Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44510 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44510 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/09/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Busto Arsizio il 29/04/1977
COGNOME NOMECOGNOME nato a Modena il 20/05/1956
avverso la sentenza del 12/07/2023 della Corte d’appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; udito, per il ricorrente NOME COGNOME, l’Avv. NOME COGNOME che ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 12 luglio 2023, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano che, per quanto di interesse in questa sede, a seguito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato la penale responsabilità di NOME COGNOME
per feati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, e di NOME COGNOME per reati di cui agli artt. 2 e 10 d.lgs. n. 74 del 2000, e li aveva condannati il primo alla pena di dieci mesi di reclusione, e il secondo alla pena di un anno, tre mesi e venti giorni di reclusione, per entrambi ritenuta la continuazione, concesse le circostanze attenuanti generiche e applicata la diminuente per il rito.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, NOME COGNOME, quale amministratore della società “RAGIONE_SOCIALE“, al fine di evadere le imposte, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, avrebbe indicato: a) nel modello unico presentato il 30 ottobre 2017 relativamente all’anno 2016, elementi passivi fittizi pari a 99.950,00 euro (capo 14.a); b) nel modello IVA presentato il 23 aprile 2018 relativamente all’anno 2017, elementi passivi fittizi pari a 21.989,00 euro (capo 14.b). Sempre secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, NOME COGNOME, quale titolare dell’omonima ditta individuale, al fine di evadere le imposte, avrebbe: a) indicato, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, nel modello IVA presentato il 21 aprile 2016 relativamente all’anno 2015, elementi passivi fittizi pari a 19.140,00 euro, e, nel modello unico presentato il 30 settembre 2016 relativamente all’anno 2015, elementi passivi fittizi pari a 87.000,00 euro (capo 13.a); b) indicato, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, nel modello IVA presentato il 27 febbraio 2017 relativamente all’anno 2016, elementi passivi fittizi pari a 34.100,00 euro, e, nel modello unico presentato il 25 ottobre 2017 relativamente all’anno 2016, elementi passivi fittizi pari a 160.000,00 euro (capo 13.b); c) indicato, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, nel modello IVA presentato il 26 aprile 2018 relativamente all’anno 2017, elementi passivi fittizi pari a 7.700,00 euro, e, nel modello unico presentato il 12 ottobre 2018 relativamente all’anno 2017, elementi passivi fittizi pari a 30.000,00 euro (capo 13.c); d) occultato, almeno in parte, le scritture contabili e i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in particolare le fatture ricevute dalla “RAGIONE_SOCIALE“, dal 2015 al 2017, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume degli affari, a partire dal 17 giugno 2020 (capo 13.d). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe NOME COGNOME con atto sottoscritto dall’Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con atto sottoscritto dall’Avv. NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME è articolato in due motivi.
3.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 comma 1, lett. e), cod proc. pen., avendo riguardo alla affermazione di responsabilità per i reati per i quali è stata pronunciata condanna.
Si deduce che la sentenza impugnata ha confermato la sentenza di primo grado limitandosi ad un generico rinvio alla motivazione di quest’ultima, omettendo completamente di esaminare le censure in tema di valutazione della prova che erano state devolute al Giudice del gravame con l’atto di appello, nonostante il preciso obbligo in proposito, confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità (si citano, in particolare, Sez. 6, n. 29368 del 09/06/2010, e Sez. 1, n. 50741 del 17/12/2015).
3.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 192, commi 2 e 3, e 533, comma 1, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), cod proc. pen., avendo riguardo ancora alla affermazione di responsabilità per i reati per i quali è stata pronunciata condanna.
Si deduce che l’affermazione di responsabilità si basa su elementi del tutto equivoci, in ordine ai quali non è stato effettuato alcun vaglio di attendibilità. Si precisa che gli elementi a carico sono costituiti: a) dalle dichiarazioni di un imputato di reato connesso, NOME COGNOME NOME COGNOME, le quali non riguardano direttamente la posizione della “RAGIONE_SOCIALE“, società dell’attuale ricorrente, ma si limitano semplicemente ad asserire che «gran parte delle operazioni» sottese alle fatture emesse dalla società “RAGIONE_SOCIALE“, quindi non tutte, e non necessariam ‘ ente quelle intercorse con la “RAGIONE_SOCIALE“, erano fittizie; b) dalle dichiarazioni di altro imputato di reato connesso, NOME COGNOME, quale responsabile del cliente “RAGIONE_SOCIALE“, il quale nulla ha saputo riferire con riguardo ai rapporti con la stessa; c) dalla pretesa “genericità delle fatture”, sebbene le stesse riportino compiutamente oggetto, periodo di riferimento e clienti finali della singola operazione. Si aggiunge che la sentenza impugnata ha anche omesso di confrontarsi con gli elementi prodotti dalla difesa, limitandosi ad asserire che gli stessi sono «insufficienti a fornire la prova che l’operazione è stata effettivamente realizzata».
4. Il ricorso di NOME COGNOME è articolato in tre motivi.
4.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 10 d.igs. n. 74 del 2000, a norma dell’art. 606 comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione di responsabilità per il reato di occultamento di documenti contabili.
Si deduce che la sentenza impugnata ha illegittimamente negato rilievo alla produzione delle fatture di cui ai capi di imputazione prima dell’ammissione al giudizio abbreviato, all’udienza del 21 febbraio 2022. Si rappresenta che la mancata produzione delle indicate fatture nella fase delle indagini era stata determinata dalla difficoltà di reperire le stesse, le quali, inoltre, erano state regolarmente annotate nelle scritture contabili. Si osserva che la condotta di
occultamento, siccome equiparata dall’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000 a quella di distruzione, deve sortire i medesimi effetti, di irrimediabile dispersione del documento, e che ciò, però, nella specie non è avvenuto, stante la consegna successiva dei documenti inizialmente non reperiti; si aggiunge che non vi è stato nemmeno il rifiuto di esibire i precisati documenti, ossia l’azione ritenuta equivalente a quella di occultamento dall’art. 9 d.lgs. n. 471 del 1997, e che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari era sicuramente possibile da subito, in quanto l’attuale ricorrente, sin dal primo momento, esibì le scritture contabili e i registri nei quali le fatture inizialmente non reperite erano state annotate.
4.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione di responsabilità per i reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che la sentenza impugnata ha omesso di rispondere alle censure formulate con l’atto di appello, le quali avevano rilevato che: a) la pretesa genericità dell’oggetto delle fatture e l’assenza della documentazione a supporto si spiegano perché i relativi contratti si riferivano alla prestazione di servizi; b) l dichiarazioni accusatorie rese dai coimputati sono inattendibili perché è inverosimile il ricorso a complesse operazioni con retrocessione di parte della somma versata per fatture di importo irrisorio, come la fattura n. 7 del 2017; c) le dichiarazioni accusatorie si riferiscono a due sole fatture, la n. 51 del 2016 e la n. 33 del 2017, e non possono essere perciò estese a tutte le fatture elencate nelle imputazioni.
4.3. Con il terzo motivo, si denuncia mancanza di motivazione, avendo riguardo alla determinazione della confisca per equivalente.
Si deduce che la sentenza impugnata non spiega perché il profitto del reato è quantificato sulla base dell’intera somma delle fatture ritenute mendaci, quando, a dire delle dichiarazioni dei coimputati, l’importo non corrispondente alla prestazione effettivamente eseguita variava dal 30 % al 70 % della somma indicata in ciascun documento, per le retrocessioni di danaro. Si osserva che, a causa della parzialità delle retrocessioni, i vantaggi per l’utilizzo delle false fatture non si riferiscono all’intero importo delle stesse, e che quindi la confisca deve essere commisurata al profitto effettivamente conseguito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito precisate.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché contiene censure o prive di specificità o manifestamente infondate.
2.1. Prive di specificità, e comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano l’omessa motivazione della sentenza impugnata con’ riguardo alle censure formulate nell’atto di appello.
È utile premettere che il ricorso non contesta come imprecisa o lacunosa la sintesi dell’atto di appello esposta nella sentenza impugnata alle pagine da 21 a 23, né richiama punti specifici del gravame che sarebbero stati pretermessi.
Ciò posto, l’atto di appello, per come sintetizzato dal Giudice di secondo grado, evidenzia, in particolare, che il Giudice di primo grado avrebbe illegittimamente e ingiustamente valorizzato la genericità delle indicazioni in ordine al contenuto delle operazioni riportate nelle fatture ricevute ed annotate in contabilità, la mancata produzione di contratti scritti a fondamento di tali operazioni, la genericità delle dichiarazioni del gestore di fatto della ditta “RAGIONE_SOCIALE, la quale aveva emesso le fatture ritenute inesistenti.
Ora, in relazione a questi profili, la sentenza impugnata offre delle specifiche, sebbene sintetiche, risposte, a pag. 29. Il significato di dette risposte, inoltre, è ancora più chiaro se si considera la parte della sentenza impugnata che riassume il contenuto della decisione di primo grado (il riferimento è in particolare alle pagg. 8 e 9 e da 12 a 15 della sentenza impugnata).
2.2. Manifestamente infondate, e in parte prive di specificità, sono le censure formulate nel secondo motivo, che contestano l’affermazione di responsabilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, deducendo l’equivocità e l’inattendibilità degli elementi valorizzati a carico, nonché l’omessa valutazione degli elementi prodotti dalla difesa.
2.2.1. È utile premettere che, come indicato nelle imputazioni e nella sentenza impugnata, le fatture ritenute inesistenti utilizzate dalla “RAGIONE_SOCIALE“, della quale era amministratore l’attuale ricorrente, ed emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, gestita da NOME COGNOME NOME COGNOME, sono due: a) la fattura n. 80 emessa il 24 aprile 2017, per un imponibile di 68.350,00 euro, ed IVA pari a 15.037,00 euro; b) la fattura n. 83 emessa il 28 aprile 2017, per un imponibile di 31.600,00 euro, ed IVA pari a 6.952,00 euro.
La Corte d’appello, a fondamento dell’affermazione di responsabilità, richiama innanzitutto le dichiarazioni di NOME COGNOME NOME COGNOME, legale rappresentante di “RAGIONE_SOCIALE“, rese nella qualità di imputato di reato connesso. Secondo quanto sintetizzato dalla Corte d’appello, il precisato dichiarante afferma che: 1) gran parte delle prestazioni indicate nelle fatture emesse da “RAGIONE_SOCIALE” erano fittizie; 2) i rapporti tra questa società e la “RAGIONE_SOCIALE“, di cui era legale rappresentante l’attuale ricorrente, erano gestiti da un intermediario, NOME COGNOME persona alla quale egli consegnava il denaro da retrocedere ai destinatari delle false fatture; 3) nulla sapeva riferire sulle due fatture emesse da “RAGIONE_SOCIALE” a “RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’appello, poi, rimarca che le due fatture contestate hanno oggetto assolutamente generico e che manca qualunque documentazione a supporto, a partire dai contratti in forza dei quali sarebbero state effettuate le prestazioni. In particolare, si evidenzia che entrambe le fatture si limitano ad indicare «assistenza alla realizzazione progettazione e allestimenti riferiti all’anno 2016 per gli eventi dei vostri clienti», a riportare i nomi di tali clienti, e a concludere: «Vi addebitiamo l’importo su indicato»).
La Corte d’appello, ancora, rappresenta che la documentazione della difesa consiste in progetti e rendering, ossia rappresentazioni di qualità, relativi alle attività asseritamente svolte dalla “RAGIONE_SOCIALE” nell’interesse della “RAGIONE_SOCIALE“, impresa operante nel settore del noleggio di strutture per manifestazioni e spettacoli, è inidonea a fornire la prova dell’effettività delle prestazioni, attesa la mancata produzione dei contratti tra le due società.
2.2.2. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla fittizietà delle due fatture emesse da “RAGIONE_SOCIALE” ed utilizzate da “RAGIONE_SOCIALE” sono correttamente motivate.
La fittizietà delle due fatture è affermata sulla base delle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso e delle altre risultanze istruttorie, considerate in modo coordinato ed unitario.
Tale operazione di valutazione delle prove non può certo dirsi manifestamente illogica, perché le dichiarazioni dell’imputato di reato connesso rendono plausibile la tesi della fittizietà delle due fatture contestate, mentre la certezza di tale conclusione è desunta dall’assenza di contratti o altri documenti attestanti l’esistenza di vincoli contrattuali tra “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“.
Può aggiungersi che il dato dell’assenza di contratti, o di documenti equivalenti, tra le due società è legittimamente valorizzabile come grave e preciso in quanto le due fatture sono state emesse nell’arco di cinque giorni, il 24 e il 28 luglio, e sono relative ad una somma complessiva di oltre 121.000,00 euro, determinata da 99.950,00 euro per imponibile, e da 21.989,00 euro per IVA.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché contiene censure manifestamente infondate, o diverse da quelle consentite in sede di legittimità.
3.1. Manifestamente infondate, e in parte diverse da quelle consentite, sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano l’affermazione di responsabilità per il reato di occultamento di documenti contabili, deducendo che l’imputato ha depositato le fatture ritenute inesistenti prima dell’ammissione al giudizio abbreviato e non ha opposto alcun rifiuto agli organi verificatori di fornire le fatture, e che la ricostruzione dei redditi e degli affari era comunque possibile anche in sede di verifica, attesa la produzione delle scritture contabili, le quali recavano l’annotazione delle precisate fatture.
3.1.1. Secondo quanto rappresentato nella sentenza impugnata, la ditta individuale dell’attuale ricorrente, avente come oggetto sociale la conduzione di campagne marketing e altri servizi pubblicitari, aveva annotato nelle scritture contabili le fatture ritenute fittizie – precisamente tre nel 2015 (complessivamente per un imponibile di 87.000,00 euro, ed IVA pari a 19.140,00 euro), cinque nel 2016 (complessivamente per un imponibile di 160.000,00 euro, ed IVA pari a 34.100,00 euro) e due nel 2017 (complessivamente per un imponibile di 30.000,00 euro, ed IVA pari a 7.700,00 euro) -, tutte emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, gestita da NOME COGNOME e le aveva utilizzate nelle dichiarazioni ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi, ma non le aveva esibite in sede di verifica alla Guardia di Finanza, producendole soltanto in sede di udienza preliminare.
In particolare, la Corte d’appello segnala che: a) l’attuale ricorrente, quando era stato convocato dalla Guardia di Finanza, non aveva fornito le fatture emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE“, ma aveva detto di detenerle presso l’indirizzo di residenza, e si era riservato di produrle successivamente; b) le perquisizioni effettuate dalla Guardia di Finanza presso l’indirizzo del ricorrente avevano avuto esito negativo; c) le fatture in questione sono state prodotte solo in data 21 febbraio 2022, durante l’udienza preliminare.
Inoltre, secondo entrambe le sentenze di merito, la ricostruzione del volume degli affari e dei redditi dell’impresa dell’attuale ricorrente è stata possibile solo sulla base dei riscontri incrociati presso “RAGIONE_SOCIALE“, e la mancata produzione delle fatture è stata finalizzata ad impedire alla Guardia di Finanza la ricostruzione dei rapporti tra le due ditte, anche perché l’imputato non ha esibito altra documentazione. Si può aggiungere che, secondo entrambe le sentenze di merito, fondamentale elemento di riscontro alle dichiarazioni auto- ed etero-accusatorie rese da COGNOME in ordine alla fittizietà delle fatture è costituito dall’assoluta genericità dell’oggetto delle stesse e dalla totale assenza di documentazione a supporto.
3.1.2. Posta la ricostruzione dei fatti appena indicata, le conclusioni della sentenza impugnata risultano correttamente motivate.
In primo luogo, la produzione delle fatture soltanto durante l’udienza preliminare non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000.
Invero, come puntualmente osservato in giurisprudenza, in tema di reati tributari, integra l’occultamento dei documenti contabili, a norma dell’art. 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, la condotta dell’amministratore che determini il loro mancato, prolungato rinvenimento nei luoghi riferibili alla società e accessibili agli organi verificatori, nella consapevolezza dell’accertamento in corso e della strumentalità della documentazione alla ricostruzione della contabilità della società (Sez. 3, n. 23921 del 14/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 281485 – 01, la quale
ha ritenuto che la successiva rivelazione, da parte dell’amministratore, del luogo di custodia della documentazione in sede di interrogatorio conseguente alla notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. non escludesse l’avvenuta consumazione del reato). E questo in particolare perché «l’occultamento consiste nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori e si realizza mediante il nascondimento materiale del documento» (così Sez. 3, n. 23921 del 14/12/2020, dep. 2021, cit., in motivazione).
Il principio appena richiamato, del resto, è perfettamente in linea con i consolidati orientamenti giurisprudenziali in ordine al reato previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 74 del 2000, secondo i quali, per un verso, l’occultamento di documenti contabili consiste anche nella “temporanea” indisponibilità della documentazione contabile da parte degli organi verificatori (cfr. Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018, COGNOME, Rv. 274697 – 02, e Sez. 3, n. 14461 del 25/05/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269898 – 01), e, sotto altro profilo, l’obbligo di esibizione dei documenti contabili perdura finché dura il controllo da parte degli organi verificatori (vds. Sez. 3, n. 40317 del 23/09/2021, COGNOME, Rv. 282340 – 01, e Sez. 3, n. 4871 del 17/01/2006, Festa, Rv. 234053 – 01).
In secondo luogo, l’occultamento delle scritture contabili non postula un espresso rifiuto di esibizione delle scritture contabili.
Da un punto di vista letterale, infatti, la condotta di occultamento di un oggetto si realizza mediante il nascondimento dello stesso; e l’estemazione di risposte vaghe o elusive a chi ricerca tale oggetto concorre pienamente al nascondimento.
Da un punto di vista sistematico, poi, la condotta di occultamento non è correlata esplicitamente o implicitamente dal legislatore ad un espresso rifiuto; del resto, anche l’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 471 del 1997, indica come equivalenti, ai fini dell’irrogazione di sanzioni amministrative, il rifiuto di esibizione dei documenti contabili, la dichiarazione di non possederli o, più in generale, la sottrazione degli stessi («La sanzione prevista nel comma 1 si applica a chi, nel corso degli accessi eseguiti ai fini dell’accertamento in materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, rifiuta di esibire o dichiara di non possedere o comunque sottrae all’ispezione e alla verifica i documenti, i registri e le scritture indicati nel medesimo comma ovvero altri registri, documenti e scritture, ancorché non obbligatori, dei quali risulti con certezza l’esistenza»).
In terzo luogo, l’impossibilità della ricostruzione dei redditi e degli affari da parte degli organi verificatori a causa dell’occultamento delle fatture indicate nelle imputazioni è stata correttamente affermata.
Come si evince dalle sentenze di merito, infatti, l’esame delle fatture ha offerto una importantissima conferma alle dichiarazioni dell’emittente, perché ha consentito di evidenziarne la genericità dell’oggetto e l’assenza di qualunque
documentazione contrattuale a supporto, e l’imputato non ha prodotto altra documentazione equipollente.
3.2. Manifestamente infondate, e in parte diverse da quelle consentite, sono le censure formulate nel secondo motivo, che contestano l’affermazione di responsabilità per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, deducendo che la ritenuta genericità dell’oggetto delle fatture e l’assenza della documentazione a supporto si spiegano perché le operazioni avevano ad oggetto prestazioni di servizi, e che le dichiarazioni accusatorie sono inattendibili, siccome inverosimili e relative a due sole fatture.
Si è già indicato in precedenza, nel § 3.1.1., che le fatture ritenute fittizie, emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE” ed utilizzate dalla ditta individuale del ricorrente sono tre nel 2015 (per un imponibile complessivo di 87.000,00 euro, ed IVA pari a 19.140,00 euro), cinque nel 2016 (per un imponibile complessivo di 160.000,00 euro, ed IVA pari a 34.100,00 euro) e due nel 2017 (per un imponibile complessivo di 30.000,00 euro, ed IVA pari a 7.700,00 euro).
Con riferimento ai reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, la sentenza impugnata espone che: a) il legale rappresentante della “RAGIONE_SOCIALE“, NOME COGNOME rendendo dichiarazioni come imputato di reato connesso, ha affermato che gran parte delle prestazioni di cui alle fatture emesse da tale società erano fittizie, e tali, in particolare, erano le fatture n. 51 del 2016 e n. 33 del 2017, rilasciate alla ditta individuale dell’attuale ricorrente; b) le fatture rilasciate alla ditta dell’attua ricorrente hanno un oggetto assolutamente generico (ad esempio: «ricerca e segnalazione clienti, servizi di telemarketing, presentazione clienti, segnalazione mandati», oppure «consulenza e gestione clienti”, ovvero «acconto e saldo del contratto del 16 novembre 2015») e non sono supportate da alcuna documentazione, come ad esempio i contratti.
Ciò posto le conclusioni della sentenza impugnata risultano immuni da vizi.
Innanzitutto, le critiche relative all’attendibilità delle dichiarazioni dell’imputato di reato connesso NOME COGNOME COGNOME si limitano a denunciarne l’inverosimiglianza, lamentando che le stesse fanno riferimento a meccanismi di retrocessione di somme che appaiono sproporzionati rispetto agli importi indicati nelle fatture. Va poi rilevato che gli importi indicati nelle fatture anche a considerarli separatamente per ciascun anno, non sono certo modesti, perché, ad esempio, nel 2015 sono pari a 106.140,00 euro e nel 2017 sono pari a quasi 190.000,00 euro, e, quindi, possono spiegare il ricorso ad operazioni non minimali di retrocessione di somme. Di conseguenza, può ritenersi che le critiche in questione non evidenziano vizi logici nell’esame dell’attendibilità delle dichiarazioni di COGNOME, ma ne propongono soltanto un diverso apprezzamento.
In secondo luogo, è ragionevole la conclusione della fittizietà di tutte le fatture, emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE” in favore della ditta individuale dell’attuale ricorrente perché fondata su un insieme coordinato di elementi di prova. La Corte d’appello, infatti, rappresenta che: a) le dichiarazioni del legale rappresentante della “RAGIONE_SOCIALE“, COGNOME, non si limitano ad affermare il mendacio con riguardo a due sole fatture, ma, oltre a fornire esemplificazioni precise, ammettono la inesistenza della maggior parte delle operazioni commerciali apparentemente effettuate dalla sua impresa; b) tutte le fatture emesse dalla “RAGIONE_SOCIALE” in favore della ditta individuale dell’attuale sono caratterizzate da un oggetto generico; c) manca qualunque contratto o altro documento attestante l’esistenza di vincoli contrattuali tra la “RAGIONE_SOCIALE” e la ditta individuale di NOME COGNOME. E, anche con riferimento alle imputazioni di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 a carico dell’attuale ricorrente, può aggiungersi che il dato dell’assenza di documenti giustificativi di contratti tra le due ditte è legittimamente valorizzabile come grave e preciso in quanto le fatture sono complessivamente relative a somme estremamente significative.
3.3. Manifestamente infondate sono le censure enunciate nel terzo motivo, che contestano il difetto di motivazione in ordine alla determinazione dell’entità della confisca per equivalente, deducendo che le retrocessioni sono state solo parziali, e che, quindi, il profitto non può essere calcolato sull’intero importo delle fatture ritenute fittizie.
In realtà, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, anche delle Sezioni Unite, il profitto del reato non può essere calcolato secondo criteri aziendalistici, quali quelli del “profitto lordo” e del “profitto netto”.
In questa prospettiva, la nozione di profitto del reato, se non può essere dilatata fino ad includere i risultati economici di un’attività in sé lecita non in collegamento diretto ed immediato con il reato (così Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 239924 – 01, con riguardo ai corrispettivi per un contratto stipulato in conseguenza di una condotta delittuosa), comprende però l’intero importo di un’operazione interamente illecita (cfr. Sez. 2, n. 30656 del 23/02/2023, Banca Cramer, Rv. 284941 – 01, relativamente alle somme oggetto di riciclaggio provenienti da delitti di frode fiscale e di appropriaZione indebita), e non implica la decurtazione dei costi sostenuti per realizzare il fatto penalmente rilevante, perché altrimenti si sottrarrebbe l’agente al rischio economico derivante dalla perpetrazione (vds. Sez. 3, n. 11617 del 06/03/2024, COGNOME, Rv. 286073 – 01, in riferimento al reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiu
In linea con questi principi, può rilevarsi che anche il costo sostenuto per ottenere fatture per operazioni inesistenti non può essere dedotto dal profitto conseguito attraverso l’utilizzo di tali fatture nelle dichiarazioni fiscali. Invero questo costo è un costo illecito, specificamente sostenuto per ottenere le fals , A i
fatture, e, quindi strumentale alla commissione del delitto di cui all’art. 2 d.l 74 del 2000, e, perciò, anzi, è qualificabile come «prezzo del reato», sempr confiscabile a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 1, cod. pen.
Si può aggiungere che una conferma di questa conclusione è offerta anche dalla legislazione fiscale: in particolare, l’art. 14, comma 4-bis, legge 24 dicembre 1993, n. 537, esclude che, nella determinazione dei redditi ai fini delle imposte s redditi «non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o dell prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o att qualificabili come delitto non colposo ».
Ne discende, quindi, che incensurabile è la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha confermato la statuizione del Giudice di primo grado, che ha calcolato il profitto del reato sulla base dei costi computati nelle dichiaraz dell’attuale ricorrente sulla base degli importi indicati nelle fatture, senza ope alcuna decurtazione degli stessi per le retrocessioni effettuate.
Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili d colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende, a carico di ciascuno di essi, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso 1’11/09/2024.