Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44508 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44508 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a Cosenza il 04/06/1954
avverso la sentenza del 18/03/2024 della Corte d’appello di L ‘A quila Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; lette le conclusioni scritte del difensore, Avv. NOME COGNOME che ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 18 marzo 2024, la Corte d’appello di L’Aquila confermava la sentenza emessa in data 30/09/2022 dal Tribunale di Avezzano, appellata da NOME COGNOME condannato alla pena di anni 2 di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, per il reato di frode fiscale in relazione alla dichiarazione IVA della RAGIONE_SOCIALE quale amministratore di diritto di quest’ultima e sottoscrittore della dichiarazione relativa
all’anno di imposta 2014, assolvendolo dal medesimo reato con riferimento alla dichiarazione IRES.
Avverso la predetta sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo tre motivi, di seguito illustrati nei limiti indicati dall’art. 173, disp. att., cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di illogicità della motivazione per travisamento del fatto e non pertinenza della motivazione.
In sintesi, si contesta la motivazione della sentenza in quanto la Corte d’appello avrebbe affermato che l’appellante avrebbe eccepito sulla propria qualifica soggettiva di legale rappresentante, assumendosi un mero socio. Tale censura non sarebbe mai stata formulata in tali termini in quanto la difesa si era limitata a contestare che la qualifica di socio potesse costituire premessa per affermare la responsabilità del ricorrente in ordine all’intera condotta, di natura bifasica, anche in relazione alla prima parte della sua realizzazione da parte del precedente amministratore, incardinando su tale status il riconoscimento dell’estremo psicologico del reato. Richiamato il passaggio motivazionale sulla cui base la Corte radica la responsabilità del ricorrente, si osserva come il modulo gestorio di fatto richiamato dalla Corte d’appello non sarebbe mai venuto in considerazione nei confronti del ricorrente, né la prima sentenza si sarebbe mai ad esso richiamata. I giudici di appello avrebbero dunque travisato del tutto i contenuti dell’atto d’appello e della stessa sentenza di primo grado. Non si comprenderebbe inoltre il successivo passaggio motivazionale in cui la Corte attribuisce al ricorrente un’attività commissiva di utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti indicate nel capo di imputazione, affermazione ritenuta generica e, comunque, erroneamente onnicomprensiva ove riferita anche all’anteriore fase di acquisizione delle fatture, che lascerebbe in ogni caso irrisolta la questione concernente la prova della consapevolezza in capo al ricorrente di utilizzare nella fase dichiarativa a lui riferibile le fatture contestate, se non per via presuntiva con rinvio allo status di socio, elevato ad estremo costitutivo del reato in termini equivalenti ad una vera e propria posizione di garanzia.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 2, D.lgs. n. 74 del 2000 e 1, cod. pen.
In sintesi, si censura la sentenza impugnata laddove i giudici di appello avrebbero erroneamente valorizzato la decisione di primo grado in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato nei confronti del ricorrente. Si osserva come, nella specificità del caso in questione, la contestazione avrebbe dovuto coinvolgere anche il precedente amministratore, autore quest’ultimo della formale acquisizione delle fatture frutto della presupposta intesa con gli altri soggetti coinvolti nella soggettiva interposizione da parte della RAGIONE_SOCIALE. Si osserva, in altri termini, che laddove il dichiarante sia un soggetto diverso rispetto a colui che ha acquisito le fatture contestate,
la responsabilità di quest’ultimo postula che in capo al medesimo vi sia piena consapevolezza di quanto anteriormente avvenuto; diversamente, in assenza di quanto sopra, sarebbe proprio l’autore della prima parte della condotta a doverne rispondere per l’induzione in errore così determinata nei riguardi del dichiarante i nconsapevole. La contraria opinione sostenuta dai giudici di merito, in forza della quale il dichiarante è il responsabile assiomatico dell’intera condotta per la forza presuntiva derivante dal suo status di socio allorché si realizzò l’acquisizione delle fatture da parte del precedente amministratore, sarebbe all’evidenza illogica e confliggente con i principi che presiedono la corretta configurabilità del reato ed ai criteri probatori vigenti in campo processuale. Il richiamo da parte della Corte d’appello alla sua qualifica di socio di maggioranza, in virtù della quale egli non avrebbe potuto invocare la sua buona fede ed estraneità alla società, sarebbe improprio, in quanto ipotizzerebbe nei confronti del mero socio una posizione qualificata di per sé idonea a radicare in re ipsa la formulazione di un giudizio di colpevolezza anche in ordine alla componente soggettiva del reato. Si osserva come gli elementi valorizzati dai giudici di merito per l’affermazione della responsabilità penale del ricorrente (quali ad esempio il disallineamento dei prezzi di acquisto e di rivendita della merce tra la prima e la seconda pattuizione nonché la destinazione unica di quest’ultima verso il medesimo destinatario), graviterebbero tutti intorno alla precedente fase di acquisizione delle fatture per cui, anche volendone ammettere l’univocità a tal fine, non dimostrerebbero affatto che il ricorrente vi abbia consapevolmente preso parte e, comunque, che ne avesse personale consapevolezza al momento di presentare la dichiarazione annuale. Solo in presenza di una contestazione del reato in forma concorsuale con il coinvolgimento del precedente amministratore si sarebbe potuto ampliare lo spazio di indagine e di giudizio sullo specifico punto, laddove invece la contestazione mossa soltanto al dichiarante, attuale ricorrente, ne avrebbe illegittimamente ridotto lo spazio difensivo a fronte dell’utilizzo a fini di prova dell’argomento presuntivo insuscettibile di prova contraria.
2.3. Deduce, infine, con il terzo ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 2, D.lgs. n. 74 del 200 0 e agli artt. 17, 18 e 21, DPR n. 633 del 1972 ed in relazione all’art. 47, cod. pen.
In sintesi, la difesa contesta la presupposta valutazione di falsità soggettiva sulla quale i giudici di appello si sarebbero conformati al giudizio del Tribunale che, a sua volta, avrebbe supinamente richiamato quanto affermato dalla Guardia di finanza che aveva ravvisato sussistente, nel rapporto a monte tra il Consorzio RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, una interposizione soggettiva di manodopera da parte di quest’ultima, con conseguente attribuzione al solo Consorzio RAGIONE_SOCIALE della qualifica di fornitore, legittimato all’emissione delle fatture. Secondo la difesa, la natura illecita della somministrazione di manodopera non sarebbe una circostanza idonea ad incidere sulla qualifica soggettiva di cedente della RAGIONE_SOCIALE. A tal fine osserva come l’emissione delle fatture da parte della RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE sarebbe perfettamente in linea con le previsioni normative che prescrivono che la fattura venga emessa dal soggetto che figura come parte cedente, sebbene nello svolgimento della prestazione costui si avvalga di mezzi e di provviste altrui. In tal senso l’avvalimento da parte della RAGIONE_SOCIALE della struttura aziendale approntata dal RAGIONE_SOCIALE in Tivoli non determina che sia quest’ultima ad avere titolo per l’emissione della fattura, giacché la RAGIONE_SOCIALE figura comunque quale parte attiva nella successiva fornitura della carta alla società RAGIONE_SOCIALE Non si potrebbe parlare pertanto di una inesistenza soggettiva delle operazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, trattato cartolarmente in assenza di richiesta di discussione orale, è complessivamente infondato.
Il primo ed il secondo motivo -che, attesa l’intima connessione dei profili di doglianza meritano congiunto esame – sono inammissibili.
2.1. La Corte d’appello ha valutato la deduzione secondo la quale la qualifica di socio non basta per l’affermazione della responsabilità per i reati tributari commessi nello svolgimento dell’attività sociale. Il collegio, infatti, ha rilevato che l’imputato era il legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE Nella qualità di amministratore di diritto egli risponde dei reati tributari commessi, aggiungendo che essendo il socio di maggioranza ‘non può invocare la sua totale buona fede ed estraneità alla società in oggetto fino al momento della nomina come liquidatore’, nella cui veste ha provveduto all’annotazione nella contabilità e nelle dichiarazioni delle operazioni delle fatture relative a operazioni inesistenti.
La censura difensiva fondata sull’assunto secondo il quale non avrebbe dovuto essere imputata alcuna responsabilità al ricorrente in quanto mero socio di maggioranza nel periodo pregresso alla sottoscrizione della dichiarazione, sottoscritta quale liquidatore, essendo invece imputabile il fatto dell’utilizzazione delle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti al precedente amministratore -non ha pregio.
3.1. Ed invero, è l’art. 1, comma 4, del DPR 22.7.1998 n. 322 a stabilire che ‘la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta, a pena di nullità, dal rappresentante legale, e in mancanza da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto, o da un rappresentante negoziale’. Nella specie, la dichiarazione è stata sottoscritta dal ricorrente quale liquidatore. Nella fase di liquidazione di una società il soggetto legittimato alla presentazione della relativa dichiarazione IVA è il liquidatore, poiché assume la rappresentanza della società ai sensi dell’art. 2487, comma primo, cod. civ. La messa in stato di liquidazione di una società, infatti, non interrompe il periodo d’imposta ai fini IVA
e non comporta la presentazione di un’autonoma dichiarazione e la società rimane un soggetto IVA distinto e autonomo rispetto ai soci. La dichiarazione presentata dal liquidatore, in qualità di rappresentante della società, è, dunque, idonea a manifestare la volontà della compagine sociale finalizzata alla soddisfazione del credito e non è necessario presentare un’autonoma e ulteriore dichiarazione (Sez. V civ., n. 20806 del 18 luglio 2023).
3.2. Premesso, dunque, come del tutto correttamente il reato è stato ascritto al ricorrente, deve evide nziarsi come la sentenza d’appello ha confutato l’argomentazione difensiva, osservando come il ricorrente, subentrante quale liquidatore alla gestione societaria di terzi, non potesse essere tacciato solo di una condotta omissiva e di mancanza di controllo , avendo egli posto in essere l’attività commissiva di utilizzazione delle fatture per operazioni inesistenti di cui all’imputazione. L’imputato, infatti, si legge in sentenza, pur se nominato liquidatore della società nel 2015, non era un soggetto estraneo, ma già rivestiva in precedenza la qualifica di socio di maggioranza della stessa società, non potendo invocare la sua buona fede ed estraneità all’attività della società fino al momento della nomina come liquidatore.
3.3. Sul punto, è sufficiente ribadire che, in base alla nuova disciplina tributaria, la condotta illecita consiste nell’indicare in una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o IVA elementi passivi fittizi ‘avvalendosi di fatture o altri documenti per operaz ioni inesistenti’, ed il momento di consumazione del reato, cui il Legislatore riconnette il relativo disvalore penale, è proprio quello della presentazione della dichiarazione, donde rientra tra gli obblighi del dichiarante, nella specie il liquidatore della società, quello di verificare se gli elementi passivi oggetto delle fatture fossero reali e non ‘fittizi’ in quanto frutto di operazioni, nella specie, soggettivamente inesistenti.
3.4. La circostanza che questi fosse socio di maggioranza della società è stata valorizzata dai giudici di appello, con motivazione non manifestamente illogica, come elemento idoneo a connotare di volontarietà il comportamento integrante la frode fiscale ex art. 2, D. lgs. n. 74 del 2000. Il socio di maggioranza, del resto, ha un potere di condizionamento, laddove per adottare le decisioni non si può prescindere dal suo apporto. Questo potere assume efficacia determinante non soltanto in negativo, in funzione di veto, ma anche in positivo, in funzione di codeterminazione, poiché il socio che ha il potere di interdire l’adozione di una decisione è anche quello che deve concorrere perché sia adottata.
3.5. Del resto, non va nemmeno dimenticato che, nella parallela disciplina tributaria ‘civile’, è ritenuto legittimo l’avviso di accertamento emesso nei confronti del socio di maggioranza di una società di capitali a ristretta base azionaria, operando, in tal caso, la presunzione di attribuzione ” pro quota ” ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale, degli utili extrabilancio prodotti, che si fonda sul disposto di cui all’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, senza che assuma rilievo che la società abbia
aderito alla definizione agevolata ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 50 del 2017, conv., con modif., in l. n. 96 del 2017, essendo la società ed il socio titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti (Sez. 5 civ., n. 29503 del 24/12/2020, Rv. 659972 – 01).
Per quanto, infine, concerne l’elemento psicologico del reato, la tesi difensiva -secondo cui il ricorrente sarebbe subentrato ad altro amministratore, cui sarebbe imputabile la condotta di acquisizione della fatture per operazioni inesistenti intercorse tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE -non tiene invero conto del fatto che i giudici di merito hanno ravvisato nel particolare ruolo assunto dal ricorrente, prima quale socio di maggioranza della società e, successivamente, quale liquidatore, autore dell’illecito, l’elemento dimostrativo idoneo ad escludere la sua estraneità ai fatti avvenuti nel pe riodo precedente all’assunzione della carica da parte del medesimo imputato.
4.1. Sul punto deve, pertanto, essere ribadito che il liquidatore di una società di capitali può rispondere, in relazione alle dichiarazioni annuali presentate dopo il suo insediamento, dei reati di cui agli artt. 2 e 4 del D.lgs. 3 ottobre 2000, n. 74, purché emergano elementi dai quali poter desumere quanto meno la sussistenza del dolo eventuale, e dunque la conoscenza o conoscibilità, attraverso una diligente verifica della contabilità e dei bilanci, della fittizietà delle poste e della falsità delle fatture inserite nella dichiarazione (Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Rv. 264395 -01).
4.2. E, nella specie, tali elementi sarebbero stati di agevole rilevabilità in quanto era evidente, nel rapporto a monte tra il Consorzio RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, una interposizione soggettiva di manodopera da parte di quest’ultima, con conseguente attribuzione al solo RAGIONE_SOCIALE della qualifica di fornitore, legittimato all’emissione delle fatture.
5. Il terzo ed ultimo motivo è invece infondato.
Ed infatti, la Corte d’appello ha ritenuto che le operazioni fossero soggettivamente inesistenti, concludendo, in modo corretto ed immune da vizi logici, che ‘il passaggio solo appa rente ad un soggetto comportante a cascata l’inserimento della voce come spesa da scaricare per entrambi gli apparenti acquirenti ben poteva comportare un’indicazione di elementi passivi non esistenti e comunque una perdita di introito per il fisco’.
6.1. In tema di reati tributari, infatti, il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche nel caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, in cui l’operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita e non vi sia, tuttavia, corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nella fattura o altro documento fiscalmente rilevante e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione, in quanto, anche in tal caso, è possibile conseguire il fine
illecito indicato dalla norma, ovvero consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (Sez. 3, n. 16576 del 01/03/2023, Rv. 284494 – 01).
6.2. Né, nella specie, può ritenersi dirimente l’affermazione difensiva secondo cui non si potrebbe parlare di una inesistenza soggettiva delle operazioni in quanto la natura illecita della somministrazione di manodopera non sarebbe una circostanza idonea ad incidere sulla qualifica soggettiva di cedente della RAGIONE_SOCIALE , ciò in base all’assunto che l’emissione delle fatture da parte della RAGIONE_SOCIALE sarebbe stata perfettamente in linea con le previsioni normative che prescrivono che la fattura venga emessa dal soggetto che figura come parte cedente, sebbene nello svolgimento della prestazione costui si avvalga di mezzi e di provviste altrui.
6.3. Ai fini dell’esame della questione, appare utile osservare, innanzitutto, che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, fatture per operazioni inesistenti sono anche «quelle che si connettono, ad esempio, al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti (inesistenza giuridica per simulazione relativa)» (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 1996 del 25/10/2007, dep. 2008, Figura, Rv. 238547-01, e Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, Moiseev, Rv. 278378-01). A fondamento di questa conclusione si muove dalla disposizione di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2000, secondo il quale per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si intendono quelli «emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Sulla base di questa previsione normativa, precisamente, si è affermato da tempo il «principio secondo il quale oggetto della sanzione di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 2 è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, tenuto conto dello speciale coefficiente di insidiosità che si connette all’utilizzazione della falsa fattura» (cos ì , in motivazione § 3 dei Motivi della Decisione, Sez. 3, n. 1996 del 25/10/2007, dep. 2008, Figura, Rv. 238547-01). E, più di recente, si è ribadito e puntualizzato: «La fattura, al pari di tutti gli elementi equipollenti, deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti gli elementi in grado di incidere su aspetti fiscalmente rilevanti, sicch é assume rilevanza anche l’inesistenza giuridica, la quale si verifica ogniqualvolta la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura ( è il caso in cui l’oggetto del negozio giuridico indicato sia diverso da quello effettivamente realizzato) con ciò determinandosi una alterazione del contenuto del documento contabile» (cos ì , in motivazione, § 3 del Considerato in Diritto, Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 27837801).
Ciò posto, va rilevato che le fatture emesse con riferimento ad un appalto di servizi, il quale costituisce lo “schermo” per occultare una somministrazione irregolare di
manodopera, in violazione dei divieti di cui al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, all’epoca vigente (oggi sostituito dal d.lgs. n. 81 del 2015), da un lato, sono qualificabili come fatture connesse al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti, e, per altro verso, attengono ad una operazione implicante significative conseguenze di rilievo fiscale.
7.1. Non vi è dubbio, in primo luogo, che il ricorso alla figura dell’appalto di servizi al fine di occultare una somministrazione irregolare di manodopera dia luogo ad una simulazione relativa diretta a nascondere la stipulazione di un contratto affetto da nullità. Invero, nella giurisprudenza di legittimità delle Sezioni civili, si è costantemente affermato che, pur dopo la riforma di cui al d.lgs. n. 276 del 2003, il contratto di somministrazione di manodopera irregolare, schermato da quello di appalto di servizi, incorre in nullità, che conforma anche la sorte del contratto tra lavoratore e somministratore (cfr., per tutte, Sez. 5 civ., n. 18808 del 28/07/2017, Rv. 645451-01, e Sez. 6-5 civ., n. 28953 del 12/11/2018, Rv. 651835-01). E, anzi, proprio in ragione di tale nullità, si osserva che la società, la quale si avvale del contratto di somministrazione irregolare di manodopera non ha il diritto alla detrazione dei relativi costi ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (v., tra le altre, Sez. 5 civ., n. 31720 del 07/12/2018, Rv. 651778-01, e Sez. 5 civ., n. 12807 del 26/06/2020, Rv. 658043-01), e ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive, o IRAP (cos ì Sez. 5 civ., n. 7440 del 08/03/2022, Rv. 664129-01).
7.2. In secondo luogo, la nullità del contratto di somministrazione irregolare di manodopera determina la mancanza di certezza, nonché di determinatezza o determinabilità, dei costi dal medesimo derivanti, e, quindi, ne preclude il riconoscimento ai fini della determinazione delle imposte sui redditi. Da un lato, infatti, i costi in contrasto con il principio di certezza o con il principio di determinatezza o determinabilità non possono essere riconosciuti ai fini della determinazione delle imposte sui redditi, a norma dell’art. 109 T.U. delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, e successive modifiche, in particolare quella recata dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 (cfr., in argomento, Sez. 5 civ., n. 11020 del 05/04/2022, Rv. 664285-01, e Sez. 5 civ., n. 24426 del 30/10/2013, Rv. 629420-01). Dall’altro, il contratto di somministrazione irregolare di manodopera, in quanto affetto da nullità, determina costi non quantificabili e comunque diversi da quelli del contratto di appalto di servizi. A tal proposito, si consideri, ad esempio, che nella disciplina del d.lgs. n. 276 del 2003, il lavoratore impiegato mediante il ricorso allo schema negoziale vietato potrebbe agire in giudizio per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo. In linea generale, del resto, può osservarsi che la giurisprudenza civile di legittimità esclude la deducibilità di costi derivanti da contratti nulli ai fini della determinazione delle imposte sui redditi. In particolare, infatti, si afferma che, in tema di reddito d’impresa, non è deducibile la spesa sostenuta dalla s.r.l. contribuente per i compensi agli amministratori
ove invalidamente deliberata, secondo la disciplina applicabile, in sede di approvazione del bilancio, difettando in tal caso i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell’ammontare del costo di cui all’art. 109 (gi à 75) del d.P.R. n. 917 del 1986 (cos ì , in particolare, Sez. 5 civ., n. 21953 del 28/10/2015, Rv. 636925-01, e Sez. 6-5 civ., n. 8210 del 30/03/2017, Rv. 643637-01).
7.3. Sulla questione, infine, e conclusivamente, questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi in sede penale, affermando che integra il delitto di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’utilizzo in dichiarazione (nella specie, ai fini delle imposte dirette), di fatture formalmente riferite a un contratto di appalto di servizi, che costituisca di fatto lo schermo per occultare una somministrazione irregolare di manodopera, realizzata in violazione dei divieti di cui al previgente d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, sostituito dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, trattandosi di fatture relative a un negozio giuridico apparente, diverso da quello realmente intercorso tra le parti, attinente ad un’operazione implicante significative conseguenze di rilievo fiscale (Sez. 3, n. 45114 del 28/10/2022, Rv. 283771 -01).
Del tutto privo di pregio, infine, è il richiamo alla disciplina dell’art. 47, cod. pen., collidendo con una giurisprudenza consolidata di questa Corte che, a più riprese, ha ribadito che ai fini dell’integrazione dei reati dichiarativi previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extrapenale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile (Sez. 3, n. 23810 del 08/04/2019, Rv. 275993 -02). Circostanza, nella specie, non ravvisabile.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616, cod, proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 17 ottobre 2024