Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 4284 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 4284 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a COSENZA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 06/12/2022 del TRIB. SORVEGLIANZA di TRIESTE
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha dichiarato inammissibili, sul presupposto della sopravvenuta ineffettività del domicilio indicato, le istanze di affidamento in prova ai servizi sociali e di detenzione domiciliare, proposte da NOME COGNOME, condannato con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste del 17/01/2019, confermata dalla Corte di appello della medesima città con sentenza del 07/10/2020 e passata in giudicato il 21/01/2021.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME, a mezzo dell’AVV_NOTAIO, deducendo un motivo unico, che viene di seguito sintetizzato entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. e mediante il quale viene denunciata violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche. La difesa, in particolare, ha sostenuto che COGNOME avesse eletto domicilio presso lo studio professionale del difensore stesso.
Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso, non avendo la difesa allegato l’atto dal quale si dovrebbe desumere l’avvenuta elezione di domicilio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Si rileva, in primo luogo, la natura non autosufficiente della proposta impugnazione. Invero, questa Corte ha costantemente affermato che – anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdott dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 – debba trovare applicazione il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Risulta inammissibile, dunque, il ricorso per cassazione che deduca vizi di motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze. Tale interpretazione deve esser mantenuta ferma anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis, comma 2, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271,
inserito dall’art. 7, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, secondo il cui disposto, in caso di ricorso per cassazione, copia degli atti “specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) del codice”, è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso, prevedendosi che nel caso in cui tali atti siano mancanti ne sia fatta attestazione. Anche a legislazione vigente, infatti, il principio della cd. autosufficienza del ricorso per cassazione, i materia penale, impone al ricorrente di adempiere all’onere di specifica indicazione degli atti che si assumono travisati. Tale indicazione non può che tradursi, in concreto – proprio per l’impossibilità di demandare alla valutazione discrezionale dell’organo amministrativo la selezione degli atti di cui si assume il travisamento – nella richiesta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato di allegare, al ricorso da trasmettere alla Suprema Corte, la copia degli atti in questione, che la cancelleria provvederà a inserire in apposito fascicolo, ove non fossero stati già trasmessi, o di cui attesterà la mancanza, ove non risultino presenti nella documentazione processuale. Ovviamente, le indicate modalità non impediscono al ricorrente di procedere alla integrale allegazione o trascrizione, nel ricorso, di quegli atti dei quali egli lamenti la inadeguata valutazione, da parte del giudice di merito. Nella concreta fattispecie, non è allegato al ricorso l’atto dal quale dovrebbe desumersi – in ipotesi difensiva – la elezione di domicilio presso il difensore; ciò determina, come detto, la inammissibilità dell’impugnazione.
Il ricorso, comunque, non dialoga con il contenuto stesso dell’ordinanza, non contrastando il fatto che la ragione della decisione reiettiva risieda nella ineffettività del domicilio personale e reale, come indicato dalla parte, elemento che supera il dato formale della compiuta elezione di domicilio presso il difensore, che rispetta le prescrizioni dell’art. 677, comma 2-bis cod. proc. pen.
3.1. La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito come la inammissibilità della richiesta di misura alternativa, proveniente da condannato non detenuto, in caso di omessa dichiarazione o elezione di domicilio, a norma dell’art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen., non possa essere traslata alla diversa ipotesi della omessa comunicazione del mutamento del domicilio dichiarato o eletto (Sez. 1, n. 10739 del 27/01/2009, COGNOME, Rv. 242882; Sez. 1, n. 15137 del 03/03/2011, COGNOME, Rv. 249738; Sez. 1, n. 48337 del 13/11/2012, Sarr, Rv. 253977; Sez. 1, n. 26334 del 11/04/2023, NOME, Rv. 284890).
3.2. Del tutto differente, però, è la situazione ora sottoposta al vaglio di questa Corte. Nel caso di specie, infatti, il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha dichiarato inammissibili le istanze di affidamento in prova ai servizi sociali e di detenzione domiciliare, sul presupposto della non effettività del domicilio; una
situazione di materiale incertezza circa il domicilio del condannato, infatti, impedisce l’effettuazione dei necessari accertamenti istruttori, oltre a risultare chiaramente evocativa della mancanza di interesse del richiedente, nei confronti della procedura.
3.3. La decisione negativa sussunta nell’ordinanza impugnata, in ordine alla richiesta di misure alternative, si allinea del resto ad un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, a mente del quale la mancanza di una stabile e conosciuta residenza inibisce il necessario supporto ed il costante controllo, ad opera del servizio sociale e del magistrato di sorveglianza del luogo, competente ad adeguare le prescrizioni alle concrete esigenze trattamentali attinenti al condannato. Tale beneficio, infatti, postula un contatto diretto e continuo, fra la persona fisica dell’interessato ed il servizio sociale al quale – a norma dell’art. 47, nono comma, Ord. pen. – spetta il compito di controllare la condotta del soggetto, nonché di aiutarlo a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale. Risulta del tutto legittimo, pertanto, il rigetto della richiesta, laddove tale decisione si basata sulla irreperibilità della persona condannata, ossia su una mancanza di stabile residenza, atta a incidere negativamente sulla effettività della misura alternativa invocata (Sez. 1, n. 4023 del 14/10/1992, Rv. 192363; Sez. 1, n. 27347 del 17/05/2019, Lupu, Rv. 276198).
3.4. In tali casi, in definitiva, ciò che viene in rilievo non è il profilo d necessità di una reperibilità di tipo processuale, da soddisfare mediante l’onere previsto sotto comminatoria di inammissibilità – di dichiarare o eleggere domicilio al momento della presentazione della domanda, bensì il diverso tema della reperibilità di tipo sostanziale, dunque della effettività del domicilio. Sotto quest’ultimo aspetto, la non effettività del domicilio incide profondamente, in punto di possibilità di mantenimento dei contatti del condannato con il servizio sociale, oltre che di possibilità di espletamento dei necessari controlli, finalizzati alla verifica del rispetto delle prescrizioni e della prosecuzione del percorso di risocializzazione e reinserimento. Non risultando effettuata, nella presente procedura, l’indicazione di un nuovo, reale e verificabile domicilio del condannato, la decisione impugnata si appalesa giuridicamente ineccepibile.
Alla declaratoria di inammissibilità segue ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre che di una somma, che si stima equo fissare in euro tremila, in favore della Cassa delle ammende (non ricorrendo elementi per ritenere il ricorrente esente da colpe, nella determinazione della causa di inammissibilità, conformemente a quanto indicato da Corte cost., sentenza n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2023.