Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 27726 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 27726 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nata in Nigeria il 15/12/1994 avverso la sentenza del 19/02/2025 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 19/2/2025, la Corte d’appello di Torino confermò la sentenza del Tribunale di Vercelli che aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile del reato di cui all’art. 7 d.l. 4/2019 e, riconosciute le attenuanti generiche, l’aveva condannata alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, con pena sospesa e non menzione.
Ricorre per Cassazione NOMECOGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione o erronea applicazione dell’art. 62 n. 4 cod. pen. sull’assunto che “l’importo, oggetto di imputazione, è assai modesto, nonché estremamente limitato nel tempo, oltre a essere difettante dell’elemento della serialità”;
2.2 Violazione di legge penale in relazione alla pena comminata ritenuta “esageratamente elevata e afflittiva”, considerato che il riconoscimento dell’attenuante di cui al punto precedente avrebbe consentito di irrogare una pena inferiore;
2.3 Violazione o erronea applicazione della “legge penale o di altre norme di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale in specie ritenuta l’insussistenza del reato considerata la leggerezza con cui ha agito l’imputata”. Si assume che si è in presenza di un errore su una “legge diversa da quella penale” sul cui significato l’imputata era caduta in errore essendosi affidata a un centro di assistenza fiscale per la redazione e l’inoltro della domanda senza avere “contezza” di ciò che firmava. Non poteva, pertanto, escludersi che l’operatore che aveva assistito NOME nella redazione della domanda potesse aver omesso di avvisare la donna che, fra i requisiti richiesti, vi era la residenza in Italia da almeno diec anni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile in quanto articolato in motivi aspecifici o manifestamente infondati.
Prima di esaminare le censure difensive, avuto riguardo per l’addebito mosso all’imputata, che è stata tratta a giudizio per aver falsamente dichiarato, al fine di ottenere l’erogazione del c.d. reddito di cittadinanza, di aver risieduto in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, va sottolineato che dalle sentenze di merito emerge che la ricorrente si era trasferita in Italia nel 2017.
2.1 L’esigenza di una tale precisazione discende dal fatto che le disposizioni in tema di “reddito di cittadinanza” che prevedevano il requisito in esame ( art. 2, comma 1, dl. n. 4 del 2019, conv. dalla I. n. 26 del 2019) sono state recentemente oggetto di due importanti decisioni, emesse rispettivamente dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, sent. 29 luglio 2024, cause riunite C-112 e C-223) e della Corte costituzionale (sent. n. 31 del 20 marzo 2025).
2.2. L’incidenza di tali decisioni in una vicenda del tutto analoga, in cui il ricorrente, imputato per aver percepito il reddito di cittadinanza nonostante fosse residente in Italia da meno di cinque anni, è stata di recente valutata da questa Corte ( Sez. 3, n. 23452 del 28/5/2025, Afloroaie; conf. Sez. 3, n 23449 del 28/5/2025, Condino) che ha così precisato:
“Con la prima decisione, la Corte di Giustizia ha risposto al quesito proposto dal giudice di rinvio (Tribunale di Napoli), concernente la compatibilità delle disposizioni che qui rilevano con il diritto dell’Unione, nel senso che «l’articolo 11,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamental dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Una completa disamina della sentenza della CGUE è ovviamente incompatibile con la presente trattazione. Ci si limita pertanto ad evidenziare, qui di seguito, i due aspetti che più direttamente rilevano ai fini della decisione odierna.
È opportuno anzitutto sottolineare – anche in vista di quanto si dirà a proposito della sentenza della Corte costituzionale (…) che il requisito della previa residenza decennale è stato censurato, dalla Corte di Giustizia, anche perché l’art. 4 della già citata direttiva individua in cinque anni il periodo di soggiorno, legale ed ininterrotto, del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro dell’Unione: requisito idoneo a comprovare un adeguato radicamento in quello Stato, e quindi ad attribuire al cittadino del Paese terzo lo status di soggiornante di lungo periodo, come tale avente «diritto alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva» (cfr. il § 57 della motivazione). Pertanto, la Corte di Giustizia ha osservato che «uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109 senza violare quest’ultima disposizione» (§ 58).
Risulta con assoluta chiarezza, anche dal dispositivo e dai passaggi argomentativi testualmente riportati in precedenza, che la CGUE ha affrontato e deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Napoli sul presupposto della riconduzione del c.d. reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale».
Come meglio si vedrà esaminando la successiva sentenza della Corte costituzionale, tale inquadramento assume un rilievo centrale ai fini della odierna decisione, non solo perché fermamente contrastato dal Governo italiano nel corso del giudizio dinanzi alla Grande Sezione, ma anche – ed anzi soprattutto – per la peculiare posizione assunta da quest’ultima.
La sentenza della CGUE, infatti, ha richiamato le posizioni di marcato dissenso espresse dal Governo italiano, secondo il quale «il reddito di cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali non sarebbe una misura di protezione sociale o di assistenza sociale il cui scopo sia semplicemente quello di garantire agli interessati un certo livello di reddito, ma costituirebbe una misura complessa volta soprattutto a favorire l’inclusione sociale e la reintegrazione degli interessati nel mercato del lavoro» (cfr. il § 25).
Prendendo atto di tale posizione del Governo italiano, la Grande Sezione ha tuttavia ritenuto che la stessa non fosse ostativa alla trattazione delle questioni pregiudiziali sollevate, e soprattutto ha affermato la necessità di attenersi alla ricostruzione del giudice del rinvio pregiudiziale, imperniata – come già posto in evidenza – sulla riconduzione del reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti le prestazioni sociali, di assistenza sociale e di protezione sociale.
Si è anche affermato, conclusivamente, che «è vero che il governo italiano contesta questa constatazione del giudice del rinvio. Tuttavia occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Corte è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza» (§ 40 della motivazione).
Come già accennato, dopo la proposizione del ricorso…, è intervenuta la sentenza n. 31 della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 2 d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 d 2019) «nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia ‘per almeno 10 anni’, anziché prevedere ‘per almeno 5 anni’».
Anche con riferimento a tale decisione, è necessario limitarsi, in questa sede, ad illustrare i passaggi argomentativi di maggior rilievo ai fini dell’odierna decisione (la questione di legittimità costituzionale del requisito di residenza per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, era stata sollevata dalla Corte d’Appello di Milano – Sez. Lavoro, nell’ambito di un procedimento avviato da due richiedenti il reddito di cittadinanza e l’INPS).
Quel che interessa sin da subito evidenziare è il fatto che la Corte costituzionale ha preso in esplicita considerazione la sentenza della Grande
Sezione della CGUE, ma ne ha preso le distanze, altrettanto esplicitamente, quanto all’inquadramento del r.d.c. tra le misure di assistenza sociale.
La Consulta ha invero ribadito, sulla scorta di alcune proprie decisioni precedenti, «la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario».
In questa prospettiva, la sentenza ha passato in rassegna le disposizioni in tema di necessaria dichiarazione di disponibilità al lavoro da parte dei beneficiari maggiorenni, di percorsi di accompagnamento di costoro all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, di obblighi ricerca attiva del lavoro e di accettazione di proposte congrue, ecc. All’esito di tale disamina, la Corte costituzionale ha in sintesi osservato che «gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile · da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà». In tale prospettiva, le precedenti decisioni sul tema avevano ritenuto non irragionevole non solo l’interruzione dell’erogazione del beneficio in caso di mancato rispetto degli impegni, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni previste dalla normativa (mancata sottoposizione a misure cautelari e condanne per determinati reati nel decennio precedente, divieto di utilizzo dell’erogazione per giochi con vincite in danaro), oltre alla stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, si è conclusivamente ritenuto «evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili» (sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024)».
La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di R.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto (…), la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, che aveva ricondotto il R.d.c. tra le misure di assistenza sociale, ritenendo che ad essa non spettasse verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che ‘il reddito di cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta’».
Le conclusioni della Corte costituzionale non potrebbero essere più chiare, laddove si afferma che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al f di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) dal rimettente con riguardo all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini di Paesi terzi, ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato al requisito della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente ribadito che «non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», precisando che «un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria
e proporzionata». A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare ‘la sostenibilità delle finanze pubbliche’, purché ‘la durata del soggiorno legale sia proporzionata’».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita grazie all’introduzione della misura del “reddito di inclusione ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la ‘relativa stabilità della presenza sul territorio’; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che . «testimoni il ‘radicamento del richiedente nel paese in questione’».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che il proprio intervento “sostitutivo” ha avuto l’effetto di ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea» (…).
Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha senz’altro concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione, sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che eventualmente puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la
non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculiari connotazioni del tutto incompatibili con tale tipologia di intervento (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità, ecc.), e la conseguente compatibilità, con il sistema costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci a cinque anni) che dimostri un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato. Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (…).
Ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi dall’impostazione della Corte costituzionale, in relazione sia a quanto appena ricordato in ordine ai rapporti tra le Corti interne e gli organi di giustizia sovranazionale, sia al concreto inquadramento delle disposizioni in tema di r.d.c., avuto riguardo alle peculiari connotazioni della disciplina rispetto ai principi in tema di assistenza sociale, sia anche alla ritenuta piena compatibilità, con il sistema, di un requisito comprovante un apprezzabile radicamento del richiedente.
A ben vedere, del resto, la rilevata divergenza del percorso argomentativo tracciato dalle due Corti non attiene propriamente al merito della questione che qui rileva, dal momento che la CGUE ha ritenuto espressamente di non dover verificare, in alcun modo, l’esattezza dell’impostazione prospettata dal giudice del rinvio pregiudiziale: ciò consente di ritenere, tra l’altro, che la presente decisione non si ponga in effettivo contrasto con le opposte conclusioni raggiunte da Sez. 2, n. 13345 del 05/03/2025, Pena COGNOME Rv. 287933 – 01, dal momento che tale sentenza è stata pronunciata anteriormente all’intervento della Corte costituzionale.
In tale complessiva cornice ermeneutica e ricostruttiva, non può che riaffermarsi la piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione volta a sanzionare penalmente la non rispondenza al vero delle dichiarazioni rese, in sede di richiesta del beneficio, con riferimento alla previa residenza (pur nel limite di cinque anni, quanto alla durata).
Tutto ciò impone di ritenere tuttora penalmente rilevante la condotta contestata al …, nella sola parte concernente la dichiarazione di esser stata presente in Italia da più di dieci anni avendo, invece, risieduto da meno di cinque anni…”.
Non ricorrono ragioni per discostarsi dalle conclusioni cui è pervenuta la questa Corte nella decisione innanzi riportata, ricorrendo anche nel caso
diÌdesokun una permanenza in Italia, rispetto al momento di presentazione della domanda e di percezione del sussidio, inferiore a cinque anni.
Deve, conseguentemente, affermarsi la riconducibilità della condotta accertata a carico di NOME alla fattispecie incriminatrice contestata.
Venendo, quindi, alle censure proposte dalla difesa alla sentenza, il terzo motivo è manifestamente infondato.
Come ricordato anche dalla sentenza di primo grado, questa Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che «in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fin richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato dl. (Sez. 2, 23265 del 07/05/2024, COGNOME, Rv. 286413 – 01, la quale, in motivazione, ha ulteriormente precisato che non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto).
Tali coordinate interpretative sono state correttamente applicate dai giudici di merito che hanno, in particolare, sottolineano l’inequivoco tenore dell’attestazione avente a oggetto la residenza e il fatto che la domanda incriminata doveva essere stata redatta tramite l’ausilio di un centro di assistenza fiscale che non aveva alcun interesse a inoltrarla qualora l’imputata avesse dichiarato che non aveva il requisito dei dieci anni di residenza in Italia.
Non può, ancora, essere sottaciuto, come già sottolineato dal giudice di primo grado, che l’ipotesi alternativa prospettata dal difensore non trova nelle sentenze di merito e nel compendio probatorio alcun riscontro.
Giova allora ricordare che in sede di legittimità, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054).
Aspecifico risulta il primo motivo di impugnazione non confrontandosi la censura difensiva con la motivazione della sentenza impugnata che ha negato l’attenuante richiesta in considerazione dell’importo “tutt’altro che modesto”
percepito dall’imputata. Il ricorso postula un4 differente e più favorevole giudizio in ordine alla “modestia” del profitto conseguito dall’imputata ma non individua
profili di illogicità, tanto meno manifesta, nella motivazione che sorregge il diniego né spiega la ragione per la quale la ricostruzione dei giudici di merito integrerebbe
la violazione di legge.
6. Manifestamente infondato risulta il secondo motivo di impugnazione che non si confronta con l’entità della pena irrogata, determinata dai giudici di merito
muovendo dalla pena minima prevista dalla norma incriminatrice e applicando la riduzione massima prevista per le attenuanti generiche.
7. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata
al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi, per quanto sopra argomentato, profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità – al versamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 186
del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare, considerati i profili di inammissibilità rilevati, in euro tremila.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 11/7/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente