in quanto, in questo caso, si considera che la misura genetica abbia perduto efficacia per effetto della sentenza assolutoria di primo grado, senza però essere eliminata del tutto, sicché il sovvertimento del verdetto assolutorio ne comporta la reviviscenza e, di conseguenza il relativo provvedimento di ripristino è soggetto ad appello e non a riesame (Sez. 5, n. 32852 del 05/07/2011, COGNOME, Rv. 250579 – 01).
Questa linea interpretativa considera persistente – pur quando si sia registrata la caducazione del primigenio titolo cautelare in ragione dell’assoluzione dai reati che ne avevano determinato l’emissione – il legame fra il provvedimento caducato e quello sopravvenuto, così argomentando nel senso che quest’ultimo non può essere inquadrato come un nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso necessario e indissolubile che lega l’ordinanza cd. ripristinatoria a quella che ha disposto la precedente misura (Sez. 1, n. 23061 del 12/02/2002, COGNOME, Rv. 221636 – 01).
3.2. Il medesimo indirizzo è maturato in relazione a un’altra fattispecie, tuttavia, non sovrapponibile in modo pedissequo a quella che qui interessa, ossia con riferimento all’impugnazione dell’ordinanza di ripristino della custodia cautelare disciplinata dall’art. 307, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.
Si tratta del caso in giudice procedente ritenga necessario contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo o di secondo grado – ripristinare la misura coercitiva, sempre che ricorra l’esigenza cautelare prevista dall’art. 274, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.: sia pure sulla base di riferimenti letterali e strutturali non pienamente equiparabili alla
fattispecie di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., posto che, ex art. 310 cod. proc. pen., l’appello costituisce impugnazione di carattere generale e residuale, la quale trova applicazione in tutti i casi in cui, per i provvedimenti de libertate, non possa esperirsi il riesame (Sez. 6, n. 27459 del 23/02/2017, COGNOME, Rv. 270409 – 01; Sez. 4, n. 5740 del 05/12/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 239030 – 01; Sez. 6, n. 4072 del 03/11/2000, COGNOME, Rv. 218660 – 01; fra le non nnassimate, Sez. 3, n. 16053 del 26/02/2019, COGNOME NOME; Sez. 6, n. 27459 del 23/02/2017, COGNOME).
Diversa, seppur contigua, è l’individuazione del rimedio esperibile avverso l’ordinanza con la quale il giudice procedente, contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna, abbia modificato in senso peggiorativo il trattamento cautelare, sostituendo la misura in atto con altra di maggiore gravità, individuazione orientata verso l’appello, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., in quanto, persistendo il titolo originario, la modifica non può ritenersi tito genetico del trattamento cautelare (Sez. 1, n. 45653 del 05/06/2015, COGNOME, Rv. 265486 – 01).
3.3. Tornando alla fattispecie di cui all’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., qui direttamente rilevante, si osserva che un meno frequentato orientamento propende per ritenere la misura caducata o comunque divenuta inefficace come mai esistita e, dunque, tamquam non esset, con l’effetto che l’eventuale misura reiterativa, in quanto essa stessa “ordinanza che dispone una misura coercitiva”, è da assoggettarsi alla richiesta di riesame prevista dall’art. 309 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 842 del 08/03/1999, COGNOME, Rv. 213920 – 01).
Nella medesima direzione, sia pure senza affrontare per esplicito il tema dell’ammissibilità del mezzo, ma dando implicitamente per assodata la sussistenza di tale presupposto processuale, altre pronunzie di legittimità hanno esitato procedimenti susseguenti all’emissione di ordinanza di applicazione della misura coercitiva ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. perì., impugnate con richiesta di riesame, e non con atto di appello (così Sez. 1, n. 7642 del 05/03/2003, dep. 2004, COGNOME, Rv. 226846 – 01; Sez. 6, n. 3092 del 04/07/2000, COGNOME, Rv. 217746 – 01, massimate per altro; Sez. 1, n. 6176 del 26/11/2019, dep. 2020, COGNOME, non mass.; Sez. 1, n. 35468 del 17/03/2016, Martino, non mass.).
Si registra quindi, la coesistenza, sia pure con connotati carsici, dell’orientamento interpretativo volto a individuare nell’appello il mezzo per impugnare la suddetta ordinanza.
3.4. Nello stesso senso devono anche considerarsi le osservazioni critiche emerse in sede dottrinale alla concezione – su cui si fonda la tesi dell’appellabilità della misura coercitiva emessa ai sensi dell’art. 300, comma 5,
cod. proc. pen. – della persistenza del legame fra la misura caducata a causa del pregresso proscioglimento e quella ulteriormente resa dopo la sentenza di condanna, in riforma, dell’imputato: per questa ipotesi discorrere del ripristino della misura coercitiva precedente, nelle more divenuta temporaneamente inefficace, comporta la svalutazione della rubrica e del tenore letterale dell’art. 300 cod. proc. pen. in cui il riferimento è all’estinzione delle misure originariamente applicate per effetto della sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (oltre che del provvedimento di archiviazione).
Si fa notare che, per un’altra fattispecie in cui pure è stabilita la perdita efficacia delle misure cautelari coercitive, gli orientamenti interpretativi non dubitano nell’individuare nella richiesta di riesame l’atto di impugnazione deputato a contrastare quella che, ove riemessa, viene considerata una nuova misura: è così in tema di ordinanza emessa dopo la declaratoria di inefficacia della pregressa per l’omissione dell’interrogatorio ai sensi dell’art. 294 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 29687 del 09/07/2003, COGNOME, Rv. 225542 – 01; Sez. 1, n. 12398 del 14/12/2000, dep. 2001, COGNOME, Rv. 218298 – 01).
Si aggiunge che, pur se circoscritta dall’art. 300, comma 5, cod. proc. pen. alle esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lett. b) e c), la valutazione del giudice della cautela e, poi, del giudice dell’impugnazione cautelare deve compiere una nuova e autonoma disamina di tali esigenze, cla compiersi anche alla stregua di tutti gli elementi sopravvenuti, per come emersi nel corso del processo, anche in punto di accertamento del fatto ascritto all’imputato: paradigmatica può, al riguardo, considerarsi la situazione che si esamina nel caso concreto, lì dove la responsabilità concorsuale di COGNOME per il reato di omicidio volontario è stata affermata, non più a titolo di concorso pieno, ex art. 110 cod. pen., bensì a titolo di concorso anomalo, ex art.116 cod. pen.
3.5. Sul punto, del resto, è l’art. 275, comma 1-bis, cod. proc. pen., a specificare che, contestualmente a una sentenza di condanna, l’esame delle esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate nell’articolo 274, comma 1, lettere b) e c), del codice di rito: si è fatto notare che, lungi dall’essere pleonastica, l’interpolazione normativa ora richiamata (come introdotta dall’art. 16, comma 1, d.l. 24 novembre 2000, 341, convertito con modificazioni dalla legge 19 gennaio 2001, 19 gennaio 2001, n. 4, poi sostituito dall’art. 14, comma 1, lett. a, della legge 26 marzo 2001, n. 128), da considerarsi anche in relazione a quella costituita dall’inserimento (in forza dell’art. 14, comma 1, lett. b, della legge n. 128 del 2001) del comma 2-ter nella stessa norma, orienta verso l’omologazione dei criteri e delle regole a cui deve
ispirarsi la valutazione giudiziale nell’applicazione della misura coercitiva susseguente alla sentenza di condanna (comunque emessa, anche al di là dell’ipotesi di riforma del proscioglimento antecedente).
Si dà per assodato che, ove alla sentenza di condanna segua il provvedimento cautelare coercitivo non preceduto da altro titolo caducato per effetto di proscioglimento, si verte in tema di nuova misura, con conseguente necessità della sua impugnazione mediante richiesta di riesame: sicché, in sede di impugnazione cautelare, l’ordinanza di ripristino della custodia in carcere, erroneamente adottata dal giudice procedente dopo la pronuncia della sentenza di condanna nonostante l’assenza di pregresso titolo coercitivo per i reati posti a fondamento del provvedimento restrittivo, va qualificata come ordinanza genetica di applicazione della misura custodiale ai sensi dell’art. 275, comma 1bis, cod. proc. pen. e l’appello proposto contro di essa va qualificato come riesame, senza che il mancato rispetto dei termini prescritti per tale rimedio determini la perdita di efficacia della misura (Sez. 1, n. 45140 del 20/06/2014, COGNOME, Rv. 261132 – 01).
Né pare potersi dubitare che, ove il titolo cautelare originario sia stato caducato in sede cautelare per motivi inerenti a quell’ambito (ad esempio, per la valutazione operata in fase di riesame di insussistenza delle esigenze cautelari), la misura coercitiva che venga emessa successivamente, anche dopo la susseguente sentenza di condanna, debba considerarsi del tutto autonoma rispetto alla definizione del precedente subprocedimento cautelare, così da doversi inquadrare come titolo genetico, da contestarsi, in sede impugnatoria, con la richiesta di riesame (Sez. 1, n. 43814 del 08/10/2008, COGNOME, Rv. 241559 – 01; Sez. 5, n. 22868 del 29/04/2002, COGNOME, Rv. 221926 – 01; Sez. 1, n. 1925 del 22/03/1996, COGNOME, Rv. 204402 – 01).
3.6. Dall’analisi di questo quadro trae spunto la notazione critica determinata dalla differenziazione di tutela impugnatoria fra l’imputato condannato in grado di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, senza mai essere stato raggiunto da precedente titolo cautelare o dopo essere stato raggiunto da titolo cautelare, poi annullato o revocato nel corrispondente subprocedimento cautelare, da un lato, e l’imputato condannato in sede di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo, dopo essere stato prosciolto in precedenza con la conseguente dissoluzione del titolo cautelare che lo aveva raggiunto.
La proposizione del riesame per il primo ambito e dell’appello per il secondo ambito non rinviene, secondo le riflessioni una parte della dottrina, idonea giustificazione nella differenza fra le situazioni di fatto, a fronte dell’omolog della valutazione dei presupposti di emissione dell’ulteriore misura nei confronti
di ognuno dei destinatari della stessa, in tal senso non ritenendosi appagante per sorreggere la divergenza di strumenti impugnatori la persistenza dell’originario
procedimento cautelare – sottesa dall’impostazione della giurisprudenza suindicata – con riguardo al caso del provvedimento cautelare che abbia perduto
efficacia in dipendenza della sentenza di proscioglimento, ma ritenuto sostanziale reviviscenza nell’ipotesi in cui l’esito decisorio di merito
suscettibile di
risulti ribaltato nel grado successivo.
Si tratta di considerazioni di non poco momento, che paiono possedere spessore adeguato a confrontarsi con la tesi coltivata dall’orientamento in
apparenza prevalente nella più autorevole sede nomofilattica.
4. Tanto premesso, il Collegio considera affiorata la necessità di comporre il rilevato contrasto interpretativo, registrato anche nell’ambito giurisprudenziale.
L’esigenza del diradamento di ogni incertezza sul punto analizzato risulta ancora più sentita per il fatto che la questione riguarda l’individuazione del corretto
mezzo impugnatorio in materia incidente sulla libertà personale dell’imputato.
Si ritiene, pertanto, conseguente dover rimettere alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., l’esposta questione di diritto, la quale può condensarsi nel seguente quesito: se l’imputato – nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere che ha perso efficacia a causa del proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado – debba impugnare con l’istanza di riesame ovvero con l’appello cautelare l’ordinanza con la quale sia disposta la custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., emessa a seguito di successiva condanna pronunciata all’esito del giudizio di appello.
P.Q.M.
A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 5 marzo 2024, rimette il ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso il 10 aprile 2024
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Il Consi liere estensore
Il Presidente