Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 24132 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 24132 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 08/05/2025
In nome del Popolo Italiano
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME COGNOME
Presidente –
Sent. n. 774/2025
NOME Vergine
UP Ð 08/05/2025
NOME COGNOME
Relatore –
R.G.N. 918/2025
NOME COGNOME
NOME COGNOME
ha pronunciato la seguente
sul ricorso proposto da COGNOME NOME COGNOME nato a Molfetta il 05/09/1973
avverso la sentenza del 15/10/2024 della Corte dÕappello di Milano
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito lÕavv. Asti anche in sost. avv. COGNOME che ha insistito nellÕaccoglimento del ricorso.
Con lÕimpugnata sentenza la Corte dÕappello di Milano ha confermato la sentenza il Tribunale di Milano con la quale lÕimputato era stato condannato perchŽ ritenuto responsabile del reato di cui allÕart. 4 comma 49 legge n. 350 del 2003 in relazione allÕart. 517 cod.pen., perchŽ nella qualitˆ di legale rappresentante della societˆ RAGIONE_SOCIALE, importava nel territorio nazionale n. 335 confezioni di lenti oftalmiche contenute in 17 colli, e 1670 lenti oftalmiche sfuse, beni di fabbricazione produzione estera, benchŽ sulle confezioni fosse invece apposto il simbolo grafico della bandiera italiana, modalitˆ idonea in generale nel
consumatore la fallace convinzione della realizzazione interamente italiana del prodotto. Accertato in Milano il 7 ottobre 2019.
Avverso la sentenza il difensore ha proposto ricorso per cassazione e ne ha chiesto lÕannullamento deducendo due motivi di ricorso, trattanti congiuntamente, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod.proc.pen.
2.1. Violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e e) cod. proc. pen., in relazione agli art. 4 comma 49 della legge n. 350 del 2003, art. 517 cod.pen. in combinato disposto con la direttiva UE 93/43 in tema di dispositivi medici e vizio di motivazione. In sintesi, lamenta il ricorrente lÕerronea applicazione della legge penale con riferimento allÕintegrazione della fattispecie di cui allÕart. 4 comma 49 della legge n. 350 del 2003 in luogo dellÕillecito amministrativo di cui al comma 49 bis del medesimo articolo. La Corte territoriale nel confermare la responsabilitˆ penale dell’imputato, avrebbe errato nellÕinterpretazione del disposto normativo di cui all’articolo 4 comma 49 richiamando la direttiva 43/97 CE e non la direttiva che regola l’importazione dei Dispositivi Medici 93/42 CE, recepita in Italia con decreto legislativo n. 46 del 1997, in quanto, contrariamente a quanto richiamato in sentenza, nel caso di specie le confezioni di lenti a contatto riportavano quale marchio la bandiera italiana, ma erano accompagnati dalla inequivoca dicitura prodotto in importato in maniera conforme a quanto previsto dalla citata direttiva 93/42 e come approvato dall’ente notificato il quale ha emesso nei confronti della Dai Optical valida certificazione del sistema di qualitˆ proprio con riguardo alle lenti a contatto, aspetto questo in toto pretermesso nella sentenza. Il giudice territoriale avrebbe omesso ogni riferimento in merito alla circostanza che non solo si si trattava di dispositivi medici, che devono sottostare alla direttiva citata, ma altres’ che nel caso di specie il rispetto di tutti i requisiti di cui era citata direttiva risulta certificato tramite la certificazione approvata dal sistema completo di garanzie e qualitˆ ad opera dell’organismo notificato ICMSPA. Ulteriore errore in cui sarebbero caduti i giudici territoriali sarebbe nell’identificazione del cosiddetto fabbricante che, nel caso di specie, è da identificarsi nella Day Optical, ma non è da intendersi letteralmente come soggetto che materialmente fabbrica il dispositivo medicale, ma come l’operatore economico si assume la responsabilitˆ del prodotto in conformitˆ alle normative vigenti europee e nazionali ovvero il soggetto che ha la responsabilitˆ giuridica dell’immissione sul mercato del prodotto indipendentemente dalla circostanza che la progettazione e la fabbricazione l’imballaggio e l’etichettatura siano materialmente eseguiti dallo stesso soggetto o da un terzo per suo conto, cos’ come confermato dalla stessa circolare del 27 luglio del 2007 dell’agenzia delle Dogane. La Corte territoriale avrebbe infine errato nel ritenere che non fosse configurabile l’illecito amministrativo di cui al comma 49
bis dell’articolo 4, trattandosi all’evidenza di una Òfallacia indicazione dell’uso del marchio da parte del titolare del licenziatario con modalitˆ tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto ovvero e senza essere accompagnati da attestazione resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio circa le informazioni che a sua cura verranno rese in fase di commercializzazione poi effettiva origine estera del prodottoÓ. Una corretta interpretazione dell’articolo 4 comma 49 in merito alla locuzione fallace indicazione di provenienza d’origine in combinato disposto con la citata direttiva avrebbero dovuto indurre la Corte a ritenere l’imputato esente da responsabilitˆ penale tanto più se si osserva come la motivazione sul punto sarebbe carente e lacunosa laddove non avrebbe opportunamente valutato che oltre alla bandiera italiana, parte del marchio dell’azienda all’epoca dei fatti, vi era accompagnata dalla dicitura prodotta importato. La Corte territoriale avrebbe travisato la prova posto che non avrebbe considerato come provato che il marchio dell’impresa recava da sempre il tricolore come propria componente, sicchŽ si sarebbe dovuto affermare il dovere di variare il marchio rispetto a quei prodotti di importazione e non di affermare di essere intervenuta l’inclusione del tricolore come elemento decettiva idonea ad integrare la fattispecie di reato.
In conclusione, una corretta interpretazione del disposto normativo di cui all’art. 4 comma 49, in combinato disposto con la direttiva citata, avrebbe dovuto indurre il Collegio a ritenere la condotta al più integrare l’illecito amministrativo di cui al comma 49 dell’articolo 4, atteso che, nel caso di specie, l’origine commerciale del prodotto è corretta essendo la RAGIONE_SOCIALE italiana che si assume la responsabilitˆ giuridica del dispositivo medico essendo il fabbricante ai sensi della direttiva stessa accompagnata tuttavia dall’indicazione che trattasi di lenti importate e quindi provenienti da un’area geografica estera.
Sotto alto profilo erronea sarebbe l’interpretazione dell’articolo 4 comma 49 della citata legge in combinato disposto con la direttiva 93/43 laddove in maniera contraddittoria la Corte avrebbe ritenuto indifferente che la merce debba essere venduta necessariamente tramite intermediari esercenti l’arte sanitaria di ottico e non venduti direttamente al consumatore in quanto il reato si integrerebbe sin dalla presentazione in dogana per l’immissione in consumo in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. Argomenta il ricorrente la motivazione lacunosa e contraddittoria laddove la Corte territoriale non avrebbe in alcun modo valutato come in sede di presentazione in dogana le lenti a contatto riportassero non solo la sulla confezione e la dicitura prodotto importato, ma altres’ fosse accompagnata da documentazione in dogana attestante in maniera chiara ed univoca il soggetto
terzo estero Unicom da cui la conclusione che nessun elemento di decettivo risultava sussistente, nŽ in dogana nè nel contesto della vendita al dettaglio atteso che per disposto normativo le lenti in questione debbono essere vendute necessariamente in conformitˆ con la direttiva per il tramite di intermediari qualificati. SicchŽ nella vendita delle lenti a contatto correttive di difetti visivi risultano totalmente irrilevanti le eventuali valutazioni del consumatore in ordine all’acquisto del tipo di lenti piuttosto che di un altro, dal momento che tale valutazioni ai sensi del decreto ministeriale 3 febbraio del 2003, rientra esclusivamente tra le prerogative dell’ottico che sulla base delle singole circostanze tecniche adotterˆ la tipologia delle lenti più adatte e corrispondenti all’interesse sanitario del paziente. In conclusione, la percezione ricavabile dalla presente confezione piuttosto che essere diretta veicolare l’acquisto di un consumatore è finalizzato ad impattare sul giudizio dell’ottico al quale tuttavia manca la qualifica di consumatore richiesta dall’articolo 4 comma 49 terzo periodo con evidente conseguenze in termini di insussistenza del reato contestato
I difensori hanno depositato motivo aggiunto con cui, richiamando la pronuncia n. n. 24335/2024, Sez. 3, del 12.4.2024, hanno argomentato che, nel caso di specie, la bandiera italiana presente sul packaging era apposta doverosamente in quanto organica e complementare al marchio aziendale, non mirando ad ingannare il consumatore; mentre la compresenza nelle confezioni di una indicazione di provenienza estera della merce (Òprodotto importatoÓ) soddisfaceva i criteri suindicati dalla sentenza citata, differenziando il caso di specie da quelli nei quali unÕindicazione dellÕorigine straniera del prodotto non è defilata, ma è assente. Alla stregua di queste considerazioni, oltre che dei motivi contenuti nel ricorso principale, hanno insistito nellÕaccoglimento del ricorso.
5. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito esposte.
Al tale fine è necessario richiamare brevemente la normativa applicabile, con particolare riferimento all’art. 4 comma 49 della legge n. 350 del 2003 (Finanziaria 2004), nella formulazione applicabile al caso in esame per effetto delle successive modifiche (D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9, dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 2 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 941, dalla L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, comma 4, – successivamente abrogato dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 8, – e, dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 5, con la decorrenza indicata nello stesso art. 16, comma 7).
Tale disposizione prevede che: “L’importazione e l’esportazione a fini di
commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci pu˜ essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci pu˜ essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “made in Italy”Ó.
A sua volta, l’art. 4 citato, comma 49 bis, (aggiunto dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 6, con la decorrenza indicata nello stesso art. 16, comma 7, e poi cos’ modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 43, comma 1 quater, nel testo integrato dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 134), prevede espressamente che “Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalitˆ tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000”.
Orbene, dal combinato disposto di tali commi non discende l’intervenuta depenalizzazione dell’uso ingannevole del marchio da parte delle aziende italiane.
A fine di far chiarezza tra le condotte che ora assumono rilievo penale, ai
sensi dellÕart. 4 comma 49 cit, distinguendo quelle integranti un mero illecito amministrativo, questa Corte è pervenuta a delineare i confini delle rispettive fattispecie e ne ha individuato i confini cos’ da far chiarezza sulle diverse condotte punibili e le sanzioni ad esse applicabili, spiegando allo stesso tempo i rapporti tra le varie fattispecie tratteggiate dal legislatore.
In tale ambito, ribadita la natura di norma generale dellÕart. 4, comma 49, che sanziona l’importazione, l’esportazione e la commercializzazione dei prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine, nonchŽ l’abuso dei marchi d’impresa al fine di indurre il consumatore a ritenere che la merce sia di origine italiana, è stato affermato che integra la condotta punibile quella realizzata: a) mediante la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine che integra la fattispecie di “falsa indicazione” dell’origine ed è punibile ai sensi dell’art. 517 c.p. (v., tra le tante: Sez. 3, n. 39093 del 24/04/2013 – dep. 23/09/2013, COGNOME, Rv. 257615); b) mediante l’utilizzo di un’etichetta del tipo “100% made in italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o “full made in Italy”, per contrassegnare prodotti non interamente disegnati, progettati, lavorati e confezionati nel nostro Paese, costituendo la stessa un’ipotesi aggravata di “falsa indicazione” dell’origine, punibile, ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 135 del 2009, art. 16, comma 4, e dell’art. 517 c.p., con le pene previste da quest’ultima disposizione, aumentate di un terzo, che rende questa previsione speciale rispetto alla precedente, di portata generale (v., ad esempio, sul punto: Sez. 3, n. 28220 del 05/04/2011, Fatmir, Rv. 250639); c) mediante “l’uso di segni, figure e quant’altro” che induca il consumatore a ritenere, anche in presenza dell’indicazione dell’origine o provenienza estera della merce, che il prodotto sia di origine italiana, trattandosi esemplificativamente dei casi in cui sul prodotto sono apposti segni e figure tali da oscurare, fisicamente e simbolicamente, l’etichetta relativa all’origine, rendendola di fatto poco visibile e non individuabile all’esito di un esame sommario del prodotto, realizzandosi in questo caso la fattispecie di “fallace indicazione”, punibile ai sensi dell’art. 517 c.p. (v., sul punto: Sez. 3, n. 19746 del 09/02/2010, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 247485); d) mediante l’uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore titolare o licenziatario, in modo “da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine”, a meno che i prodotti importati o esportati non siano accompagnati da indicazioni “evidenti” sull’esatta origine geografica o sulla loro provenienza estera ovvero il titolare del marchio o il suo licenziatario si impegnino ad apporre tali indicazioni nella fase di commercializzazione.
Si tratta, com’è evidente, in quest’ultimo caso, di un’ipotesi speciale di “fallace indicazione” dell’origine disciplinata nei suoi tratti generali dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, la quale è punita con una sanzione amministrativa,
piuttosto che con una penale, in ragione del minor grado di offensivitˆ della condotta rispetto al bene giuridico tutelato, costituito, secondo la giurisprudenza, dalla correttezza commerciale nei rapporti tra imprenditori e nei confronti dei consumatori, ovvero dallo stesso ordine economico (v., in termini: Sez. 3, n. 2648 del 09/11/2005, COGNOME, Rv. 232961). Lo stesso art. 4, comma 49 bis, configura la fattispecie di uso decettivo del marchio come sussidiaria, prevedendo un’apposita clausola di riserva volta a preservare la sua applicazione nei casi specifici da essa individuati.
Cos’ ricostruita la normativa applicabile, la condotta posta in essere dal ricorrente costituisce una ipotesi di fallace indicazione punibile L. n. 350 del 2003, ex art. 4, comma 49, come ritenuto dai giudici del merito.
Nel caso in esame, i giudici del merito, accertato che sulla confezione era riportato il logo della bandiera italiana su uno dei quattro lati della confezione, mentre la dicitura Òprodotto importatoÓ era su uno dei bordi laterali a caratteri piccoli e poco visibili, circostanze non contestate, ha ritenuto la rilevanza penale sussistendo un uso fallace del marchio in presenza di un elemento decettivo costituito dallÕimmagine della bandiera italiana, parte integrante del marchio aziendale, apposta in modo visibile, mentre la dicitura Òprodotto importatoÓ era apposta a caratteri piccoli e poco visibili su un lato della confezione.
L’elemento differenziale peculiare della diversa fattispecie di cui al comma 49 bis è costituito dalla mancanza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, mentre ricorre la fattispecie di cui allÕart. 49 comma 4 cit. nel caso, come quello in esame, nel quale l’uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore titolare o licenziatario, in modo da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, situazione ritenuta sussistente dallÕuso della bandiera italiana, visibile, e con indicazione della provenienza (ÒimportataÓ) in modo non visibile.
Non rilevano a fini dellÕesclusione della rilevanza penale del fatto, nŽ la conformitˆ dei prodotti medicali alle disposizioni normative di settore, nŽ rileva accertare chi sia il fabbricante ai sensi della normativa europea, nŽ la circostanza che la commercializzazione al pubblico dei beni debba avvenire tramite operatori di settore.
La disposizione di legge punisce allÕart. 49 comma 4 cit. Ð tra le varie condotte Ð lÕimportazione di beni e l’uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore titolare o licenziatario, in modo “da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine”.
Il caso in esame si presenta, infine, diverso da quello richiamato nella giurisprudenza riportata nel motivo aggiunto al ricorso principale, lˆ dove risultava accertato che le etichette apposte sulle confezioni dei prodotti indicano l’origine cinese degli stessi recando la dicitura Çmade in P.R.C.È con grafica di grandezza uguale a quella usata per indicare la societˆ italiana importatrice dei prodotti.
Nel caso in esame, diverso da quello oggetto di scrutinio nella citata sentenza, lÕindicazione del marchio a cui si accompagna la presenza della bandiera italiana, è idoneo, unitamente alla indicazione poco visibile che il prodotto era importato, a trarre in inganno il consumatore sull’effettiva origine, fattispecie, questa, rientrante, come detto, nella previsione della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49 bis (Sez. 4, n. 25030 del 26/04/2017, COGNOME, Rv. 270005 Ð 01).
La norma è posta a tutela della corretta informazione della origine e provenienza del prodotto e non ai fini della qualitˆ, regolata e sanzionata da altre disposizioni normative e regolamentari, che è tutelata sin dalla fase della presentazione in dogana per lÕimmissione in consumo o libera pratica e sino alla vendita al dettaglio.
Conclusivamente il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cos’ deciso il 08/05/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME