Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 26404 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 26404 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 24/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a POTENZA il 25/09/1961
avverso la sentenza del 06/12/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso;
udita per il ricorrente l’avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 6 dicembre 2024 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’impugnazione proposta da NOME COGNOME nei confronti della sentenza del 15 dicembre 2023 del Tribunale di Monza, con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, lo stesso COGNOME era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione in relazione a due contestazioni del reato di omessa presentazione delle dichiarazioni Iva e Irpef per gli anni 2014 e 2015 di cui all’art. 5 d.lgs. n. 7 del 2000.
Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, mediante l’Avvocato NOME COGNOME che lo ha affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo ha denunciato, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’errata applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, a causa della erroneità della affermazione della sussistenza del dolo specifico di evasione, necessario per la configurabilità del reato.
Si lamenta, in particolare, il carattere meramente formale della carica di amministratore attribuita al ricorrente, per essere la società stata, di fatto, amministrata dal precedente amministratore e socio di maggioranza, sottolineando che detta carica era stata assunta dal ricorrente nel 2015, cosicché egli non aveva ricavato alcun vantaggio economico in relazione all’annualità 2014, e che la tenuta della contabilità era stata affidata a un commercialista, lo RAGIONE_SOCIALE
Si aggiunge, richiamando gli orientamenti sul punto della giurisprudenza di legittimità, secondo cui nell’accertamento della sussistenza del dolo di evasione vanno considerati. anche i comportamenti successivi alla realizzazione della condotta punibile, che aveva assunto l’incarico di amministratore in carenza di informazioni sulla situazione della società, incaricando la bott. Losi di relazionarlo sull’effettiva situazione finanziaria e patrimoniale della società, e che, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla consulente, aveva presentato le dimissioni e depositato ricorso ex art. 2487 cod. civ., con la conseguenza che, anche sulla base di tali condotte, doveva essere esclusa la sussistenza del dolo specifico di evasione.
2.2. In secondo luogo, ha lamentato la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento delle prove, in quanto l’affermazione di responsabilità era stata fondata unicamente sugli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza sulla società RAGIONE_SOCIALE, nel corso dei quali non erano state conteggiate correttamente le uscite di cassa desumibili dai conti correnti bancari, dimostrate da fatture ed estratti di conto corrente, che, se correttamente considerate, avrebbero ridotto l’imponibile in modo da ricondurre l’imposta evasa al di sotto della soglia di punibilità.
2.3. Con un terzo motivo ha denunciato una ulteriore violazione di legge penale, a causa della determinazione della pena secondo la disciplina attualmente vigente, introdotta con il d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, in luogo di quella in vigor al momento della consumazione del reato, ossia il 29 dicembre 2015 e il 29 dicembre 2016, che prevedeva un minimo edittale di un anno e sei mesi di reclusione e una pena nnassina di quattro anni di reclusione.
Il Tribunale di Monza, nel determinare la pena base in due anni e sei mesi di reclusione, con la sottolineatura che tale pena si discosta lievemente dal minimo edittale, aveva considerato il nuovo minimo edittale di due anni di reclusione, certamente eccessivo, come anche l’aumento di pena per la continuazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo, relativo alla insussistenza del dolo specifico di evasione, è manifestamente infondato.
Va, in premessa, rammentato che, in tema di omessa dichiarazione, la prova del dolo specifico di evasione può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del contribuente obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta, che può, peraltro, costituire oggetto di rappresentazione e volizione anche solo nella forma del dolo eventuale (Sez. 3, n. 38802 del 25/09/2024, Nuzzolese, Rv. 286950 01; Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022 – 01). Detta consapevolezza può essere desunta da elementi ulteriori al superamento della soglia di punibilità, quali il mancato pagamento postumo di tale imposta in tempi ragionevoli o la reiterazione dell’omissione per più anni, dai quali possa essere tratta la convinzione che l’omissione sia finalizzata all’evasione (Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, Marra, Rv. 285221 – 01; v. anche Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Porzio, Rv .. 265087 – 01).
Ora, nel caso in esame la Corte d’appello, nel disattendere l’analoga censura sollevata con l’atto d’appello, sostanzialmente replicata senza apprezzabili elementi di novità critica con il ricorso per cassazione, ha, anzitutto, evidenziato che il ricorrente non poteva essere considerato privo di poteri di amministrazione, non essendovi elementi dimostrativi di tale circostanza, allegata anche con il ricorso per cassazione ma in modo assertivo, disgiunto dalla illustrazione degli elementi di fatto da cui ricavare l’assenza di reali poteri di gestione (diffusamente indicati, per contro, nella sentenza impugnata, nella quale sono state sottolineate le informazioni rese dal ricorrente al curatore fallimentare e l’estraneità alla
gestione del precedente amministratore successivamente alla assunzione della carica da parte del ricorrente).
L’assenza di vantaggi diretti per il ricorrente dalla evasione d’imposta, sottolineata nel ricorso, è priva di rilievo ai fini della sussistenza del dolo evasione, essendo la condotta di omessa presentazione della dichiarazione d’imposta strumentale a consentire l’evasione alla società di capitali amministrata dall’imputato (tra l’altro per quasi due anni, da settembre 2015 a giugno 2017, fino alla dichiarazione di fallimento della società) e non a quest’ultimo.
Altrettanto irrilevante, nella medesima prospettiva, è l’affidamento a un professionista della tenuta della contabilità e dell’incarico di provvedere agli adempimenti fiscali, che non esonera da responsabilità il soggetto obbligato, in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e indelegabile il relativo dovere (Sez. 3, n. 9417 del 14/01/2020, Quattri, Rv. 278421 – 01; Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, COGNOME, Rv. 265087 01; Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 246208 – 01, che, in motivazione, ha precisato che una diversa interpretazione, che trasferisca il contenuto dell’obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l’obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato).
La Corte d’appello, nell’illustrare gli elementi dimostrativi del dolo specifico di evasione, ha, poi, esaminato anche la condotta successiva alle omissioni, sottolineando l’omesso versamento delle imposte dovute, anche successivamente alla scadenza del relativo termine o in misura parziale, e ha rimarcato la piena consapevolezza del ricorrente degli obblighi conseguenti alla assunzione della carica, alla luce dei numerosi documenti contabili dimostrativi della produzione di redditi da parte della società e della conseguente sussistenza del corrispondente obbligo dichiarativo, non adempiuto dal ricorrente nella piena consapevolezza della sua sussistenza, per due annualità consecutive, traendone, in modo logico, la prova della finalità evasiva sottostante la condotta omissiva realizzata dal ricorrente.
Ne consegue la manifesta infondatezza dei rilievi sollevati sul punto della sussistenza del dolo di evasione, privi di autentico confronto critico con le risultanze istruttorie e con la motivazione della sentenza impugnata e volti a conseguire una non consentita rilettura e rivisitazione delle risultanze istruttorie (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, COGNOME, Rv. 262575; Sez. 3, n. 12226 del 22/01/2015, G.F.S., non massimata; Sez. 3, n. 40350, del 05/06/2014, C.C. in proc. M.M., non massimata; Sez. 3, n. 13976 del 12/02/2014, P.G., non massimata; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 2, n. 7380 del 11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).
Il secondo motivo, relativo alla determinazione dell’imposta evasa e al superamento della soglia di punibilità, è inammissibile a causa della sua genericità, in quanto con esso si lamenta la mancata considerazione di costi che sarebbero stati sostenuti dalla società amministrata dalla ricorrente negli anni in relazione ai quali è stata omessa la presentazione della prescritta dichiarazione d’imposta ai fini Iva e Irpef, senza considerare, tantomeno in modo critico, il complesso delle risultanze istruttorie e quanto esposto sul punto nelle due concordi sentenze di merito, e senza neppure indicare quali sarebbero stati i costi sostenuti da detta società non considerati nella ricostruzione contabile compiuta in sede di accertamento tributario, che non è fondata su presunzioni tributarie come erroneamente affermato nel ricorso.
La Corte d’appello, nel disattendere l’analogo motivo di impugnazione, sostanzialmente replicato senza significativi elementi di novità critica con il ricorso per cassazione, ha, infatti, sottolineato che l’ammontare del reddito d’impresa della società amministrata dal ricorrente negli anni 2014 e 2015 è stato determinato sulla base delle fatture acquisite nel corso della verifica fiscale presso la società e dalle comunicazioni di operazioni attive e passive provenienti da clienti e fornitori della società, ribadendo, in accordo con il primo giudice, l’inattendibilit dei movimenti desumibili dai conti correnti della società, a causa dell’assenza del libro giornale e di documenti giustificativi idonei a ricondurre le uscite a operazioni passive inerenti all’attività di impresa, ribadendo la correttezza della determinazione del reddito d’impresa non dichiarato e il conseguente superamento della soglia di rilevanza penale.
A fronte di tale ricostruzione il ricorrente si è limitato a lamentare genericamente la mancata considerazione di costi, non indicati, neppure quanto alla loro natura e origine, con la conseguente inidoneità, a causa della sua genericità, della censura a costituire idoneo mezzo di critica argomentata a tale punto della decisione impugnata, che ne comporta l’inammissibilità.
Il terzo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio, è infondato, in quanto, come già esattamente osservato dalla Corte d’appello nel disattendere l’identico motivo di gravame, non vi è alcun elemento per ritenere che il primo giudice abbia determinato il trattamento sanzionatorio considerando la nuova, più sfavorevole, cornice edittale, posto che il solo riferimento al lieve scostamento dal minimo edittale, per illustrare la determinazione della pena base in due anni e sei di mesi di reclusione a fronte di un minimo edittale di un anno e sei mesi ratione temporis applicabile, non consente di ritenere che sia stata considerata la nuova cornice edittale, come sostenuto dal ricorrente, posto che lo scostamento dal minimo non è marcato e non può, dal solo utilizzo dell’aggettivo “lieve”, ritenersi che sia stato
considerato quello più severo introdotto successivamente alla commissione del reato.
Il trattamento sanzionatorio è, poi, stato adeguatamente giustificato, sottolineando la ripetizione delle omissioni a fine di evasione e la mancanza di
qualsiasi condotta riparatoria, e anche su tale aspetto il ricorso si pone in termini meramente contestativi, con la conseguente inammissibilità di tale profilo di
censura.
5. Il ricorso deve, dunque, essere rigettato, a cagione della inammissibilità del primo e del secondo motivo e della infondatezza del terzo.
Al rigetto del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 24/6/2025