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Esercizio abusivo scommesse: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per esercizio abusivo scommesse a carico della titolare di un centro affiliato a un bookmaker estero. La decisione si fonda sul fatto che la gestrice agiva come intermediaria, utilizzando un proprio conto gioco per le puntate dei clienti, rendendo così irrilevante la questione sulla presunta discriminazione del bookmaker straniero da parte dello Stato italiano. L’onere di provare tale discriminazione, secondo la Corte, spetta alla difesa.

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Pubblicato il 2 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Esercizio abusivo di scommesse: la Cassazione chiarisce i limiti per i centri affiliati a bookmaker esteri

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20921 del 2025, si è pronunciata su un caso di esercizio abusivo scommesse, confermando la condanna della titolare di un centro affiliato a un noto bookmaker estero. La decisione offre importanti chiarimenti sul ruolo dell’intermediario e sulla ripartizione dell’onere della prova in materia di presunta discriminazione da parte della normativa italiana.

I fatti del caso e le decisioni di merito

La vicenda riguarda la titolare di una sala scommesse, condannata in primo grado e in appello per il reato previsto dall’art. 4 della Legge 401/1989. L’accusa era quella di aver esercitato abusivamente l’attività di raccolta scommesse, in quanto priva del necessario titolo autorizzativo di polizia. Il centro operava tramite un collegamento con un bookmaker con sede a Malta. La difesa dell’imputata aveva basato il ricorso su due motivi principali: la violazione della normativa, interpretata alla luce della giurisprudenza europea che in passato aveva ravvisato profili discriminatori nei bandi di gara italiani, e l’errore inevitabile sulla legge penale, data la complessità e le oscillazioni interpretative della materia.

La responsabilità nell’esercizio abusivo scommesse: il ruolo dell’intermediario

Il punto cruciale della sentenza della Cassazione non risiede tanto nella legittimità del bookmaker estero, quanto nel modo in cui l’attività veniva concretamente svolta nel centro italiano. È emerso che l’imputata non si limitava a mettere in contatto i clienti con l’operatore straniero, ma agiva da vera e propria intermediaria. In pratica, metteva a disposizione dei clienti il proprio conto gioco personale, facendo figurare se stessa come scommettitore ufficiale. Secondo la Corte, questa modalità operativa configura un’attività di raccolta scommesse illecita e autonoma, che rende irrilevante qualsiasi legame con la società estera. L’attività dell’imputata non era una mera trasmissione di dati, ma un’illegittima intermediazione che, di per sé, richiede un’autorizzazione mai ottenuta.

L’onere della prova in caso di presunta discriminazione

Un altro aspetto fondamentale affrontato dalla Corte riguarda la questione della presunta discriminazione operata dai bandi di gara italiani (il cosiddetto “Bando Monti”) ai danni degli operatori stranieri. La difesa sosteneva che la mancata partecipazione del bookmaker estero a tali bandi fosse dovuta a clausole anti-economiche, come la cessione gratuita dei beni a fine concessione, e che tale discriminazione avrebbe dovuto giustificare l’operatività senza licenza. La Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato: l’onere di provare la discriminazione spetta a chi la invoca, ovvero alla difesa. Non è sufficiente allegare una generica non conformità della normativa nazionale a quella europea; è necessario dimostrare con elementi concreti che l’operatore straniero è stato effettivamente e illegittimamente escluso dalla gara. Nel caso di specie, la difesa non ha fornito alcuna prova a sostegno di tale tesi, lasciando l’affermazione priva di fondamento.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza. In primo luogo, ha sottolineato che l’attività di intermediazione diretta, realizzata mettendo a disposizione il proprio conto gioco, integra di per sé il reato di esercizio abusivo scommesse, a prescindere dalla posizione del bookmaker estero. Questa condotta trasforma il legame con la società straniera in una mera occasione per l’esercizio illecito. In secondo luogo, riguardo all’errore sulla legge penale, la Corte ha ricordato che chi opera professionalmente in un settore ha un dovere di informazione particolarmente rigoroso. Le incertezze giurisprudenziali non costituiscono una scusante, ma dovrebbero, al contrario, indurre alla massima prudenza e, in caso di dubbio sulla liceità, all’astensione dall’attività.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce con forza che la responsabilità penale per l’esercizio abusivo di scommesse ricade direttamente sul gestore del centro italiano quando questi non si limita a un ruolo di mero tramite tecnologico, ma si interpone attivamente tra il cliente e il bookmaker. Inoltre, consolida l’orientamento secondo cui l’onere di dimostrare l’esistenza di una discriminazione che giustificherebbe la disapplicazione della norma interna è a carico della difesa, che deve fornire prove concrete e specifiche. Questa pronuncia rappresenta un monito per gli operatori del settore, chiarendo che la struttura del rapporto con i bookmaker esteri è decisiva per determinare la liceità della propria attività.

Chi è responsabile per l’esercizio abusivo di scommesse in un centro affiliato a un bookmaker estero?
La responsabilità ricade sul gestore del centro italiano se questi agisce come un intermediario, ad esempio utilizzando un proprio conto gioco per raccogliere le scommesse dei clienti. Tale condotta è considerata illecita a prescindere dalla regolarità della posizione del bookmaker estero.

A chi spetta l’onere di provare che la normativa italiana è discriminatoria verso gli operatori stranieri?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova spetta alla difesa. È l’imputato che deve dimostrare, con elementi concreti, che l’operatore straniero al quale è affiliato è stato illegittimamente escluso dai bandi di gara nazionali a causa di clausole discriminatorie.

L’incertezza sulla normativa può giustificare l’errore e quindi escludere il reato?
No. La Corte ha stabilito che gli operatori professionali hanno un dovere rafforzato di informarsi sulla legislazione vigente. Eventuali contrasti o complessità interpretative non scusano l’ignoranza della legge, ma anzi impongono un dovere di prudenza che dovrebbe portare ad astenersi dall’attività in caso di dubbio sulla sua liceità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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