Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 27870 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 27870 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria nei confronti di:
COGNOME PasqualeCOGNOME nato a Gioia Tauro il 10/07/1969
avverso l’ordinanza del 13/03/2025 del Tribunale di Reggio Calabria udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
rilevato che il procedimento si celebra con contraddittorio scritto, senza la presenza delle parti, in mancanza di richiesta di trattazione orale pervenuta nei termini secondo quanto disposto dagli artt. 610, comma 5 e 611, comma 1bis e ss. cod. proc. pen.
Il Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME con requisitoria scritta tempestivamente depositata, chiedeva l’annullamento con rinvio del l’ordinanza impugnata avendo il Tribunale per il riesame errato nella applicazione delle norme sul concorso apparente di norme; nella requisitoria si rilevava che il ricorso alle modalità fraudolente che struttura la fattispecie della truffa non è elemento costitutivo della condotta tipica del delitto tributario, la quale punisce la mera indicazione di elementi attivi o passivi inesistenti al fine di evadere le imposte sui redditi.
L’A vv. NOME COGNOME con memoria, concludeva chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Il Tribunale per il riesame delle misure cautelari reali di Reggio Calabria decideva sulla richiesta di riesame proposta da NOME COGNOME nei confronti del decreto di sequestro preventivo della somma di euro 4.747,45; il sequestro era stato disposto sia per garantire la futura confisca che per impedire l’aggravamento delle conseguenze dei reati ; il vincolo era stato applicato in seguito al riconoscimento del fumus dei reati di associazione a delinquere e di diversi reati-fine qualificati sia dal pubblico ministero che dal Giudice per le indagini preliminari come truffe aggravate ai danni dello Stato.
A NOME COGNOME si contestava (a) di avere fatto parte – in qualità di procacciatore di contribuenti infedeli – all’organizzazione dell’attività illecita all’associazione capeggiata da NOME COGNOME, NOME COGNOME ed NOME COGNOME, finalizzata ad ottenere indebiti rimborsi dall’Agenzia delle entrate, che venivano ripartiti nella misura del 60% al contribuente infedele (ove esistente) e del 40% al gruppo associativo, (b) di avere partecipato come concorrente alla consumazione dei reati fine, molti dei quali erano stati individuati in truffe ai danni dello Stato (consumate o tentate), consistite nell’inserimento nelle dichiarazioni fiscali effettuate con il ‘mod 730’ elementi fittizi ed inveritieri, così inducendo un errore l’Agenzia delle entrate in ordine all’esistenza di un credito d’imposta, che veniva erogato pur non essendo dovuto
Il Tribunale accoglieva il riesame ritenendo che la condotta contestata dovesse essere qualificata ai sensi dell’art. 4 del d.lgs n. 74 del 2000 (o, al più, d ell’art. 3 del d.lgs n. 74 del 2000); e che, non essendo stato provato che la condotta integrante tale reato avesse prodotto un profitto illecito superiore a quello richiesto dalle norme, che indicavano una precisa -e, nel caso in esame, non superata – soglia di punibilità, disponeva la restituzione del denaro vincolato.
Contro tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria che deduceva:
2.1. violazione di legge (art. 640 cod. pen.) in ordine alla qualificazione giuridica delle condotte inquadrate inizialmente come truffe ai danni dello Stato: il Tribunale avrebbe ritenuto che l’unico artificio agito fosse la ‘dichiarazione illegittima’ e che il solo beneficio conseguito fosse il profitto dei reati fiscali; non sarebbero state invece valutate tutte le condotte ‘ulteriori e diverse’, nonostante le stesse fossero state puntualmente indicate nella parte introduttiva del provvedimento genetico; inoltre la circostanza che il 40% del rimborso illegale fosse stato devoluto agli associati non consentirebbe di ritenere che
‘fine’ della condotta contestata al fosse solo la consumazione di un illecito fiscale.
Si deduceva che gli artifici e raggiri utilizzati dagli associati consisterebbero (a) nella creazione di falsi profili di operatori accreditati presso i Caf, (b) nella ripartizione attraverso uno schema prestabilito di compiti di procacciamento finalizzati ad individuare profitti attraverso l’aumento dei contribuenti compiacenti, (c) nella raccolta illecita di dati identificativi e credenziali di accesso per i servizi telematici di Agenzia delle entrate e dell’Inps, (d) nella raccolta di dati anagrafici e fiscali di persone fisiche iscritte nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero del Comune di Rosarno e di Bagnara Calabra, (e) nel ‘contenimento’ del rimborso sotto la soglia prevista per l’attivazione delle procedure automatiche di controllo disposte dall’Agenzia delle Entrate, (f) nello strategico inserimento di una mole significativa di rettifiche ed integrazioni espressamente finalizzato ad ingannare i sistemi automatici di controllo, (g) nella fraudolenta indicazione di Iban e coordinate bancarie per il successivo accreditamento delle somme: si tratterebbe di un insieme di condotte di natura decettiva riconducibile al paradigma degli artifici e raggiri necessario per integrare la truffa.
Sarebbe inoltre decisivo il fatto che il profitto indebito non sarebbe stato lucrato dal solo contribuente ma -nella misura del 40% – direttamente dagli associati anche se estranei al rapporto dichiarativo: il profitto lucrato dai partecipi all’associazione attraverso le dichiarazioni illegali dimostrerebbe che l’illecito non sarebbe stato limitato alla dichiarazione infedele.
Sarebbe inoltre decisivo il fatto che il profitto indebito non sarebbe stato lucrato dal solo contribuente ma -nella misura del 40% – direttamente dagli associati anche se estranei al rapporto dichiarativo: il profitto lucrato dai partecipi all’associazione attraverso le dichiarazioni illegali indicherebbe la sussistenza della truffa dato che l’illecito non si limiterebbe alla dichiarazione infedele, che costituirebbe solo un segmento di una condotta più articolata.
Si deduceva inoltre che l’ammontare totale dei guadagni ottenuti dall’associazione fosse superiore alle soglie di proponibilità previste per le singole dichiarazioni illecite; sicché, al più, il Tribunale avrebbe potuto riqualificare tutti i reati fine ai sensi dell’art. 4 d.lgs n. 74 del 2000 ritenendoli avvinti in un medesimo disegno criminoso, in quanto le centinaia di dichiarazioni illegali avrebbero prodotto un danno che, nel suo complesso sarebbe ampiamente superiore alla soglia di punibilità prevista dagli artt. 3 e 4 d.lgs n. 74 del 2000. A ciò si aggiungeva che la decisione in ordine alla restituzione del denaro non avrebbe tenuto conto del fatto conto che la struttura associativa sarebbe stata finalizzata all’accumulo di ricchezza illecita derivante dalle false dichiarazioni,
mantenute strategicamente sotto la soglia della rilevanza penale.
2.2. violazione di legge (art. 240 cod. pen.) e vizio di motivazione in ordine alla applicazione delle norme sulla confisca: il Tribunale aveva ritenuto esistente il fumus del reato associativo e quantificato il profitto generato dalla attività associativa in euro 312.119,39, pari al 40% dell’ammontare complessivo degli indebiti rimborsi ottenuti con le dichiarazioni infedeli.
Si deduceva che, ancorché le condotte qualificate inizialmente come truffa ai danni dello Stato fossero state ritenute solo delle ‘dichiarazione infedeli sotto soglia’ , non poteva essere negato che le condotte generassero entrate illecite che confluivano in capo agli associati almeno nella misura del 40%, tenuto conto che in alcuni casi il rimborso illegale era lucrato integralmente e direttamente dai sodali dato che non vi era la mediazione di alcun contribuente reale; tale importo avrebbe dovuto essere vincolato obbligatoriamente in quanto inquadrabile come ‘ prezzo ‘ del reato; tale importo avrebbe dovuto essere vincolato obbligatoriamente in quanto inquadrabile come ‘prezzo’ del reato.
Pertanto, tenuto conto di quanto affermato dalla sentenza n. 13783 del 2025 pronunciata dalle Sezioni Unite nel caso ‘COGNOME‘, preso atto della attuale impossibilità di chiarire fosse stato il riparto tra i singoli sodali del vantaggio economico lucrato dall’associazione, il profitto che invero si configura come il prezzo o della ‘consulenza illecita’ prestata ai contribuenti infedeli dagli associati -avrebbe dovuto essere identificato tra i singoli sodali ‘in parti uguali’.
Dunque, anche alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale il Tribunale avrebbe dovuto mantenere il vincolo sulle somme lucrate direttamente dall’associazione, anche procedendo ad un nuovo calcolo coerente con l’ultimo approdo giurisprudenziale.
In sintesi, si deduceva la quota di illeciti rimborsi trattenuta dagli associati avrebbe dovuto essere obbligatoriamente vincolato ai sensi dell’art. 240, comma 2 n. 1) cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
1.1.Il primo motivo, nella parte in cui lamenta l’errata qualificazione giuridica delle condotte contestate al COGNOME ed inquadrate come truffa aggravata (tentata o consumata), non è fondato.
Il Collegio ritiene che gli elementi allegati dal ricorrente non consentano di qualificare la condotta come truffa aggravata e che le condotte contestate siano state legittimamente ricondotte alla fattispecie descritta dall’ art. 4 d. lgs. 74/2000 non punibili per il mancato superamento della soglia di punibilità.
Sul punto si riafferma l’interpretazione delle Sezioni Unite secondo cui è
configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 ed 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865 – 01).
La Cassazione, nella sua più autorevole composizione, ha enucleato il principio appena richiamato con argomenti rilevanti anche per la definizione del rapporto tra il delitto di truffa aggravata ed il reato di dichiarazione infedele previsto d all’art. 4 d. lgs. 74/2000, precisando che «la negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell’Erario, si pone in contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al d.lgs. n. 74 del 2000», tenuto conto del fatto che «il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il “modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina di cui al d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516 modello che attestava la linea d’intervento repressivo sulla fase meramente “preparatoria” dell’evasione d’imposta – a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia – come si legge nella relazione ministeriale – ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che “realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa”».
Le Sezioni Unite hanno altresì segnalato il particolare rilievo sistematico che assumono «le disposizioni normative degli artt. 6 e 9 d.lgs. n. 74 del 2000 sul tentativo e, rispettivamente, sul concorso di persone rilevando che «la disposizione dell’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000, escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4 dello stesso decreto legislativo, mira – oltre che a stimolare, nell’interesse dell’Erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta – ad evitare che violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione”, come tali punibili ex se a titolo
di delitto tentato . In altri termini, se il legislatore individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione, espressamente escludendo che la soglia di punibilità possa essere “anticipata”, ai sensi dell’art. 56 cod. pen., anche nel caso di accertamento di irregolarità fiscali compiute nel corso del periodo d’imposta, non è ovviamente consentita l’utilizzazione strumentale di un’ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai danni dello Stato (eventualmente anche sub specie di tentativo) per alterare, se non stravolgere, il sistema di repressione penale dell’evasione disegnato dalla legge» (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, cit, § 3).
Tale percorso argomentativo ha condotte le Sezioni Unite ad affermare, prendendo espressa posizione sul tema del concorso di reati o del concorso apparente di norme, che «qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa», e che «vi è, dunque, una generale specialità delle previsioni penali tributarie in materia di frode fiscale, le quali, in quanto disciplinano condotte tipiche e si riferiscono ad un determinato settore di intervento della repressione penale, esauriscono la connessa pretesa punitiva dello Stato (e della Unione Europea)» (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, cit., § 3).
In sintesi, dalla ricostruzione effettuata dalle Sezioni Unite -che si condivide e riafferma – emerge con chiarezza che «il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali» (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, cit., § 3).
Deve ritenersi pertanto che qualsiasi condotta di frode al fisco trova la sua risposta repressiva esclusivamente nella legislazione speciale tributaria.
1.2. Il principio affermato dalle Sezioni Unite con riferimento ai rapporti tra i reati di emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e la fattispecie di truffa aggravata, va ribadito anche in caso di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 74/2000, condotta meno grave rispetto alla frode fiscale, poiché, anche in tal caso, l’ottenimento di rimborsi non dovuti a seguito della falsa rappresentazione di spese od altri oneri inesistenti, comporta esclusivamente un vantaggio fiscale per il contribuente, ma non genera nessun profitto ulteriore. Si ritiene, cioè, che, anche nel definire il rapporto tra dichiarazione infedele e truffa aggravata, sia valido il principio secondo cui la «generale specialità delle previsioni penali tributarie in materia di frode fiscale, le quali, in quanto disciplinano condotte tipiche e si riferiscono ad un determinato settore di
intervento della repressione penale, esauriscono la connessa pretesa punitiva dello Stato» (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, cit.).
In conclusione, il Collegio ritiene legittima la qualificazione giuridica assegnata dal Tribunale alle condotte inquadrate inizialmente come truffa aggravata, anche tenuto conto del fatto che le sono state contestate e descritte senza effettuare alcun richiamo alla attività illecita descritta nel capo di imputazione provvisorio relativo al delitto associativo e senza individuare alcun profitto ulteriore rispetto a quello dell’incasso del rimborso illegale.
1.3. Il Collegio rileva inoltre che gli elementi valorizzati dal pubblico ministero ricorrente valgono ad identificare l’attività associativa, ma non incidono sulla struttura delle condotte inquadrate come dichiarazioni infedeli ai sensi dell’art. 4 d.lgs 74 2000.
Invero la rappresentazione di falsi elementi passivi nelle dichiarazioni ‘ mod. 730 ‘ ha determinato l’attribuzione al ricorrente di un rimborso non dovuto, mentre, tutti gli altri elementi indicati dal ricorso (le indicazioni di CAF non esistenti, i falsi profili dei contribuenti, il procacciamento dei clienti etc.) pur indicando l’esistenza di una struttura organizzata associativa, non risultano in connessione causale con l’erogazione del rimborso, che, come decritto nei capi di imputazione provvisoria, è stato generato solo dalla falsa rappresentazione di dati inveritieri esposti nelle dichiarazioni ‘ mod. 730 ‘ .
Anche sotto tale profilo, pertanto, il ricorso non è fondato.
1.4. Infine, non sono accoglibili le conclusioni del Procuratore generale della Cassazione contenute nella requisitoria scritta, dove lo stesso ha rilevato che la fattispecie di cui all’art. 4 d. lgs. 74/2000 non può essere ritenuta quando emergano condotte fraudolente, ma solo quando la condotta si esaurisca nella falsa indicazione di elementi attivi o passivi inesistenti.
Invero, nel caso in esame, le contestazioni riguardano proprio condotte che si esauriscono nella falsa rappresentazione di spese che generano il diritto al rimborso fiscale, tenuto conto che nei capi di imputazione che descrivono tale attività illegale non si rinviene alcun riferimento ad ulteriori condotte decettive.
1.5. Le contestazioni proposte con il terzo motivo di ricorso con riguardo alla identificazione del profitto generato dal reato associativo non superano la soglia di inammissibilità in quanto pur richiamando il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nel caso ‘COGNOME‘ non hanno indicato quale fosse , in concreto, la quota confiscabile al Foti.
Il pubblico ministero ricorrente, peraltro, rilevava che non sempre il rimborso illegale era lucrato in percentuale attraverso la mediazione di un contribuente realmente esistente, ma che vi erano anche casi in cui il rimborso era lucrato integralmente e direttamente dai sodali; a tale precisazione non seguiva tuttavia
la quantificazione del profitto confiscabile.
Sul punto il ricorso si presenta dunque aspecifico.
In conclusione, l ‘impugnazione deve essere dichiarata infondata e rigettata.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il giorno 11 luglio 2025.