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Diritto all’interprete: quando lo straniero lo perde?

Un imprenditore straniero ricorre in Cassazione lamentando la violazione del suo diritto a un interprete. La Corte dichiara il ricorso inammissibile, stabilendo che il diritto all’interprete non è automatico per chi non è cittadino italiano. La capacità dell’imprenditore di gestire la sua attività, interfacciarsi con clienti e dialogare in italiano con le autorità ha dimostrato la sua comprensione della lingua, rendendo non necessaria la presenza di un traduttore. La decisione sottolinea che tale diritto è subordinato a un’effettiva e accertata incapacità linguistica.

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Pubblicato il 24 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diritto all’interprete: non basta essere stranieri per ottenerlo

Il diritto all’interprete nel processo penale è una garanzia fondamentale, ma non è un automatismo concesso a ogni imputato straniero. Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione chiarisce che tale diritto è strettamente legato all’effettiva incapacità di comprendere la lingua italiana, che deve essere concretamente accertata. Se l’imputato dimostra nei fatti di padroneggiare la lingua, la nomina di un interprete non è dovuta. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I fatti del processo

Il caso riguarda un imprenditore di nazionalità straniera, titolare di una ditta individuale dal 2007, che impugnava una sentenza della Corte d’Appello. Il ricorrente lamentava la violazione delle norme processuali relative all’assistenza di un interprete, sostenendo di non aver compreso pienamente gli avvisi ricevuti durante le indagini preliminari.

La sua tesi, però, si è scontrata con una serie di elementi fattuali che dimostravano il contrario. Durante un controllo fiscale, l’imprenditore aveva compreso e risposto adeguatamente alle richieste dei militari della Guardia di Finanza, esibendo la documentazione contabile richiesta. Successivamente, si era recato di persona presso gli uffici delle autorità, fornendo le proprie generalità, qualificandosi come imprenditore e comunicando la sua intenzione di nominare un difensore di fiducia, il tutto parlando in lingua italiana e senza l’ausilio di alcun traduttore.

La decisione della Corte di Cassazione e il diritto all’interprete

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno ritenuto che le censure del ricorrente fossero una mera riproposizione di argomenti già correttamente respinti nei gradi di giudizio precedenti. La Corte ha ribadito un principio consolidato: lo status di straniero non è, da solo, sufficiente a far scattare automaticamente il diritto all’interprete.

È necessario un presupposto ulteriore e indefettibile: l’accertata incapacità di comprendere la lingua italiana. Nel caso di specie, le circostanze concrete smentivano categoricamente tale incapacità. La capacità dell’imprenditore di gestire quotidianamente la sua attività, interfacciandosi con clienti e fornitori, e di comunicare efficacemente con le forze dell’ordine, è stata considerata una prova schiacciante della sua piena comprensione della lingua.

Le motivazioni

La motivazione della Corte si fonda sull’interpretazione dell’art. 143 del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce che il diritto all’assistenza di un interprete sorge quando vi è una reale difficoltà linguistica che potrebbe compromettere il diritto di difesa. Non si tratta di un diritto assoluto legato alla cittadinanza, ma di una garanzia funzionale a un equo processo.

La Corte ha evidenziato come la condotta dell’imputato, sia nella vita professionale sia nei rapporti con l’autorità giudiziaria, dimostrasse in modo inequivocabile una padronanza della lingua italiana sufficiente a comprendere gli atti che lo riguardavano. Pertanto, la mancata nomina di un interprete non ha costituito alcuna violazione processuale. L’ordinanza richiama un precedente orientamento (Cass. Pen., n. 30379/2018), secondo cui il giudice deve valutare caso per caso la reale necessità dell’ausilio linguistico. Dichiarando inammissibile il ricorso e non ravvisando assenza di colpa, la Corte ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro.

Conclusioni

Questa pronuncia rafforza un approccio pragmatico alla tutela dei diritti processuali. Il diritto all’interprete è uno strumento essenziale per garantire che l’imputato straniero possa partecipare consapevolmente al processo, ma la sua applicazione deve basarsi su una valutazione concreta e non su presunzioni astratte. La decisione insegna che le azioni e la condotta di un individuo nella vita di tutti i giorni possono avere un peso determinante nel contesto processuale, anche per stabilire il livello di comprensione linguistica e, di conseguenza, l’effettiva necessità di garanzie specifiche.

Il diritto all’interprete è automatico per un imputato straniero?
No, non è automatico. La sua concessione è subordinata all’accertamento di un’effettiva incapacità di comprendere e parlare la lingua italiana, che il giudice valuta sulla base di elementi concreti.

Come può il giudice determinare se uno straniero comprende la lingua italiana?
Il giudice valuta elementi di fatto, come la capacità dell’imputato di gestire un’attività commerciale, interagire con clienti e fornitori, o comunicare in modo appropriato con le autorità, come avvenuto nel caso specifico. Se queste attività vengono svolte in italiano senza difficoltà, si presume una sufficiente comprensione della lingua.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte non esamina il merito della questione. Di conseguenza, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese del procedimento e, se non dimostra l’assenza di colpa, al versamento di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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