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Falso in bilancio: quando c’è dolo dell’amministratore?

La Corte di Cassazione conferma la condanna per falso in bilancio di un amministratore che aveva approvato bilanci con utili fittizi, basati su dati preesistenti al suo ingresso in società. La Corte ha stabilito che l’intento fraudolento (dolo) può essere desunto da elementi oggettivi, come l’acquisto della società a un prezzo irrisorio rispetto ai ricavi dichiarati e la finalità di ottenere illecitamente una licenza. L’amministratore non può invocare la buona fede se le circostanze rendono palese la falsità dei dati contabili.

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Pubblicato il 8 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Falso in bilancio: la responsabilità dell’amministratore subentrante

Il reato di falso in bilancio rappresenta uno dei pilastri del diritto penale societario, posto a tutela della trasparenza e della veridicità delle informazioni economiche e finanziarie di un’impresa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sulla responsabilità dell’amministratore che subentra nella gestione di una società e si trova ad approvare bilanci basati su dati contabili preesistenti e non veritieri. La Corte ha delineato i criteri per accertare la sussistenza del dolo, ovvero l’intenzione di commettere il reato, anche in assenza di un ruolo diretto nella redazione originaria delle scritture contabili.

I Fatti del Caso

Il caso esaminato riguarda un amministratore condannato sia in primo che in secondo grado per i reati di false comunicazioni sociali e illecite operazioni sulle azioni o quote sociali. Nello specifico, l’imputato, in qualità di nuovo amministratore di una S.r.l., aveva approvato i bilanci relativi agli esercizi 2017 e 2018, indicando utili fittizi per diversi milioni di euro. Successivamente, aveva deliberato un aumento di capitale sociale da 10.000 euro a 6 milioni di euro, coprendolo con l’utilizzo di riserve altrettanto fittizie.

L’elemento chiave che ha insospettito gli inquirenti era la modalità di acquisizione della società: l’imputato l’aveva acquistata per una somma di poco superiore a duemila euro, nonostante la stessa dichiarasse ricavi multimilionari. L’accusa ha sostenuto che l’intera operazione fosse finalizzata a presentare una situazione patrimoniale e finanziaria solida in modo fraudolento, con lo scopo di ottenere dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli la licenza per la gestione di un deposito fiscale.

La difesa dell’amministratore si basava sulla sua presunta buona fede, sostenendo di essersi fidato dei dati contabili e delle dichiarazioni fiscali preparate dalla precedente gestione e di non avere avuto un ruolo nella redazione dei bilanci falsi. Tuttavia, questa linea difensiva non ha convinto i giudici di merito.

L’analisi del dolo nel falso in bilancio

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo la motivazione della Corte d’Appello logica e coerente. Il punto centrale della decisione riguarda la prova dell’elemento soggettivo del reato, il dolo. La Corte ha ribadito che il dolo nel falso in bilancio non può essere semplicemente presunto dalla violazione delle norme contabili (non è provato in re ipsa), ma deve essere desunto da elementi inequivocabili che dimostrino la consapevolezza dell’amministratore di esporre fatti non veri e la sua intenzione di ingannare per un profitto ingiusto.

Nel caso specifico, i giudici hanno individuato diversi indizi gravi, precisi e concordanti:

1. Il prezzo di acquisto irrisorio: L’acquisto di una società che dichiara utili per milioni di euro per una cifra di soli duemila euro è stato considerato un fatto talmente anomalo da essere incompatibile con la buona fede.
2. La mancanza di asset reali: La società non possedeva alcun impianto di stoccaggio o deposito che potesse giustificare le enormi rimanenze di magazzino indicate in bilancio, fonte principale degli utili fittizi.
3. La competenza dell’imputato: L’amministratore vantava competenze specifiche nel settore, rendendo inverosimile la sua incapacità di riconoscere tali palesi incongruenze.
4. La finalità dell’operazione: L’ammissione dello stesso imputato di voler ottenere una licenza per un deposito fiscale ha chiarito il movente dell’operazione fraudolenta.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha chiarito che, sebbene l’amministratore non avesse materialmente redatto le scritture contabili originarie, nel momento in cui ha presentato i bilanci all’assemblea e redatto la relazione illustrativa ai soci, ha fatto propri quei dati falsi. Essendo l’amministratore, aveva il dovere di verificare la veridicità delle informazioni, soprattutto di fronte a evidenti ‘campanelli d’allarme’ come il prezzo d’acquisto fuori mercato.

La difesa basata sulla presunta estraneità a una ‘frode carosello’ oggetto di un altro procedimento è stata ritenuta irrilevante. La responsabilità per il falso in bilancio è autonoma e si fonda sulla condotta di chi, avendo il potere e il dovere di controllo, espone consapevolmente dati falsi per trarne un vantaggio.

Le conclusioni

Questa sentenza rafforza un principio fondamentale del diritto societario: l’amministratore non è un mero esecutore, ma il garante della correttezza delle informazioni fornite ai soci e ai terzi. Non è possibile nascondersi dietro la preesistente contabilità per sfuggire alle proprie responsabilità, specialmente quando le circostanze oggettive rendono la falsità dei dati ictu oculi, cioè immediatamente evidente. Il dovere di diligenza impone una verifica attiva, e l’omissione di tale controllo, unita a un chiaro movente, integra pienamente il dolo richiesto per il reato di false comunicazioni sociali.

Un amministratore subentrante è responsabile per il falso in bilancio basato su dati contabili preesistenti?
Sì, è responsabile se approva e presenta consapevolmente bilanci contenenti tali dati falsi, facendoli propri. Il suo dovere di diligenza gli impone di verificare le informazioni, soprattutto in presenza di evidenti anomalie.

Come si dimostra l’intenzione (dolo) nel reato di falso in bilancio?
Il dolo non è mai presunto ma deve essere provato attraverso elementi concreti e inequivocabili, come un prezzo di acquisto della società palesemente incongruo, l’assenza di beni reali a fronte di valori di bilancio elevati, e l’esistenza di un chiaro fine illecito perseguito dall’amministratore.

L’acquisto di una società a un prezzo simbolico può essere considerato un indizio di reato?
Sì, secondo la Corte, l’acquisto di una società che dichiara utili multimilionari per un prezzo ‘fuori mercato’ (nel caso di specie, poche migliaia di euro) è un grave indizio che dimostra la consapevolezza dell’acquirente circa la fittizietà dei valori contabili e la natura fraudolenta dell’operazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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