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Diritto alla traduzione: quando non è obbligatoria?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino straniero che lamentava la mancata traduzione degli atti processuali. La Suprema Corte ha stabilito che il diritto alla traduzione non è assoluto se il giudice accerta, con motivazione adeguata, che l’imputato comprende la lingua italiana, basandosi su elementi come la sua permanenza in Italia e il suo comportamento durante l’interrogatorio.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Diritto alla Traduzione: quando il giudice può negarlo?

Il diritto alla traduzione degli atti processuali rappresenta una garanzia fondamentale per l’imputato straniero che non comprende la lingua italiana. Tuttavia, questo diritto non è assoluto. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 13000/2024) ha chiarito i presupposti in base ai quali un giudice può ritenere non necessaria la traduzione, senza violare il diritto di difesa. Analizziamo insieme questo importante caso.

I Fatti del Caso

Un cittadino straniero, arrestato per tentata rapina impropria in concorso, si è visto convalidare l’arresto e applicare la misura della custodia in carcere dal G.i.p. del Tribunale di Firenze. L’indagato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando la violazione del suo diritto di difesa. Il motivo principale del ricorso era la mancata traduzione in inglese, lingua da lui conosciuta, degli atti fondamentali del procedimento, come l’ordinanza di convalida. Sebbene durante l’interrogatorio fosse presente un interprete, la difesa sosteneva che ciò non fosse sufficiente a garantire una piena comprensione delle accuse e degli atti a suo carico, invocando una violazione degli articoli 143 e 143-bis del codice di procedura penale.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione del G.i.p. I giudici hanno stabilito che l’accertamento della conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato è una valutazione di fatto che spetta al giudice di merito. Se tale valutazione è motivata in modo corretto ed esaustivo, non può essere messa in discussione in sede di legittimità.

Il Diritto alla Traduzione e la Conoscenza della Lingua Italiana

La Corte ha ribadito un principio cruciale: il diritto alla traduzione non scatta automaticamente per il solo fatto che l’imputato sia straniero. È necessario che egli non sia in grado di comprendere la lingua italiana. Il giudice del merito ha il potere e il dovere di verificare concretamente tale capacità.
Nel caso specifico, il G.i.p. aveva fondato la sua convinzione su una serie di elementi convergenti che dimostravano una sufficiente conoscenza dell’italiano da parte dell’indagato, rendendo superflua la traduzione scritta degli atti.

Le Motivazioni

La Cassazione ha ritenuto che la motivazione del G.i.p. fosse logica e completa. Gli elementi valorizzati erano i seguenti:
1. Dichiarazioni dell’indagato: L’uomo aveva dichiarato di trovarsi in Italia da circa dieci anni, un periodo di tempo considerato sufficiente per acquisire una conoscenza base della lingua.
2. Testimonianza della coindagata: La complice aveva affermato che l’indagato comprendeva e parlava ‘benissimo’ l’italiano.
3. Comportamento in udienza: Durante l’interrogatorio, registrato, l’indagato aveva dimostrato di capire le domande poste direttamente in italiano dal giudice, anticipando in alcuni casi la traduzione dell’interprete.
4. Assenza di segnalazioni: Gli agenti di polizia giudiziaria che avevano proceduto all’arresto non avevano mai segnalato difficoltà di comunicazione linguistica.
La Corte ha inoltre specificato che la nomina di un interprete durante l’interrogatorio era stata disposta ‘per maggiore garanzia’, su richiesta della difesa, ma ciò non creava una contraddizione con l’accertamento della comprensione della lingua e non implicava un obbligo automatico di tradurre tutti gli atti scritti.

Le Conclusioni

La sentenza n. 13000/2024 rafforza il principio secondo cui la valutazione sulla necessità di tradurre gli atti processuali è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito. Il diritto alla traduzione è una tutela imprescindibile per chi non capisce la lingua del processo, ma non può essere invocato in modo strumentale quando vi siano prove concrete della capacità dell’imputato di comprendere l’italiano. La decisione sottolinea l’importanza di una valutazione caso per caso, basata su un’analisi attenta di tutti gli elementi disponibili, per bilanciare efficacemente il diritto di difesa con le esigenze di efficienza del sistema giudiziario.

Quando non è obbligatoria la traduzione degli atti per un imputato straniero?
La traduzione non è obbligatoria se il giudice accerta, con una motivazione corretta ed esaustiva, che l’imputato possiede una conoscenza della lingua italiana sufficiente a comprendere gli atti del procedimento.

Come può il giudice accertare la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato?
Il giudice può basare la sua valutazione su diversi elementi, tra cui: le dichiarazioni dello stesso imputato (ad esempio, sul tempo di permanenza in Italia), le testimonianze di terzi (come i coimputati), l’osservazione diretta del suo comportamento durante l’interrogatorio e le relazioni degli agenti di polizia giudiziaria.

La presenza di un interprete durante l’interrogatorio obbliga a tradurre tutti gli atti del procedimento?
No. Secondo la Corte, la nomina di un interprete può essere disposta per maggiore garanzia, ma non implica automaticamente l’obbligo di tradurre tutti gli atti scritti, specialmente se il giudice ha già accertato che l’imputato è in grado di comprendere la lingua italiana.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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