Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 24955 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 24955 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CORIGLIANO CALABRO il 12/08/1969 avverso la sentenza del 10/05/2024 della CORTE DI CASSAZIONE di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile;
letta la memoria tempestivamente depositata dal difensore di COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 8 ottobre 2019, la Corte di appello di Catanzaro ha rigettato la richiesta, proposta nell’interesse di NOME COGNOME di correggere la data di inizio dell’esecuzione della pena determinata con il provvedimento di cumulo emesso il 14 luglio 2017 dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Catanzaro.
A ragione della decisione osserva che COGNOME aveva commesso un nuovo reato durante l’esecuzione della pena, esattamente il 24 marzo 2015, sicché correttamente era stato formato un nuovo cumulo, la cui decorrenza era stata fissata proprio alla data di consumazione della nuova violazione. Non era, invece, fondata la richiesta, proposta nell’interesse di NOME COGNOME, di correggere la data di inizio dell’esecuzione con quella del 16 luglio 2009.
Con sentenza, in data 11 novembre 2020, la prima sezione della Corte di cassazione ha annullato la predetta ordinanza, evidenziando che il provvedimento impugnato non si era confrontato con la questione relativa all’esatta individuazione della data di consumazione del nuovo reato, giudicato con la sentenza della Corte di appello di Catanzaro, irrevocabile il 21 febbraio 2017
Con ordinanza, in data 24 ottobre 2022, la Corte di appello di Catanzaro ha nuovamente rigettato la richiesta, rilevando che dall’accertamento contenuto nella sentenza della Corte di appello di Catanzaro in data 7 ottobre 2016, irrevocabile il 21 febbraio 2017, come esplicitato a pag. 76, si evince che COGNOME aveva commesso il reato di cui agli artt. 110, 610 cod. pen., 7, legge n. 203 del 1991, in Rossano dal 2006 al 23 marzo 2015, quindi anche durante l’esecuzione della pena.
Avverso l’ ordinanza da ultimo citata la difesa di COGNOME ha proposto nuovo ricorso per cassazione, denunciando che il Giudice dell’esecuzione era incorso in un travisamento laddove aveva ritenuto che la sentenza della Corte di appello di Catanzaro del 7 ottobre 2016 , nell’ identificare il soggetto che aveva imposto gli approvvigionamenti di caffè agli esercenti del rossanese, aveva fatto riferimento a NOME COGNOME e non al collaboratore di giustizia NOME COGNOME.
Con sentenza del 10 maggio 2024, la quinta sezione della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, osservando che l’ interpretazione della sentenza da parte del Giudice dell’esecuzione «lungi dal connotarsi come manifestamente illogica, ha valorizzato, in primo luogo, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME ritenendo che le stesse fossero riscontrate da una serie di elementi di natura logica, ovvero: l’identità sia del nome di battesimo dell’odierno ricorrente rispetto a quello del soggetto indicato come responsabile, indicato come «NOME», sia della relativa provenienza geografica, indicata in Corigliano, nonché la piena continuità tra
l’attività illecita contestata e il ruolo rivestito dall’imputato nel territorio di riferimento accertato dalla sentenza “Santa Tecla” (cfr. pag. 576 della sentenza impugnata). L’ordinanza, inoltre, ha dato atto che la sentenza esaminata si fosse fatta carico, in modo logicamente corretto, dell’obiezione difensiva secondo cui le dichiarazioni di Curato fossero incompatibili con i lunghi periodi di detenzione patiti dallo stesso, dal momento che, per la posizione ricoperta, egli poteva, comunque, avere partecipato all’imposizione del caffè e aver appreso dai consociati delle attività della cosca».
NOME COGNOME ricorre, ai sensi dell’art. 625-bis, cod. proc. pen, a mezzo del difensore di fiducia nonché procuratore speciale avv. NOME COGNOME
Secondo il ricorrente, la Corte di cassazione, nel ritenere infondata l’ impugnazione, è incappata in un errore materiale laddove ha indicato la data del 24 marzo 2015 quale decorrenza della reclusione per COGNOME. Infatti, quest ‘ultimo si trova ininterrottamente detenuto per i reati oggetto dell’ordine di carcerazione sin dal 16 luglio 2009 ad oggi, per di più in regime differenziato ex art. 41 bis Ord. pen. e non risulta avere mantenuto, nel corso della detenzione, legami con i consociati in modo da protrarre la condotta contestata fino al 23 marzo del 2015.
La Corte di cassazione, al pari della Corte di appello, è incorsa in un mero errore di lettura o meglio in una inesatta percezione delle risultanze processuali, assolutamente decisiva ai fini di una corretta pronuncia.
In contrasto con l’accertamento delle sentenze di merito, che avevano circoscritto l’attività criminale del ricorrente nel periodo che precede la sua carcerazione, avvenuta nel 2009, ha collocato cronologicamente sino al 23 marzo del 2015 la consumazione del reato, ritenuto rilevante ai fini del cumulo parziale, sulla scorta base delle dichiarazioni convergenti dei collaboratori COGNOME e COGNOME i quali, tuttavia, avendo iniziato la collaborazione nel 2007, prima dell’inizio della detenzione (continua ed in regime differenziato) di COGNOME nel 2009, non potevano avere informazioni su questo specifico aspetto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso straordinario non supera il vaglio di ammissibilità.
In premessa, occorre ricordare le indicazioni offerte sul rimedio previsto dall’art. 625- bis cod. proc. pen. dai consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
Presupposto applicativo dell’istituto è la verificazione nel giudizio di legittimità di un ‘errore di fatto’ o di un ‘errore materiale’ .
Per pacifica giurisprudenza di legittimità, l’errore materiale e l’errore di fatto consistono, rispettivamente, il primo, nella mancata rispondenza tra la volontà, correttamente formatasi, e la sua estrinsecazione grafica; il secondo in una svista o in un equivoco incidenti sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto viene percepito in modo difforme da quello effettivo.
Deve escludersi che nell’area dell’errore di fatto denunziabile con ricorso straordinario possano essere ricondotti gli errori percettivi non inerenti al processo formativo della volontà del giudice di legittimità, perché riferibili alla decisione del giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere – anche se risoltisi in travisamento del fatto – soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie ovvero con la revisione (Sez. Un, n. 16103 del 27/3/2002, Basile P., Rv. 221280; Sez. Un., n. 37505 del 14/7/2011, COGNOME, Rv. 250527; Sez. Un., n. 18651 del 26/3/2015, COGNOME, Rv.265248; nello stesso senso, fra le tante, Sez. 4, n. 17178 del 8/4/2015, COGNOME, Rv. 263443; Sez. 5, n. 7469 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259531; Sez. 4, n. 15137 del 8/3/2006, COGNOME, Rv. 233963).
Esula dall’errore di fatto ogni profilo valutativo, esso coincide con l’errore revocatorio, secondo l’accezione che vede in esso il travisamento degli atti nelle due forme della “invenzione” o della “omissione”, non estensibile al travisamento delle risultanze, in cui sia in tesi incorsa la stessa Corte di cassazione nella lettura degli atti del suo giudizio.
Il cosiddetto “travisamento del fatto”, e cioè il travisamento del significato anziché del significante, non può in nessun caso legittimare il ricorso straordinario ex art. 625 bis cod. proc. pen.., tantomeno quando sia dedotto come vizio della decisione del giudice di merito.
Neanche i criteri di interpretazione dei fatti, dibattuti nel giudizio di legittimità e oggetto di valutazione anche implicita, possono essere riproposti sotto forma di errori di fatto (Sez. 1, n. 17362 del 15/4/2009, COGNOME, Rv. 244067 e più di recente Sez. 3, n. 14509 del 31/01/2017, Romeo, Rv. 270394 secondo cui il vizio di travisamento della prova della sentenza di appello, che non sia stato dedotto in sede di legittimità, può costituire motivo di successivo ricorso straordinario per errore di fatto, ex art. 625-bis cod. proc. pen., non configurandosi nella decisione della Corte di cassazione alcuna errata rappresentazione percettiva degli atti).
Tanto premesso, appare evidente le censure dedotte dal ricorrente non denunciano un errore rientrante tra quelli denunciabili con l’istituto del ricorso straordinario, nei termini chiariti dalla ricordata giurisprudenza di questa Corte di legittimità.
COGNOME, come , d’altra parte , esplicitamente ammesso nella memoria difensiva, si è limitato a «ripetere le medesime censure» dedotte con il ricorso rigettato dalla quinta sezione di questa Corte, con la sentenza del 10 maggio 2024.
Tale decisione, nel valutare la tenuta logica dell’appa rato giustificativo posto da lla decisione del Giudice dell’esecuzione , ha escluso la sussistenza dei denunciati vizi motivazionali senza incappare in alcun errore percettivo o materiale.
Ha, infatti, considerato immune da criticità l’interpretazione della sentenza di condanna di COGNOME per il reato che aveva dato luogo al cumulo parziale sul presupposto, di carattere meramente valutativo, che la sua identificazione come uno degli autori dell’imposizione de gli approvvigionamenti di caffè agli esercenti del rossanese protrattisi fino al 24 marzo 2015, risultava fondata su una piattaforma probatoria solida, costituita dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME
Quanto all’argomento difensivo, riproposto con l’ odierno ricorso, secondo cui «il soggetto indicato nella sentenza con l’espressione ‘ lo stesso ‘ non potrebbe essere identificato con COGNOME, da tempo ristretto in regime di art. 41bis Ord. pen. e dunque impossibilitato a comunicare con l’esterno, costui dovrebbe essere identificato nello stesso collaboratore dichiarante, NOME COGNOME; con la conseguenza che sarebbe errata l’affermazione secondo cui COGNOME avrebbe contenuto a concorrere nella condotta di violenza privata contestata anche durante il periodo della sua detenzione, dovendo la consumazione ritenersi cessata a partire dal momento del suo arresto, avvenuto il 16 luglio 2009», la sentenza di cui si chiede l’emenda ha ineccepibilmente osservato che «sotto la veste apparente di un incidente di esecuzione volto a ridefinire la data di inizio dell’esecuzione della pena determinata con il provvedimento di cumulo del 14 luglio 2017, la difesa di COGNOME ha in realtà inteso sollecitare la modifica di una statuizione ormai coperta dal giudicato, finanche prospettando, di fatto, una errata lettura del materiale probatorio da parte del Giudice della cognizione, che, nella sostanza, avrebbe travisato il significato delle dichiarazioni rese da COGNOME, ritenendo erroneamente che esse riscontrassero quelle di COGNOME. Un’operazione, questa, che avrebbe dovuto essere realizzata, nel caso, attraverso lo strumento della revisione, sostanziando, di fatto, una ridefinizione dei confini del giudicato ovvero della statuizione di condanna pronunciata a partire dalla descrizione del fatto contenuta nell’imputazione. Né appare dirimente l’argomento, peraltro puramente fattuale, correlato alla sottoposizione di Barilari al regime differenziato, considerato che neppure è dato conoscere la data di inizio di applicazione di quest’ultimo e se, dunque, nel periodo in contestazione, egli vi fosse sottoposto; e ciò a prescindere dal fatto che l’eventuale soggezione a detto regime possa consentire comunque di eludere le relative limitazioni e di avere contatti con esponenti del gruppo criminale
di riferimento. Fermo restando che, come accennato, l’argomento in esame costituisce un tentativo di dimostrare l’illogicità del ragionamento probatorio della sentenza richiamata, ormai non più sindacabile in sede di incidente di esecuzione, atteso che un suo deficit motivazionale, in punto di contraddittorietà o illogicità del percorso giustificativo, avrebbe dovuto essere fatto rilevare attraverso gli o rdinari strumenti di impugnazione. »
Trattasi di argomentazioni ampiamente condivisibili da cui non è alcuna ragione per discostarsi.
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, in Roma 27 maggio 2025.