Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 29689 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 29689 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 04/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Rosolina il 20/06/1959
avverso la sentenza del 23/09 /2024 della Corte d’appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 23 settembre 2024, la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Padova il 28 ottobre 2021, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di NOME COGNOME per il reato continuato di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000 e 61bis cod. pen., commesso tra l’11 settembre 2013 e il 29 settembre 2016, la quantificazione della
pena in un anno, due mesi e venti giorni di reclusione, applicate le circostanze attenuanti generiche e la riduzione per il rito, nonché la concessione della sospensione condizionale, ed ha riconosciuto il beneficio della non menzione.
Secondo quanto ricostruito dai Giudici di merito, NOME COGNOME in qualità di amministratore della società RAGIONE_SOCIALE, avvalendosi delle prestazioni illecite fornite da un’associazione per delinquere transnazionale, avrebbe: A) al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, utilizzando fatture per operazioni inesistenti, indicato: A1) nelle dichiarazioni relative a dette imposte per l’anno 2012, elementi passivi fittizi per 42.025,00 euro di imponibile e 8.825,25 a titolo di IVA (capo 113); A2) nelle dichiarazioni relative a dette imposte per l’anno 2013, elementi passivi fittizi per 1.697.058,80 euro di imponibile e 362.251,93 a titolo di IVA (capo 133); A3) nelle dichiarazioni relative a dette imposte per l’anno 2014, elementi passivi fittizi per 2.639.698,50 euro di imponibile e 580.733,67 a titolo di IVA (capo 174); A4) nelle dichiarazioni relative a dette imposte per l’anno 2015, elementi passivi fittizi per 1.530.225,96 euro di imponibile e 336.649,72 a titolo di IVA (capo 239); B) al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emesso fatture per operazioni inesistenti: B1) nell’anno di imposta 2013, per 3.385.336,83 euro di imponibile e 744.774,10 a titolo di IVA (capo 132); B2) nell’anno di imposta 2014, per 3.854.617,05 euro di imponibile e 848.015,75 a titolo di IVA (capo 173); B3) nell’anno di imposta 2015, per 1.747.825,60 euro di imponibile e 384.521,63 a titolo di IVA (capo 238).
Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe NOME COGNOME con atto sottoscritto dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME articolando tre motivi, preceduti da ampia premessa che ricapitola lo svolgimento del processo.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., avuto riguardo, da un lato, alla mancata risposta alle doglianze formulate nell’atto di appello in ordine alla mancanza di offensività della condotta ai fini delle imposte dirette e, sotto altro profilo, alla contraddittorietà della motivazione relativamente all’individuazione delle prestazioni fornite dall’illecito sodalizio alla ditta dell’attuale ricorrente e, quindi all’evasione dell’IVA.
Si deduce, innanzitutto, che la sentenza impugnata, pur indicando quattro distinti schemi fraudolenti ideati dall’associazione criminale la quale ha fornito prestazioni illecite all’impresa gestita dall’attuale ricorrente, non ha specificato quali, dei precisati quattro sistemi, siano stati utilizzati da quest’ultimo, e se gli stessi siano serviti ad evadere l’IVA o le imposte dirette.
Si osserva, poi, che la sentenza impugnata risponde solo con riferimento ai motivi di gravame riferiti all’evasione dell’IVA, e non anche con riguardo ai motivi di gravame concernenti l’evasione delle imposte dirette, perché si limita ad affermare che le fatture emesse dalla ditta dell’attuale ricorrente, la RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, verso società estere non erano esenti da IVA, in quando tale imposta era soltanto sospesa, e traferita interamente a carico della ditta ‘cartiera’ ricevente.
Si rileva, quindi, che i motivi di gravame concernenti l’evasione delle imposte dirette dovevano trovare risposta nella sentenza di appello perché avevano una loro piena autonomia rispetto ai motivi di gravame riferiti all’evasione dell’IVA, in quanto rappresentavano che: a) la legge penale non consente di perseguire l’evasione di imposte dirette di Stati esteri; b) l’imposizione diretta dello Stato italiano si applica sui redditi prodotti sia da soggetti residenti, sia da soggetti non residenti nel territorio dello Stato ma nei confronti di questi ultimi esclusivamente per i redditi prodotti nel territorio dello Stato, ex artt. 2 e 3 d.P.R. n. 917 del 1986; c) nella specie, le ditte riceventi le fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE erano soggetti esteri ed i relativi redditi non possono ritenersi prodotti nel territorio dello Stato italiano, mentre la ‘RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato tutti i ricavi derivanti dall’emissione di dette fatture.
Si rimarca, ancora, che l’affermazione della sussistenza del dolo specifico ai fini dell’evasione dell’IVA è meramente assertiva, perché non precisa quale sarebbe stato lo schema fraudolento utilizzato dalla ‘RAGIONE_SOCIALE, e perché non tiene conto della prospettazione difensiva, secondo cui detta impresa utilizzava ed emetteva le fatture in contestazione al solo fine di coprire le cessioni in nero, e, così, di regolarizzare le proprie giacenze di magazzino.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 43 e 49, secondo comma, cod. pen., 8 d.lgs. n. 74 del 2000, 41 d.l. n. 331 del 1993, 8 d.P.R. n. 633 del 1972, 2 e 3 d.P.R. n. 917 del 1986, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dei reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (capi 132, 173 e 238).
2.2.1. Si deduce, in primo luogo, che, nella specie, con riguardo ai reati di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, non è configurabile il fine di consentire l’evasione dell’IVA a terzi.
Si osserva, in proposito, che il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti è reato di pericolo concreto, il quale, cioè, presuppone la realizzazione di una condotta idonea a consentire l’evasione di imposta, e che, però, nella specie, le operazioni realizzate sono ‘non’ imponibili a fini IVA, atteso il disposto dell’art. 41 d.l. n. 331 del 1993 per le transazioni intracomunitarie e il disposto dell’art. 8 e ss. d.P.R. n. 633 del 1972 per le cessioni all’importazione e assimilate. Si evidenzia che, a norma delle disposizioni normative indicate, l’IVA non
costituisce una componente delle fatture in contestazione, in quanto relative ad operazioni ‘non’ imponibili a tal fine, e, quindi, è imposta che non può essere evasa a mezzo di tali fatture. Si precisa che l’omessa applicazione dell’IVA, in conformità delle disposizioni citate, preclude ogni possibilità di detrazione della medesima imposta anche da parte dell’operatore comunitario.
Si segnala, poi, che l’estraneità dell’attuale ricorrente all’associazione per delinquere non consente di ipotizzare la conoscenza, da parte del medesimo, di un eventuale successivo utilizzo delle medesime fatture da parte del sodalizio criminale, unico metodo per realizzare la frode fiscale. Si rimarca che tale conclusione è confermata anche dalla mancata indicazione, nelle imputazioni, del soggetto a carico del quale veniva definitivamente addossata l’IVA. Si aggiunge che la fattispecie di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 non è configurabile a titolo di dolo eventuale (si cita Sez. 3, n. 42497 del 18/10/2023), e che, comunque, nella specie, il fine di evasione dell’IVA da parte dell’agente è desunto da mere congetture e non tiene conto del regolare pagamento delle imposte da parte dell’attuale ricorrente anche con riguardo alle fatture di cui alle imputazioni.
2.2.2. Si deduce, in secondo luogo, che, nella specie, sempre con riguardo ai reati di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, non è configurabile il fine di consentire l’evasione delle imposte dirette a terzi.
Si premette che i redditi derivati dalle fatture in contestazione sono stati regolarmente dichiarati dalla ditta dell’attuale ricorrente, la RAGIONE_SOCIALE. Si osserva, poi, che il fine di consentire l’evasione delle imposte dirette a terzi non è configurabile con riferimento alle imposte dirette dovute a Paesi terzi, anche in forza del principio di territorialità della legge penale, desumibile dagli artt. 4, 6 e 7 cod. pen. (si cita Sez. 3, n. 41282 del 03/07/2018).
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 43 e 83 cod. pen. e 2 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) , cod. proc. pen., avuto riguardo alla ritenuta sussistenza dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (capi 113, 133, 174 e 239).
2.3.1. Si deduce, in primo luogo, che, nella specie, con riguardo ai reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, non è configurabile il fine di evadere le imposte sui redditi.
Si premette che la ditta dell’attuale ricorrente, la RAGIONE_SOCIALE ha acquistato effettivamente la merce indicata nelle fatture di cui alle imputazioni, e ne ha sostenuto i relativi costi. Muovendo da tale rilievo, si afferma l’inoffensività della condotta contestata, in applicazione del principio enunciato dalla giurisprudenza civile di legittimità, secondo cui, a norma dell’art. 14, comma 4bis , legge 24 dicembre 1993, n. 537, come modificato dall’art. 8 comma 1, d.l. 2
marzo 2012, n. 16, convertito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili ai fini delle imposte sui redditi (si citano: Sez. 5 civ. n. 5181 del 27/02/2024; Sez. 5 civ., n. 8480 del 2022; Sez. 6 civ., n. 17788 del 2018; Sez. 6 civ., n. 25249 del 2016; Sez. 5 civ., n. 26461 del 2014). Si aggiunge che, in ogni caso, l’effettività dei costi esclude il dolo.
2.3.2. Si deduce, in secondo luogo, che, nella specie, con riguardo ai reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, non è configurabile il fine di evadere l’IVA.
Si osserva che, essendo le fatture solo ‘soggettivamente’ inesistenti, nella specie non è configurabile il fine di evadere l’IVA, perché l’unica finalità perseguita dalla ditta dell’attuale ricorrente «era quella di cedere parte delle proprie merci senza emissione di regolare fattura», e perciò, di «indicare, nella dichiarazione, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo». Si precisa che le condotte di indicazione in dichiarazione delle fatture di cui ai capi 113, 133, 174 e 239 avevano il fine di regolarizzare la contabilità di RAGIONE_SOCIALE, ossia di «nascondere i ricavi, non aumentare i costi»; del resto, non può trovare altra spiegazione la corretta dichiarazione di tutti i ricavi derivanti dalla emissione delle fatture ritenute per operazioni inesistenti.
Il ricorrente ha depositato memoria, sottoscritta dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME nella quale si ripropongono e si sviluppano le censure formulate nel ricorso, anche in replica alla memoria scritta del Procuratore generale della Corte di cassazione.
Si precisa, in particolare, che le ragioni esposte nel secondo motivo, con riguardo alla non configurabiltà del fine di consentire l’evasione dell’IVA a terzi, hanno trovato conferma in una recentissima decisione di legittimità (si cita Sez. 2, n. 7256 del 11/12/2024, dep. 2025).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è nel complesso infondato per le ragioni di seguito precisate.
Infondate sono le censure che, esposte in parte del primo e nel secondo motivo, tra loro oggettivamente connesse, contestano la configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, deducendo che la sentenza impugnata non precisa quale sarebbe lo schema illecito utilizzato, non si confronta con l’obiezione della funzionalità delle fatture emesse al fine di ‘regolarizzare’ le giacenze di magazzino, e non considera l’impossibilità di configurare tanto il fine di far evadere l’IVA, per la natura ‘non’ imponibile delle vendite effettuate verso
operatori intracomunitari, e comunque per la mancata individuazione del soggetto su cui veniva ‘scaricata’ l’IVA, quanto il fine di far evadere le imposte dirette, non potendo rilevare l’inottemperanza di tale tipo di obblighi fiscali verso Paesi terzi.
2.1. Innanzitutto, è utile muovere dalle indicazioni della giurisprudenza in tema di delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti con riguardo ai profili pertinenti alle questioni da esaminare.
Va subito evidenziato che, secondo un insegnamento consolidato, il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche nel caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, in cui l’operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita e non vi sia, tuttavia, corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nella fattura o altro documento fiscalmente rilevante e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione, in quanto, anche in tal caso, è possibile conseguire il fine illecito indicato dalla norma, ovvero consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 16576 del 01/03/2023, COGNOME, Rv. 284494 – 01, la quale ha precisato che il delitto si configura anche nel caso in cui non sia stato individuato il soggetto che abbia erogato la prestazione e in quello in cui non sia stato accertato che si sia concretamente verificata un’evasione d’imposta, nonché Sez. 3, n. 24307 del 19/01/2017, COGNOME, Rv. 269986 – 01).
Va poi rilevato che, come precisato da alcune decisioni, non è contraria alla normativa euro-unitaria la configurabilità del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa, quando, cioè, l’operazione oggetto di imposizione fiscale sia stata effettivamente eseguita, ma non vi sia corrispondenza soggettiva tra il prestatore indicato nel documento e il soggetto giuridico che abbia erogato la prestazione (così Sez. 3, n. 49806 del 18/05/2018, COGNOME, Rv. 274744 – 01, la quale ha precisato che nessuna violazione della Direttiva 77/388/CE del Consiglio, del 17 maggio 1977 e successive modifiche sussiste nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto).
2.2. Ciò posto, occorre dare conto dei ‘fatti materiali’ accertati nel corso del giudizio di merito, e in ordine alla cui ricostruzione non risultano proposte specifiche censure nel ricorso o nella memoria.
La sentenza impugnata premette che la società della quale era legale rappresentante l’attuale ricorrente, la ‘RAGIONE_SOCIALE, ha emesso fatture in favore di società non operative, ‘fittizie’, create da un gruppo criminale organizzato e promosso da NOME COGNOME e NOME COGNOME ed ha inoltre
utilizzato altre rilasciate da società non operative, ‘fittizie’, anch’esse facenti capo ai medesimi soggetti. Rappresenta, poi, che queste società fittizie, create solo per realizzare frodi fiscali, avevano sede in Italia o all’estero: in dettaglio, alcune, come ‘RAGIONE_SOCIALE‘, RAGIONE_SOCIALE‘, ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, avevano sede a Padova, nello stesso indirizzo; altre, come ‘RAGIONE_SOCIALE‘, ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, all’estero, e rispettivamente, in Slovacchia, Polonia e Slovenia.
La Corte d’appello, inoltre, precisa che la natura fittizia di queste società è evidenziata (anche) in un processo verbale redatto nei confronti dell’attuale ricorrente, ed è stata ammessa da NOME COGNOME uno degli ideatori ed organizzatori del complessivo sistema fraudolento. Rappresenta, inoltre, che: a) nelle conversazioni intercettate la ditta dell’imputato, la ‘RAGIONE_SOCIALE‘, è stata sistematicamente messa in correlazione con società fittizie come RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘Gruppo RAGIONE_SOCIALE‘, facenti capo all’organizzazione criminale; b) il 25 marzo 2015, l’attuale ricorrente, dopo aver ricevuto un controllo da parte della Guardia di Finanza, si era incontrato con i capi del sodalizio criminoso, COGNOME e COGNOME, e nel dialogo, oggetto di captazione, aveva chiesto a costoro di ricostruire compiutamente i rapporti, documentati da fatture, tra la sua ditta e le società estere a costoro facenti capo, dimostrando di avere contezza generale dell’illecito sistema nel quale aveva inserito la sua società, la RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE. Peraltro, dai capi di imputazione, è possibile rilevare che gli importi delle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE verso le società fittizie gestite dal gruppo criminale sono ingenti, perché pari, nel 2013, a 3.385.336,83 euro di imponibile e 744.774,10 a titolo di IVA (capo 132), nel 2014, a 3.854.617,05 euro di imponibile e 848.015,75 a titolo di IVA (capo 173), e, nel 2015, a 1.747.825,60 euro di imponibile e 384.521,63 a titolo di IVA (capo 238).
La sentenza impugnata, quindi, osserva che le fatture emesse dalla ‘RAGIONE_SOCIALE‘, e indicate nei capi di imputazione 132, 173 e 238, erano rilasciate verso società come RAGIONE_SOCIALE‘, RAGIONE_SOCIALE e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, le quali avevano funzione di ‘filtro’, al fine di sterilizzare l’IVA, vicenda che avveniva attraverso il fittizio trasferimento dei beni tra società operanti in diversi Stati dell’Unione Europea. Precisa, poi, che l’omessa previsione dell’IVA nelle singole fatture emesse da ‘RAGIONE_SOCIALE‘ verso le indicate società era proprio il mezzo per ‘scaricare’ l’imposizione su un soggetto che non l’avrebbe mai pagata, ossia sulla società cartiera. Per maggior chiarezza, riporta anche le dichiarazioni di uno dei due capi del sodalizio criminoso, NOME COGNOME, secondo cui si trattava di «un classico carosello fiscale: al cliente una fattura di costo applicando l’IVA e il cliente faceva un’esportazione su una società estera al netto di IVA. Il cliente in questo modo si trovata un credito IVA».
Il Giudice di secondo grado aggiunge, ancora, che la ‘RAGIONE_SOCIALE era pienamente inserita nel sistema illecito, perché non solo emetteva fatture verso le precisate ditte fittizie, ma le riceveva pure, pagando gli importi in esse indicato, ed ottenendo poi la retrocessione delle somme in contanti, con decurtazione del 10 %, quale compenso per gli organizzatori della frode, e che l’imputato aveva piena consapevolezza di fruire di schemi operativi transnazionali ideati per consentire l’evasione sistematica delle imposte. In proposito, segnala che la consapevolezza dell’imputato di operare in un sistema illecito transnazionale è direttamente rilevabile dal contenuto della conversazione intercettata del 25 marzo 2015 tra l’attuale ricorrente e i due capi del sodalizio criminoso, COGNOME e COGNOME, e che l’adesione ad un modello fraudolento di tal tipo era inoltre un presupposto necessario per ottenere l’IVA a credito: solo l’intervento di soggetti costituiti in altro Stato dell’Unione Europea consentiva a ‘RAGIONE_SOCIALE di non indicare l’IVA nelle fatture emesse. Con specifico riguardo alla sussistenza del fine di consentire l’evasione delle imposte dirette, poi, rimarca: «l’imputato era consapevole che le fatture per operazioni inesistenti emesse dalla RAGIONE_SOCIALE di cui era legale rappresentante andavano ad inserirsi nel complesso disegno criminoso ideato e promosso da COGNOME NOME e COGNOME NOME, volto a consentire l’evasione di imposta a diverse società con sede in Italia, disegno che prevedeva anche il coinvolgimento, per così dire intermedio, di soggetti giuridici con sede all’estero».
2.3. In considerazione dei principi giuridici indicati e della ricostruzione dei fatti operata dalle sentenze di merito, deve ritenersi che le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi laddove affermano la configurabilità del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti.
È utile premettere che non sono contestate né la natura fittizia delle società e, sotto il profilo soggettivo, delle operazioni indicate nelle fatture di cui ai capi di imputazione, né la destinazione delle fatture emesse dalla ditta RAGIONE_SOCIALE, di cui era legale rappresentante l’imputato, a società aventi sede all’estero, stante l’applicazione ad esse della disciplina di cui all’art. 41 d.l. n. 331 del 1993, espressamente evocata anche nei ricorsi.
Risulta inoltre non contestato che, come dichiarato da NOME COGNOME uno dei capi del sodalizio criminoso cui faceva capo il sistema delle società fittizie, le operazioni si inserissero in uno schema di ‘frode-carosello’, e che la ‘RAGIONE_SOCIALE, come tutte le ditte emittenti fatture verso le società fittizie all’estero, avesse immediatamente il vantaggio di ottenere un credito IVA, connesso dalla cessione verso operatore estero intra-comunitario, e pari all’importo precedentemente pagato per l’IVA in occasione dell’acquisto di quanto poi ceduto.
Emerge ancora da quanto rappresentato nelle sentenze di merito, né vi sono specifiche censure nel ricorso in proposito, che l’attuale ricorrente, quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, avesse consapevolezza di inserirsi e di avvalersi di un sistema di ‘frode-carosello’. Invero, la sentenza impugnata riporta conversazioni intercettate tra l’attuale ricorrente e i due capi del sodalizio criminoso cui faceva capo il sistema delle società fittizie, NOME COGNOME e NOME COGNOME, denotanti una piena conoscenza da parte del primo delle ‘modalità operative’ di tale sistema; e sulla base di questo dato ha ritenuto integrata l’aggravante della transnazionalità di cui all’art. 61bis cod. pen., la cui applicazione non è nemmeno contestata nel ricorso. Non va trascurato, poi, che la ditta dell’attuale ricorrente si è avvalsa del sistema delle società fittizie facenti capo a NOME COGNOME e NOME COGNOME sia per emettere fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (capi 132, 173 e 238), sia, esattamente nello stesso periodo, e sempre con riguardo ad ingenti importi, per ricevere fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da utilizzare nelle sue dichiarazioni (capi 113, 133, 174 e 239); addirittura, per quanto si evince dai capi di imputazione, ‘RAGIONE_SOCIALE ha tanto emesso, quanto ricevuto un cospicuo numero di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti dalla stessa ditta, ‘RAGIONE_SOCIALE
Date queste premesse fattuali, deve ritenersi congrua ed incensurabile la conclusione secondo cui l’attuale ricorrente, nel rilasciare le fatture per conto di RAGIONE_SOCIALE verso le società fittizie all’estero, siccome consapevole di inserirsi e di avvalersi di un articolato sistema di ‘frode-carosello’, emettesse le stesse anche «al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto», così come richiede l’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000.
Precisamente, la consapevolezza di emettere fatture verso soggetti fittizi aventi sede all’estero, nel contesto di un sistema di ‘frode-carosello’, implica la consapevolezza e volontà di emettere fatture funzionali a consentire innanzitutto l’evasione dell’IVA, ma anche l’evasione delle imposte sui redditi. In effetti, il sistema di ‘frode-carosello’, come appunto rilevato nella specie, si caratterizza per l’utilizzo di soggetti fittizi con sede all’estero, sui quali è ‘scaricata’ l’IVA, in quanto primi ‘formali’ acquirenti dei beni all’estero (il cedente recupera l’imposta maturando un credito IVA, come nel caso in esame), e che, però, non versano la stessa, così da poter rivendere i beni ‘apparentemente’ acquistati con ‘abbattimento’ di tale costo. Inoltre, il sistema di ‘frode-carosello’, come concretamente articolato anche nella specie, comporta il rientro della merce in Italia, e quindi l’uso delle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti ad esse relative nelle dichiarazioni fiscali presentate in Italia; e tali fatture, come si
preciserà infra , nel § 3.1, documentano costi da ritenere fittizi anche ai fini delle imposte sui redditi applicabili in Italia.
In questo contesto, infine, anche l’eventuale finalità di emettere le fatture di cui alle imputazioni per ‘regolarizzare’ le giacenze di magazzino non escluderebbe la configurabilità del reato di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000. In ogni caso, infatti, l’attuale ricorrente, quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, ha consapevolmente emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti al fine di avvalersi di un sistema di ‘frode-carosello’ organizzato e diretto allo specifico scopo di evadere imposte sul valore aggiunto e anche imposte sui redditi.
Infondate sono anche le censure che, esposte in parte del primo e nel terzo motivo, tra loro oggettivamente connesse, contestano la configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, deducendo che la sentenza impugnata non considera, da un lato, l’inoffensività della condotta contestata ai fini dell’evasione delle imposte sui redditi, atteso il disposto di cui all’art. 14, comma 4bis , legge 24 dicembre 1993, n. 537, come modificato dall’art. 8 comma 1, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, o comunque il difetto di dolo per l’effettività dei costi, e, dall’altro, l’impossibilità di configurare il fine di evasione dell’IVA, in quanto la condotta era funzionale a cedere parte delle merci senza emissione di regolare fattura, e, quindi, a «nascondere i ricavi, non aumentare i costi».
3.1. Anche ai fini dell’esame delle censure indicate, è utile muovere dagli approdi della giurisprudenza con riguardo al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, per i profili pertinenti alle questioni da esaminare.
Innanzitutto, va rilevato, con riferimento all’IVA, che i costi relativi alle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non sono mai deducibili, e che, quindi, la indicazione di queste in dichiarazione configura una finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto senza che rilevi in senso contrario la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l’imposta al soggetto che ha realmente fornito la prestazione (così, per tutte, Sez. 3, n. 29977 del 12/02/2019, Romano, Rv. 276289 – 01). Questo perché l’intero meccanismo dell’IVA poggia sul presupposto che il tributo sia versato a chi ha eseguito prestazioni imponibili (che a sua volta potrà compensarla con l’IVA corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi) mentre il versamento dell’IVA a un soggetto non operativo o, comunque, fittiziamente interposto apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa; inoltre, la ‘qualità’ del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota, e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può
legittimamente detrarre (cfr. per questi rilievi, ancora, Sez. 3, n. 29977 del 12/02/2019, cit.).
In secondo luogo, occorre osservare, con riferimento alle imposte sui redditi, che, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi (prevista dall’art. 14, comma 4bis , l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in legge n. 44 del 2012), trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa (così Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2017, COGNOME, Rv. 265154 – 01, la quale, in motivazione, ha sottolineato che la disposizione richiamata si limita a precisare una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, ma non ha alcuna incidenza sulla configurabilità delle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’articolo 2 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché, successivamente, con precise indicazioni in motivazione: Sez. 3, n. 43393 del 15/07/2015, Sannino; Sez. 3, n. 50362 del 12/12/2019, Pollice, Rv. 277938 – 01; Sez. 3, n. 50314 del 27/09/2023, Latempa, Rv. 285675 – 01). Si è precisato, in particolare, che il sintagma «non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo», di cui all’art. 14, comma 4bis , cit., deve essere interpretato «nel senso che sono indeducibili i costi comunque ‘riconducibili’ alla condotta criminosa, con la conseguenza che i costi sostenuti per la realizzazione di una frode carosello, essendo essi stessi lo strumento per realizzare l’evasione IVA, sono indeducibili» (così, testualmente, ad esempio, Sez. 3, n. 43393 del 15/07/2015, cit.). E che i costi consapevolmente sostenuti per fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti sono indeducibili «in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, comportando la cessazione dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale» (così, esattamente, Sez. 3, n. 50362 del 12/12/2019, cit.).
3.2. In considerazione dei principi giuridici indicati e dei fatti materiali accertati, e precedentemente indicati nei §§ 2.2 e 2.3, le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi, anche nella parte in cui affermano la configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, sia con riguardo al fine di evasione dell’IVA, sia con riguardo al fine di evasione delle imposte sui redditi.
In particolare, per quanto concerne la sussistenza del fine di evasione delle imposte sui redditi, è sufficiente considerate che l’attuale ricorrente, operando quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, si è consapevolmente inserito ed avvalso di un articolato sistema di ‘frode-carosello’ organizzato e diretto allo specifico scopo di evadere imposte sul valore aggiunto e anche imposte sui redditi, per importi ingentissimi. E, in relazione a tale profilo, riguardante il rilievo economico delle operazioni, si può osservare che l’imputato, nella veste sopra precisata, ha indicato nelle dichiarazioni relative all’IVA e alle imposte sui redditi: a) per l’anno 2012, elementi passivi fittizi per 42.025,00 euro di imponibile e 8.825,25 a titolo di IVA (capo 113); A2) per l’anno 2013, elementi passivi fittizi per 1.697.058,80 euro di imponibile e 362.251,93 a titolo di IVA (capo 133); A3) per l’anno 2014, elementi passivi fittizi per 2.639.698,50 euro di imponibile e 580.733,67 a titolo di IVA (capo 174); A4) per l’anno 2015, elementi passivi fittizi per 1.530.225,96 euro di imponibile e 336.649,72 a titolo di IVA (capo 239).
Per quanto attiene alla sussistenza del fine di evasione dell’IVA, questo fine non può ritenersi escluso anche ad ammettere che l’attuale ricorrente abbia agito, come asserito nel ricorso, al fine di ‘regolarizzare’ le giacenze di magazzino, per cedere parte delle merci senza emissione di regolare fattura, e, quindi, per «nascondere i ricavi, non aumentare i costi». In ogni caso, infatti, anche ad accogliere tale prospettazione, resta fermo che l’imputato si è avvalso di fatture per operazioni inesistenti, le ha indicate come elementi passivi nelle dichiarazioni fiscali, e ciò al fine di risparmiare anche sull’IVA.
Alla infondatezza delle censure seguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Deve escludersi, infatti, che sia decorso il tempo necessario a prescrivere anche il reato più lontano nel tempo, quello di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti di cui al capo 113, commesso in data 11 settembre 2013, come invocato dal Difensore del ricorrente nel corso della discussione. Invero, i reati per cui è stata pronunciata condanna sono tutti aggravati ex art. 61bis cod. pen., ossia da una fattispecie aggravatrice ad effetto speciale, rilevante ai fini del tempo necessario a prescrivere a norma dell’art. 157, secondo e terzo comma, cod. pen. e ai medesimi, inoltre, si applica l’elevazione di un terzo dei termini di prescrizione, ex art. 17, comma 1bis , d.lgs. n. 74 del 2000. Di conseguenza, e senza tener conto delle cause di sospensione della prescrizione, pur nella specie verificatesi, il tempo necessario a prescrivere i reati in contestazione è pari a quindici anni, ossia un tempo certamente non decorso alla data della pronuncia della presente sentenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in data 04/06/2025.