Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 682 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 682 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 23/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Montorio al Vomano (TE) il 30/01/1967 avverso la sentenza del 27/02/2023 della Corte d’appello di L’Aquila visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore
NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Teramo con la quale l’imputato era stato condannato, alla pena sospesa di mesi sette di arresto e di 4.000,00 euro di ammenda, in relazione ai reati di cui agli artt. 256, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e 44 lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, riuniti sotto il vincolo della continuazion perché, in assenza del necessario permesso di costruire, realizzava e gestiva una discarica non autorizzata e senza il necessario permesso a costruire, depositando, con condotte ripetute nel tempo, circa 10.000 tonnellate di rifiuti provenienti dall’attività di trattamento di rifiuti da demolizione e costruzione, su un’area circa 2000 mq. di proprietà della società RAGIONE_SOCIALE trasformando detta area in ricettacolo di rifiuti con carattere di stabilità e definitività, oggetto di confi sensi dell’art. 256, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo i seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa censura l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 183, comma 1, lett. bb ), 184 bis, 184 ter e 208 del d.lgs. 152/2006, quali norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.
Secondo la difesa, la Corte d’appello di L’Aquila avrebbe erroneamente applicato le norme che disciplinano il recupero dei rifiuti, confondendo le nozioni di «sottoprodotto», di cui all’art. 184 bis d. Igs. 152/2006, con quella di «materia prima secondaria» di cui all’art. 181 bis ormai abrogato, poi evolutasi nel concetto di «End of Waste» di cui all’art. 184 ter del medesimo decreto. Quest’ultima nozione è stata introdotta per la prima volta dalla Direttiva europea n. 98 del 2008, recepita nel nostro ordinamento tramite D.Igs. n. 205 del 2010, con cui si è abrogato l’art. 181 bis del D.Igs. n. 152 del 2006, rubricato «materie, sostanze e prodotti secondari», introducendo al contempo il nuovo art. 184 ter, rubricato «cessazione della qualifica di rifiuto» con una traduzione quasi letterale dell’espressione «End of Waste».
Se il sottoprodotto costituisce un materiale che mai è divenuto rifiuto in quanto direttamente reimpiegato in altro ciclo produttivo, il concetto di «materia prima secondaria», oggi ricondotto alla nozione di «End of Waste», ricomprende tutti quei materiali derivanti da operazioni di riciclo o di recupero in quanto non direttamente reimpiegabili in ulteriori cicli produttivi: tutti quei materiali cessano, dunque, di costituire un rifiuto.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, con l’espressione «End of Waste» non si allude al processo di produzione, bensì al prodotto derivante da un’operazione di riciclo o di recupero operato all’interno di un impianto autorizzato a trattare i rifiuti ai sensi dell’art. 208 d.lgs. 152/2006. Di autorizzazione era in possesso la RAGIONE_SOCIALE, pertanto la lavorazione del rifiuto operata in conformità al titolo autorizzativo comporta la qualifica del materiale trattato come «End of Waste».
Ad avviso della difesa, non si potrebbe dubitare della qualifica dei materiali depositati in termini di «End of Waste», dovendo essere considerati tali per il solo fatto di essere stati trattati in conformità al titolo autorizzativo di cui disponev RAGIONE_SOCIALE, essendo del tutto irrilevante che tali materiali venisser immediatamente riutilizzati o meno. Sul punto, la difesa evidenzia come la stessa Corte d’appello richiami i documenti comprovanti la vendita di tali prodotti da parte della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE alla IRAGIONE_SOCIALE Del resto, né l’art. 184 ter d.lgs. 152/2006 né l’autorizzazione rilasciata stabiliscono un termine entro il quale il prodott qualificato come «End of Waste» debba essere riutilizzato.
In definitiva, secondo la difesa, il materiale prodotto dalla RAGIONE_SOCIALE all’esito del trattamento effettuato sui rifiuti, poi alienato alla RAGIONE_SOCIALE e quindi depositato nell’attesa di un suo futuro riutilizzo, integrerebbe a tutti gli effet nozione di «End of Waste», cioè di materiale che ha perso la qualifica di rifiuto. Pertanto, risulterebbe errata la qualificazione di detto deposito come discarica abusiva ai sensi dell’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006.
Per tali motivi si richiede l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, anche con riguardo alla disposta confisca, non risultando integrati i reati di cui ai capi d’imputazione.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura l’erronea applicazione dell’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006 in relazione agli artt. 183, comma 1, lett. bb ), 256, comma 1, lett. a), e comma 2 d.lgs. 152/2006.
Ad avviso del ricorrente, anche laddove si intenda accedere alla prospettiva adottata dalla Corte d’appello, per la quale il materiale trattato dalla RAGIONE_SOCIALE, dopo essere diventato «End of Waste», per effetto del perdurante inutilizzo, avrebbe riacquistato la qualifica di rifiuto, comunque non si potrebbe ritenere che sia stata realizzata una discarica abusiva. Invero, il materiale così depositato andrebbe ad integrare, dapprima, un’ipotesi di deposito temporaneo, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. bb ), d.lgs. 152/2006, la quale potrà successivamente evolversi in un’ipotesi di deposito incontrollato, sanzionato ai sensi dell’art. 256 comma 2, d.lgs. 152/2006, e non già in un’ipotesi di discarica abusiva, sanzionata dal successivo comma 3.
Per tali motivi si chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata affinché venga rideterminata la pena per il reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006 in relazione all’ipotesi di cui al primo comma, lett. a). Si chiede, inoltre l’annullamento senza rinvio relativamente alla condanna per il reato di cui al capo b) e alla disposta confisca ex art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006.
2.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di omessa e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in ordine agli elementi costitutivi del reato di discarica abusiva.
Quanto al vizio di contraddittorietà della motivazione, ritiene la difesa che, muovendo dall’assunto fatto proprio dalla Corte d’appello, secondo cui, con la scadenza del permesso di costruire, verrebbe meno la possibilità di riutilizzo dei materiali depositati, si dovrebbe ritenere che il materiale, al momento del deposito, godeva della qualifica di «End of Waste»; qualifica che perdeva successivamente al momento della scadenza del permesso di costruire.
Accedendo a tale ricostruzione, evidenza la difesa, la discarica si sarebbe formata non per effetto di condotte di deposito di rifiuti ripetute nel tempo, bensì
per effetto di una trasformazione “giuridica” di una entità fisica che già insisteva sull’area, senza alcun mutamento in consistenza e caratteristiche. Il materiale depositato si trasformerebbe in rifiuto in un’unica soluzione, venendo a trovarsi in una situazione di deposito temporaneo, suscettibile di trasformarsi, al più, in una situazione di deposito incontrollato, non di discarica.
Ritiene, dunque, la difesa che, così argomentando, difetterebbe nel caso di specie l’integrazione di uno degli elementi costitutivi del reato, ossia la ripetizio nel tempo della condotta di accumulo di rifiuti.
D’altra parte, risulterebbe del tutto pretermessa la motivazione in ordine ad altro elemento costitutivo del reato, quello del degrado dell’area. L’unico passaggio della motivazione relativo alle condizioni dell’area risulta, a ben vedere, dedicato all’altro capo d’imputazione di cui all’art. 44 lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 38 laddove si parla di «una sensibile modifica del territorio sotto il profilo urbanisti che richiedeva il preventivo rilascio del permesso di costruire».
Difettando la motivazione circa i requisiti della condotta ripetuta nel tempo e del degrado dell’area, la difesa ritiene che possa dirsi integrato al più il reato abbandono di rifiuti, ai sensi dell’art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006.
Per tali motivi si chiede, in via principale, l’annullamento con rinvio dell sentenza impugnata affinché venga rideterminata la pena per il reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 152/2006 in relazione all’ipotesi di cui al primo comma, lett. a). Si chiede, inoltre, l’annullamento senza rinvio relativamente alla condanna per il reato di cui al capo b) e alla disposta confisca ex art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006. In via subordinata, l’annullamento della sentenza con rinvio affinché venga adempiuto l’obbligo di motivazione in ordine ai requisiti della condotta ripetuta nel tempo e del degrado dell’area.
2.4. Con il quarto motivo si deduce l’erronea applicazione degli artt. 15 e 81 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi d’imputazione, ai sensi dell’art. 6 comma 1, lett. b) cod. proc. pen.
Ad avviso del ricorrente, il rapporto tra le due fattispecie di reato oggetto d contestazione dovrebbe essere risolto, non già alla stregua del concorso formale di reati disciplinato dall’art. 81 cod. pen., bensì ai sensi dell’art. 15 cod. pen.
Invero, la clausola di riserva contenuta in apertura dell’art. 44, lett. b), d.P. 6 giugno 2001, n. 380, «salvo che il fatto costituisca più grave reato», rinvierebbe ad altro reato più grave posto a tutela di un bene giuridico omogeneo.
Nel caso di specie, il reato di cui all’art. 256, comma 3, del Codice dell’ambiente sarebbe senz’altro più grave del reato previsto dall’art. 44, lett. b) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, avuto riguardo alla pena edittale detentiva minima, pari a sei mesi di arresto, nel primo caso, e a cinque giorni, nel secondo, in applicazione dell’art. 25 cod. pen.
Inoltre, il reato di discarica abusiva risulterebbe posto a tutela di un bene giuridico omogeneo, qual è il bene “ambiente” rispetto al bene “territorio”. Ciò lo si desume sia su un piano generale, atteso che si tratta di beni costituzionalmente protetti dalla stessa norma, l’art. 9 Cost.; sia in materia di autorizzazio all’esercizio di una discarica, atteso che l’autorizzazione necessaria ai fini dell realizzazione di una discarica lecita non sarebbe altro che l’Autorizzazione Unica Ambientale (AUA), disciplinata dall’art. 208 del Codice dell’ambiente.
D’altra parte, prosegue la difesa, occorre considerare che l’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006 incentra il proprio disvalore sull’assenza di autorizzazione. Pertanto, laddove non si ritenga applicabile l’art. 15 cod. pen., verrebbe sanzionato due volte lo stesso fatto, ossia l’assenza del provvedimento autorizzativo.
Per tali motivi si chiede l’annullamento della sentenza impugnata, escludendo il concorso tra i reati in contestazione, ritenuto sussistente il solo reato di cu capo a).
2.5. Con il quinto motivo di ricorso si censura l’erronea applicazione degli artt. 44, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, 157 e 158 cod. pen. in relazione alla natura del reato contestato e alla conseguente individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione.
La Corte d’appello, nel motivare in ordine al tema della prescrizione, avrebbe erroneamente richiamato i criteri elaborati dalla giurisprudenza con riferimento al reato di discarica abusiva, ritenendoli applicabili anche al diverso reato di cui a capo b). Ad avviso del ricorrente, la consumazione del reato di cui al capo b) – e conseguentemente il dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione andrebbe collocata al momento della cessazione dell’attività edificatoria abusiva, alla luce della giurisprudenza di legittimità in materia di reati urbanistici (Sez. U n. 17178 del 27/02/2002, COGNOME, Rv. 221399; Sez. 3, n. 14501 del 7/12/2016, COGNOME, Rv. 269325; Sez. 3, n. 13607 del 8/02/2019, Martina, Rv, 275900).
Nel caso di specie, atteso che i depositi sono stati effettuati, secondo la ricostruzione operata dal giudice d’appello, in un arco temporale ricompreso tra il 24.10.2012 ed il 7.11.2012, l’attività edificatoria dovrebbe ritenersi terminata i data 7.11.2012 con conseguente decorso del termine prescrizionale a partire da tale data.
Al medesimo risultato di intervenuta prescrizione del reato si giungerebbe anche rintracciando il dies a quo nella scadenza del termine di validità del permesso di costruire.
Si evidenzia, infine, che il dies a quo per il reato di cui al capo b) non potrebbe comunque essere fissato alla data del disposto sequestro in ragione della ritenuta continuazione fra i reati in contestazione, giacché la disposizione di cui all’art. 158
comma 1, cod. pen. è stata introdotta con legge n. 3 del 2019, a decorrere dal 10 gennaio 2020.
2.6. Con l’ultimo motivo di ricorso, si deduce l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 256, comma 3, terzo periodo, d.lgs. n. 152 del 2006, rispetto alla disposta confisca dell’area ritenuta discarica abusiva, in relazione agli artt. 23 e 25 -undecies del d.lgs. n. 231 del 2001.
Secondo la difesa, la norma invocata per legittimare la confisca, ossia l’art. 256, comma 3, terzo periodo, d.lgs. n. 152 del 2006, non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie, atteso che fattore condizionante la confisca obbligatoria è costituito, per espressa previsione di legge, dal fatto che l’area su cui è stata realizzata la discarica abusiva risulti di proprietà dell’autore del reat del compartecipe. Orbene, nei giudizi di merito risulta accertato che l’area in questione non appartiene all’imputato, bensì alla società RAGIONE_SOCIALE di cu l’imputato era legale rappresentante all’epoca dei fatti.
A parere della difesa, non potrebbero neppure trovare applicazione quelle pronunce di legittimità che risolvono positivamente la questione relativa alla possibilità di disporre la confisca nei confronti della società di cui l’imputato è lega rappresentante, muovendo dalla distinzione tra responsabilità penale che ricade necessariamente sulla persona fisica e conseguenze patrimoniali che invece ben possono ricadere sulla persona giuridica in nome e per conto della quale ha agito l’organo rappresentativo (Sez. 3, n. 21120 del 27/02/2007; Sez. 3, n. 44426 del 7/10/2004 e Sez. 3 n. 21640 del 26/04/2001).
Ciò in quanto, con il d.lgs. n. 121 del 2011, il reato di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, è entrato a far parte del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, ai sensi dell’art. 25 undecies, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001. Pertanto, la società sarebbe chiamata a rispondere e a subire sanzioni autonome sul proprio patrimonio per effetto delle condotte illecite poste in essere nel suo interesse dal legale rappresentante.
La responsabilità dell’ente sarebbe del tutto autonoma rispetto a quella dell’imputato (art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001): il patrimonio della società, di cui parte integrante il terreno oggetto di confisca, sarebbe dunque posto a garanzia del pagamento delle sole sanzioni inflitte all’ente per la ritenuta responsabilità amministrativa di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.
In ragione di tali considerazioni, la difesa ritiene che l’applicazione dell confisca di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006 nei confronti della società nel cui interesse l’imputato ha agito, violerebbe il principio di legali essendo attualmente prevista un’autonoma responsabilità dell’ente con un autonomo apparato sanzionatorio per il reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva, inserito con d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, tra i reati presupposto
della responsabilità amministrativa dell’ente all’art. 25 undecies, comma 2, lett. b). In altri termini e in sintesi, a seguito della novella del 2011, la società potreb patire conseguenze pregiudizievoli soltanto per effetto dell’autonoma responsabilità amministrativa dell’ente e non per effetto della responsabilità penale dell’organo rappresentativo, come sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità antecedente alla riforma del 2011.
I difensori hanno depositato motivi nuovi con cui insistono nell’accoglimento del ricorso. In particolare, qualora la Corte di cassazione dovesse accogliere il motivo dedotto in via di subordine, di qualificazione dei fatti quale reato di deposito e/ abbandono incontrollato di rifiuti di cui all’art. 256 comma 2 TUAmbiente, ed eccepiscono la prescrizione del reato al 07/11/2016, avente natura istantanea, secondo la ricostruzione dei giudizi di merito che hanno ritenuto che i cumuli oggetto di contestazione si fossero formati nel 2012 e non fossero stati oggetto di alcun tipo di attività di gestione, neppure elementare, del ritenuto rifiuto, essendo i materiali stati ritrovati là dove erano stati scaricati, senza che sugli stessi fo stata compiuta alcuna attività.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile sulla base delle seguenti ragioni.
I primi due motivi di ricorso, che per evidente connessione logica possono essere trattati congiuntamente, sono manifestamenti infondati.
La prima questione che pone il ricorrente, che verte sulla qualificazione di rifiuto, che il ricorrente contesta deducendo la violazione di legge in relazione all’art. 184 ter del D.Igs n. 152 del 2006, risulta manifestamente infondato.
L’invocata applicazione della disciplina del c.d. RAGIONE_SOCIALE non è pertinente al caso concreto.
Va evidenziato che l’art. 184 ter del Dlgs 152/06, intitolato “cessazione della qualifica di rifiuto”, stabilisce le condizioni per potere escludere la qualific rifiuto.
È necessario che esso sia sottoposto ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i seguenti criteri spe da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
la sostanza o l’oggetto sia comunemente utilizzato per scopi specifici;
sussista un mercato e una domanda del materiale recuperato;
la sostanza o l’oggetto soddisfi i requisiti tecnici per gli scopi specifici rispetti la normativa e gli standards esistenti applicabili ai prodotti;
l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non comporti impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
Le caratteristiche anzidette devono indefettibilmente ricorrere tutte insieme. In tal senso si è espressa la giurisprudenza della Corte, (Sez. 3, n. 36692
del 03/07/2019, COGNOME, n.m.), secondo cui occorre che il rifiuto sia sottoposto ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo e soddisfi i predetti criteri specifici, da adottare nel rispetto delle condizioni di esposte.
Il comma 2 dell’art. 184-ter TUA stabilisce che «i criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territori e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Segnatamente, qui rileva il Decreto del Ministro della Transizione ecologica del 27 settembre 2022 n. 152, (in G.U. n. 246 del 20 ottobre 2022) “Regolamento che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto dei rifiuti inerti da costruzi demolizione e di altri rifiuti inerti di origine minerale, ai sensi dell’articolo 184 comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.
In disparte le novità rispetto alla precedente disciplina, rispetto la quale è stata modificata la terminologia, non esistendo più le “materie prime secondarie”, ma solo prodotti che cessano di essere rifiuti (c.d. “end of waste”) e nella sufficienza della sola esistenza di un mercato e di una domanda per il prodotto, non essendo più ritenuto necessario anche il valore economico del prodotto e nel fatto che l’operazione di recupero può consistere anche solo nel controllo dei rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni, va rilevato che non è venuta meno la necessità che il rifiuto sia sottoposto ad operazione di recupero, perché possa essere definitivamente sottratto alla disciplina in materia di gestione dei rifiuti.
Dunque, la cessazione della qualifica di rifiuto deriva da una pregressa e necessaria attività di recupero.
L’attività di recupero, come definita dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. t) costituisce una fase della gestione del rifiuto, che deve in ogni caso essere posta in essere da soggetto a ciò autorizzato. La necessità che risulti dimostrata l’intervenuta effettuazione di attività di recupero (condotta nel rispetto di quanto previsto dai D.M. 5 febbraio 1998, D.M. 12 giugno 2002, n. 16 e D.M. 17 novembre 2005, n. 269) da parte di un soggetto autorizzato a compiere le relative operazioni, è stata più volte ribadita da questa Corte di legittimità (Sez 3, n.25206 del 16/05/2012, Violato, Rv. 252981 – 01; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012, Celano, Rv. 252617 – 01).
Dunque, secondo le disposizioni normative succedutisi nel tempo, un elemento costante che percorre trasversalmente tutte le modifiche legislative intervenute, richiedendosi imprescindibilmente la sottoposizione del rifiuto ad un’operazione di recupero perché possa assumere la qualifica di cessato rifiuto.
Oltre alle condizioni richieste dall’art. 184-ter d. Igs 156/2006 e segnatamente che la sostanza o l’oggetto sia comunemente usato per scopi specifici, che soddisfi i requisiti tecnici per gli scopi specifici, che sussist mercato e una domanda del materiale recuperato e non comporti impatti complessivamente negativi sull’ambiente e sulla salute umana, è necessario che il rifiuto sia sottoposto ad un’operazione di trasformazione, il cui principale risultato secondo la definizione generale fornita dall’art. 183 e più dettagliatamente articolata con riferimento ai singoli materiali nell’allegato C dello stesso T.U., s di permettere al rifiuto di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali c sarebbero altrimenti utilizzati per assolvere ad una particolare funzione all’interno dell’impianto o nell’economia in generale. Operazione questa che, si ribadisce, deve essere posta in essere, ai sensi degli artt. 208, 214 e 216 d.lgs. 156/2006 da parte di un soggetto a ciò autorizzato (Sez. 3, n.25206 del 16/05/2012, Violato, Rv. 252981 – 01; Sez. 3, n. 17823 del 17/01/2012, Celano, Rv. 252617 – 01).
Ciò premesso, nella vicenda che ci occupa non risulta che il materiale rinvenuto fosse stato oggetto di operazioni di recupero, requisito essenziale ancora prima di stabilire che il recupero fosse stato operato da soggetto autorizzato, come sostiene la difesa.
Secondo il conforme accertamento di fatto delle sentenze di merito, non qui rivisitabile, sull’area sequestrata erano stati rinvenuti grossi cumuli di detr in buona parte proveniente dai crolli avvenuti a seguito del terremoto che ha colpito L’Aquila nel 2009. Detto materiale stimato di 10.000 tonnellate appariva datato in quanto ricoperto di arbusti e alberi e non semplici cespugli (cfr. pag. 6).
E proprio l’accertamento consegnato dai giudici del merito che contraddice quando sostenuto dalla difesa della possibilità del loro riutilizzo, e previo oggetto di operazione di recupero, e della conseguente cessazione della qualità di rifiuto. In tale situazione non è pertinente il richiamo all’attività di recupero svolta da società RAGIONE_SOCIALE, autorizzata a tale tipo di attività, e ciò sul duplice ril che il materiale rinvenuto, costituito, si ribadisce, da cumuli di detriti ricopert arbusti contraddice l’assunto difensivo, e del fatto che la società medesima aveva venduto nel 2012 il suddetto materiale alla società RAGIONE_SOCIALE di cui l’imputato era legale rappresentante, proprietaria dell’area su cui erano stati depositati i detriti
Dall’esclusione della natura di “End of Waste” del materiale rinvenuto nell’area in questione, e della corretta qualificazione di rifiuto di quanto depositat nell’area in sequestro, consegue la manifesta infondatezza anche del secondo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell’art. 183 comma 1 lett. bb ) e 256 comma 2 in relazione al comma 1 lett. a) del d.lgs n. 152 del 2006.
Premesso in linea generale che, come affermato nella giurisprudenza di legittimità, l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di lice del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall’art. 183 D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, COGNOME, Rv. 267636 – 01), onere che non è stato assolto, rileva, il Collegio, la manifesta infondatezza della censura.
Dall’accertamento di fatto consegnato dai giudici del merito, argomentare che l’ammasso dei rifiuti, come sopra rilevato, su un’area vasta che comprendeva anche un terreno di terzi, ammasso davvero imponente per quantità (10.000 tonnellate), che certamente ha richiesto la reiterazione di plurime condotte di abbandono, non essendo plausibile che con un’unica operazione si sia costituito un ammasso così imponente di rifiuti, che ha modificato finanche la sua morfologia essendo cresciuti arbusti e alberi, sia qualificabile quale deposito temporaneo e/o incontrollato risulta privo di fondamento.
Non si può qualificare né quale deposito temporaneo, rispetto al quale sarebbero scaduti i termini senza che il rifiuto fosse destinato al trattamento, né un deposito incontrollato, avuto riguardo alle dimensioni dell’area occupata e alla quantità dei rifiuti depositati che, secondo la giurisprudenza di legittimità costituisce la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata dal deposito incontrollato (Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, Rv. 276009 – 01).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, è necessario l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in un determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stess e dello spazio occupato (Sez. 3, n. 47501 del 13/11/2013, Caminotto, Rv. 257996), con conseguente degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi (Sez. 3, n. 27296 del 12/05/2004, COGNOME, Rv. 229062) ed essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata (Sez. 3, n. 39027 del 20/04/2018, COGNOME, Rv.273918).
Ed ancora, con riguardo all’ipotesi di reato di cui all’art. 256, comma 2, d.lgs. 152 del 2006, si è detto che, mentre l’abbandono di rifiuti è condotta istantanea, che differisce dalla discarica abusiva per la mera occasionalità, desumibile dall’unicità ed estemporaneità della condotta, che si risolve nel semplice collocamento dei rifiuti in un determinato luogo, in assenza di attività prodromiche o successive, e dalla quantità dei rifiuti abbandonati (Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, Cotto, Rv. 269914), la fattispecie di deposito incontrollato di rifiu riguarda un’ipotesi di deposito “controllabile” cui segue l’omessa rimozione nei tempi e nei modi previsti dall’art. 183, comma 1, lett. bb ), d.lgs. 152 del 2006, la cui antigiuridicità cessa con lo smaltimento, il recupero o l’eventuale sequestro
(Sez. 3, n. 6999 del 22/11/2017, COGNOME, Rv. 272632; Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014, COGNOME, Rv. 260011; reputano trattarsi di reato ad effetti eventualmente permanenti: Sez. 3, n. 38662 del 20/05/2014, COGNOME, Rv. 260380; Sez. 3, n. 42343 del 09/07/2013, COGNOME, Rv. 258313). Ma quando il deposito incontrollato si realizza con plurime condotte di accumulo di rifiuti, assenza di attività di gestione, la distinzione con l’ipotesi di reato di discarica n autorizzata dipende principalmente, secondo la giurisprudenza più sopra citata, dalle dimensioni dell’area occupata ed alla quantità dei rifiuti depositati (Sez. 3, n 38676 del 20/05/2014, COGNOME, Rv. 260384; Sez. 3, n. 49911 del 10/11/2009, COGNOME, Rv. 245865; Sez.3, n. 25532 del 27/01/2021, Mercattili, non mass.).
Ora, sulla scorta dell’accertamento di fatto operato dai giudici del merito, tenuto conto dell’estensione dell’area, anche in parte di terzi, e della quantita davvero ingente di rifiuti, corretta è la qualificazione giuridica del fatto qu discarica che, in quanto non autorizzata, integra il reato di cui all’art. 256 comma 3, d.lgs. 152 del 2006. Va da sé, come si avrà modo di dire infra, che risulta manifestamente infondata l’eccepita prescrizione del reato di deposito incontrollato.
Allo stesso modo, in via conseguenziale, risulta manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce il vizio motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità per il reato di discarica abusiva e di illecito urbanistico.
Al netto delle censure che involgono profili di merito e di diversa ricostruzione dei fatti, la censura appare inammissibile per manifesta infondatezza. A logica decisione sono pervenuti i giudici del merito nel ritenere, sulla scorta della piattaforma probatoria non qui rivalutabile, il reato di discarica abusiva in presenza di tutti gli elementi normativi (cfr. pag. 7).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, è necessario l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in un determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stess e dello spazio occupato (Sez. 3, n. 47501 del 13/11/2013, Caminotto, Rv. 257996), con conseguente degrado, anche solo tendenziale, dello stato dei luoghi (Sez. 3, n. 27296 del 12/05/2004, COGNOME, Rv. 229062) ed essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata (Sez. 3, n. 39027 del 20/04/2018, COGNOME, Rv. 273918).
In particolare, per quanto qui di rilievo, in tema di gestione dei rifiu integra il reato di realizzazione di discarica abusiva la condotta di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei t
previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell’area su cui insistono (Sez. 3, n. 41351 del 18/09/2008, COGNOME, Rv. 241533 – 01).
Quanto al reato di cui all’art. 44 lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, i giudi del merito, sulla scorta dell’accertamento di fatto sopra descritto, delle dimensioni dell’area, della quantità di rifiuti ivi allocati, hanno ritenuto che vi fosse stata modificazione dell’area sotto il profilo urbanistico che richiedeva il preventiv rilascio del permesso a costruire.
Il quarto motivo di ricorso con cui si deduce la violazione di legge in relazione agli artt. 44 lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001 e 256 comma 3 d.lgs n. 152 del 2006, art. 15 cod.pen., in punto assorbimento del primo reato nel secondo, è inammissibile perché non devoluto nei motivi di appello. In ogni caso va rilevato che le diverse discipline mirano a tutelare diversi beni giuridici, l’una l’assetto d territorio l’altra, la gestione dei rifiuti, sicchè i reati possono concorrere allor come nel caso che ci occupa, l’accumulo protratto di rifiuti, con tendenziale carattere di definitività, su un terreno ha comportato anche la modificazione tendenzialmente stabile del territorio.
Manifestamente infondato è il quinto motivo di ricorso con cui si eccepisce la prescrizione dei reati maturata, secondo la difesa, in epoca precedente alla sentenza impugnata.
A corretta decisione è pervenuta la corte territoriale che, con riguardo al reato di discarica abusiva, ha individuato il dies a quo nella data del sequestro dell’area avvenuto il 23/11/2017 secondo cui la permanenza del reato cessa: 1) con il venir meno della situazione di antigiuridicità, per rilascio dell’autorizzazio amministrativa; 2) con la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell’area; 3) con sequestro, che sottrae al gestore la disponibilità dell’area; 4) con la pronuncia della sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 9954 del 19/01/2021, COGNOME, Rv. 281587 03). Al periodo di cinque anni, ai sensi degli artt. 157 e 161 cod.pen., vanno aggiunti i periodi di sospensione del corso della prescrizione, dal 4/11/2019 al 18/02/2020, per richiesta di rinvio del difensore, per giorni 106, oltre ai 64 giorn per la disciplina emergenziale Covid, per complessivi giorni 170, si da individuare il momento della prescrizione al 12 maggio 2023, successivamente alla sentenza impugnata.
Allo stesso modo, anche per la contestazione di illecito urbanistico, come contestata in fatto (modifica permanente del territorio a seguito di accumulo definitivo di rifiuti) valgono gli stessi argomenti, la cessazione della permanenza va individuata nel sequestro dell’area, sicchè il reato urbanistico non era ancora prescritto alla data della sentenza impugnata.
In presenza, poi, di rilevata inammissibilità dei motivi di ricorso, v rammentato che non è rilevabile in sede di legittimità, la prescrizione del reato maturata nelle more del giudizio (Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, COGNOME
Rv. 256463, Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, COGNOME, Rv 217266; Sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, COGNOME).
Inammissibile è, infine, il motivo di ricorso con cui si contesta la disposta confisca dell’area ai sensi dell’art. 256, comma 3, terzo periodo, d.lgs n. 152 del 2006 per carenza di interesse ad impugnare ai sensi dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen.
L’area oggetto di confisca risulta pacificamente di proprietà della società RAGIONE_SOCIALE la quale è l’unica legittimata a chiedere la revoca della confisca al f di ottenere la restituzione del bene.
Sul punto, il Collegio condivide l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità secondo cui è inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione proposto dall’imputato che non è proprietario del bene sottoposto a confisca, salvo che non vanti un interesse concreto ed attuale alla proposizione dell’impugnazione (Sez. 6, n. 11496 del 21/10/2013, Rv. 262612; Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Rv. 270209; Sez. 3, n. 16352 del 11/01/2021, COGNOME, Rv. 281098 – 01; Sez. 3, n. 26511 del 16/03/2023, non massimata).
Nel caso di specie, nel ricorso non è stato dedotto alcun interesse concreto ed attuale alla proposizione dell’impugnazione da parte dell’imputato, che non è proprietario dell’area oggetto di confisca, essendo la proprietà in capo alla società RAGIONE_SOCIALE
Anche laddove, poi, si volesse ritenere sussistente un interesse ad impugnare, in conformità alla previsione di cui all’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., il Collegio rileva la manifesta infondatezza del motivo di gravame per le ragioni che seguono.
La confisca prevista dall’art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, in materia di discarica abusiva, costituisce un’ipotesi di confisca speciale obbligatoria che si applica in presenza di due presupposti: occorre, in primo luogo, che sussista una sentenza di condanna o di applicazione della pena, presupposto in forza del quale è stata esclusa la confisca in esame in caso di decreto penale di condanna (Sez. 3, n. 26548 del 22/05/2008, Rv. 240343; Sez. 3, n. 24659 del 19/03/2009, Rv. 244019) ovvero in caso di estinzione del reato (Sez. 3, n. 13741 del 22/03/2013; Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rattenuti, Rv. 257687; Sez. 3, n. 10873 del 13/03/2019; Sez. 3, n. 16436 del 21/01/2020).
In secondo luogo, è necessario che il terreno risulti di proprietà dell’autore del reato o del compartecipe, presupposto interpretato dalla giurisprudenza di Questa corte, secondo la quale è legittima la confisca del terreno di proprietà della società nell’interesse della quale ha agito il legale rappresentante, autore del reato, «atteso che quando l’attività illecita è posta in essere attraverso i propr organi rappresentativi, mentre a costoro sono addebitabili le responsabilità per i singoli reati, le conseguenze patrimoniali ricadono sull’ente esponenziale in nome
e per conto del quale gli organi hanno agito, salvo che si dimostri che l’imputato abbia agito di propria esclusiva iniziativa» (Sez. 3, n. 44426 del 07/10/2004, Rv. 230469; Sez. 3, n. 17349 del 29/03/2001, Rv. 219698).
A ben vedere, il secondo presupposto non fa altro che richiamare il limite generale di operatività della confisca previsto dall’art. 240, comma 3, cod. pen., secondo cui la confisca non può essere disposta se il bene appartiene a persona estranea al reato.
Nella giurisprudenza di Questa corte il concetto di “appartenenza a persona estranea al reato” si è optato per una nozione di “appartenenza” in senso sostanziale, per cui «in tema di confisca, non integra la nozione di “appartenenza a persona estranea al reato” la mera intestazione a terzi del bene mobile utilizzato per realizzare il reato stesso, quando precisi elementi di fatto consentano di ritenere che l’intestazione sia del tutto fittizia e che in realtà sia l’autore dell’il ad avere la sostanziale disponibilità del bene» (Sez. 2, n. 29495 del 10/06/2009, Rv. 244435; Sez. 2, n. 13360 del 03/02/2011, Rv. 249885). Più di recente, si è affermato che «ai fini della confisca prevista dall’art. 186, comma 2, lett. c), cod strada, la nozione di “appartenenza” del veicolo non va intesa soltanto in senso formale come proprietà o intestazione nei pubblici registri, ma anche in senso sostanziale, come effettivo e concreto dominio sulla cosa, che può assumere la forma del possesso o della detenzione, purché non occasionali» (Sez. 1, n. 14844 del 04/02/2020, Rv. 279052).
Per quanto riguarda, invece, il concetto di “persona estranea al reato”, si ritiene che l’estraneità non possa risolversi esclusivamente nella mancata partecipazione al reato. In linea con precedenti arresti, si è affermato che «è persona estranea al reato, nei confronti della quale non può essere disposta la misura di sicurezza ai sensi dell’art. 240, comma 3, cod. pen., colui il quale non abbia tratto vantaggi dall’altrui attività criminosa e che sia in buona fede, non potendo conoscere, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, l’utilizzo del bene per fini illeciti» (Sez. 3, n. 45558 del 16/11/2022, Rv. 284054; così anche Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017, Rv. 270250; Sez. 5, n. 42778 del 26/05/2017, Rv. 271441).
Sul punto, occorre ricordare come proprio le Sezioni Unite COGNOME (Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, COGNOME, Rv. 213511), «muovendo dal rilievo che il concetto di “estraneità” fosse stato variamente inteso nella giurisprudenza di legittimità (essendo stato interpretato, talora, nel senso della mancanza di qualsiasi collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto-reato, ossia nell’assenza di ogni contributo di partecipazione o di concorso, ancorché non punibile, e, altre volte, nel senso che non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi e utilità), condivisero proprio quest’ultima posizione in quanto sorretta da univoci e convincenti dati
interpretativi concorrenti a conformare la portata della nozione di “estraneità al reato” in termini maggiormente aderenti alla precisa connotazione funzionale della confisca, non potendo privilegiarsi la tutela del diritto del terzo allorquando costu abbia tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa e dovendo, anzi, riconoscersi la sussistenza, in una simile evenienza, di un collegamento tra la posizione del terzo e la commissione del fatto-reato» (così in motivazione Sez. 3, n. 45558 del 16/11/2022, pag. 31).
Orbene, ai fini di una corretta interpretazione ed applicazione dell’ipotesi di confisca speciale prevista dall’art. 256, comma 3, del Codice dell’ambiente, non si può non tenere conto, in chiave sistematica, di tali coordinate interpretative, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale in ordine al limite generale di operatività della confisca, ex art. 240, comma 3, cod. pen.
Nel caso di specie, la società RAGIONE_SOCIALE, formalmente proprietaria del terreno su cui è stata realizzata la confisca, non può essere considerata persona estranea al reato, alla luce dell’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite COGNOME. L’imputato, nei confronti del quale è stata accertata la penale responsabilità per il reato di discarica abusiva, ha agito in nome e per conto della società, quale legale rappresentante della stessa. In virtù del rapporto di immedesimazione organica, è evidente il collegamento tra la società e la commissione del fatto di reato, che esclude la possibilità di qualificare la società come terzo estraneo al reato.
Infine, tale conclusione non muta a fronte della disciplina di cui al d.lgs n. 231 del 2001. La previsione di una confisca del profitto del reato dipendente dall’illecito amministrativo di cui all’art. 25 undecies, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001 non vale ad escludere la confisca dell’area ove insiste la discarica prevista dal d.lgs n. 152 del 2006. La misura, lungi dal voler aggredire il patrimonio del privato ad libitum, intende sottrarre al privato proprio il terreno su cui è stato realizzato quel reato, nell’ottica di prevenire la commissione di nuovi reati secondo quanto affermato da un recente arresto, sulla restituzione della quota di proprietà spettante al comproprietario estraneo al reato, come proprietà individuale ed esclusiva di cui il reo non ha diritto di disporre, in cui si afferma che la ratio della norma va individuata «nell’esigenza di evitare che l’area interessata rimanga nella disponibilità del proprietario, il quale la abbia già utilizzata come strumento del reato» (pag. 5) (Sez. 3, n. 28751 del 11/05/2018, COGNOME, Rv. 273151).
10. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
d
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
L’inammissibilità del ricorso principale si estende ai motivi nuovi, rilevando, peraltro, la manifesta infondatezza degli stessi (vedi supra par. 5).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 23/11/2023