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Diritto di critica: legittimo se basato su dati di legge

Un cittadino è stato condannato per diffamazione per aver messo in dubbio la potabilità dell’acqua pubblica, basandosi su una legge che imponeva un valore pari a zero per i batteri, a fronte di referti di laboratorio che indicavano un valore “<1". La Corte di Cassazione ha annullato la condanna, valorizzando l'esercizio del diritto di critica. Secondo la Corte, il giudice di merito ha errato non valutando adeguatamente se le affermazioni del cittadino, sebbene potenzialmente inesatte, fossero giustificate da una lettura ragionevole del testo normativo. Il caso è stato rinviato per un nuovo giudizio.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Diritto di critica: quando basarsi sulla legge esclude la diffamazione

Il diritto di critica rappresenta un pilastro della nostra democrazia, ma quali sono i suoi limiti? Un cittadino che denuncia un presunto illecito basandosi sulla lettura letterale di una norma può essere condannato per diffamazione se la sua interpretazione si rivela tecnicamente imprecisa? A questa domanda ha risposto la Corte di Cassazione con una recente sentenza, annullando una condanna e riaffermando la tutela accordata a chi esercita il proprio diritto di critica in buona fede e su materie di interesse pubblico.

I fatti del caso: la qualità dell’acqua e la lettera di denuncia

La vicenda trae origine da una lettera inviata da un cittadino al proprio Comune e ad altre amministrazioni pubbliche. Nella missiva, l’uomo accusava una società incaricata delle analisi dell’acquedotto comunale di fornire dati non veritieri sulla potabilità dell’acqua. Il suo sospetto nasceva da una discrepanza fondamentale: la normativa di riferimento (il D.Lgs. n. 31 del 2001) stabiliva un valore pari a “zero” per la presenza di colibatteri affinché l’acqua fosse considerata potabile. I referti della società, invece, riportavano un valore “<1" (inferiore a uno).

Secondo il cittadino, questa dicitura non equivaleva a un’assenza totale di batteri e, pertanto, la società stava implicitamente dichiarando il falso, mettendo a rischio la salute pubblica. Per queste affermazioni, ritenute lesive della reputazione del legale rappresentante della società, il cittadino veniva condannato per diffamazione sia in primo grado che in appello.

La decisione della Cassazione e l’importanza del diritto di critica

Investita della questione, la Corte di Cassazione ha ribaltato il verdetto, annullando la sentenza di condanna e rinviando il caso a un nuovo giudice per una nuova valutazione. Il cuore della decisione non risiede tanto nella corretta interpretazione tecnica del valore “<1", quanto nel mancato approfondimento, da parte dei giudici di merito, dei presupposti per l'applicazione dell'esimente del diritto di critica, previsto dall’art. 51 del codice penale.

La Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza d’appello “del tutto carente”, quasi apparente. I giudici precedenti si erano limitati ad accettare la versione dei testimoni della parte civile (dipendenti della società di analisi), secondo cui il valore “<1" significava, in gergo tecnico, "assenza di crescita del microrganismo ricercato", senza però spiegare perché tale interpretazione dovesse prevalere sul chiaro dato letterale della legge, che indicava "zero".

Le motivazioni

La motivazione della Cassazione si concentra sul concetto di verità putativa. Per essere scriminata, la critica non deve necessariamente fondarsi su un fatto oggettivamente vero in ogni suo dettaglio. È sufficiente che colui che critica abbia adempiuto a un onere di verifica e controllo, agendo in buona fede sulla base di elementi concreti. In questo caso, l’elemento concreto era il testo di un decreto legislativo dello Stato.

La Corte ha sottolineato che il giudice d’appello avrebbe dovuto porsi una domanda cruciale: il cittadino, pur avendo forse frainteso il significato tecnico del referto, aveva comunque basato le sue conclusioni su una fonte attendibile e apparentemente inequivocabile come la legge? Non si può pretendere da un comune cittadino la stessa competenza di un tecnico di laboratorio. Il suo affidamento sul tenore letterale della norma era, secondo la Cassazione, un elemento che andava attentamente vagliato per stabilire la sua buona fede e, di conseguenza, la legittimità della sua critica, per quanto aspra.

Il Tribunale non ha chiarito perché l’assenza di crescita di microrganismi dovesse equivalere al parametro “zero” richiesto dalla legge, né ha verificato l’attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni della parte civile. In sostanza, ha omesso di compiere quella valutazione di bilanciamento tra il diritto alla reputazione e il diritto di critica su un tema di evidente interesse sociale come la qualità dell’acqua potabile.

Le conclusioni

Questa sentenza rafforza un principio fondamentale: il diritto di critica, specialmente quando riguarda la tutela di beni pubblici come la salute e l’ambiente, gode di una protezione rafforzata. Un cittadino non può essere automaticamente condannato per diffamazione se le sue accuse, per quanto forti, si fondano su un’interpretazione ragionevole e in buona fede delle norme vigenti. La decisione della Cassazione è un monito per i giudici di merito a non fermarsi a una valutazione superficiale, ma a indagare a fondo la sussistenza della cosiddetta “verità putativa”, verificando se l’autore della critica abbia agito con la dovuta diligenza nell’accertare i fatti. In un’epoca di trasparenza e partecipazione, la voce dei cittadini che vigilano sull’operato di enti pubblici e privati merita tutela, non una frettolosa condanna.

Quando è legittimo esercitare il diritto di critica anche se il fatto contestato non è oggettivamente vero?
È legittimo quando chi critica ha agito in buona fede e ha compiuto un serio sforzo per verificare la veridicità delle sue fonti, basando le proprie convinzioni su elementi concreti e attendibili, come il testo letterale di una legge. In questi casi si parla di “verità putativa”.

Affermare che l’acqua è inquinata basandosi su una lettura letterale della legge è diffamazione?
Non necessariamente. La Corte di Cassazione ha stabilito che una condanna per diffamazione non è legittima se il giudice non valuta approfonditamente se la convinzione del cittadino fosse ragionevolmente fondata sulla norma di legge, anche se la sua interpretazione si rivela tecnicamente imprecisa.

Cosa significa che la motivazione di una sentenza è “carente” o “apparente”?
Significa che il ragionamento del giudice è superficiale, non approfondisce i punti cruciali della controversia o si basa su affermazioni non verificate. Una motivazione di questo tipo non è sufficiente a sostenere una decisione e può portare all’annullamento della sentenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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